Un lager vale l’altro
L’unicità dello sterminio degli ebrei non esclude il confronto. Con che cosa? Con l’eliminazione, nella Russia di Stalin, di 20 milioni di nemici di classe. Una tesi provocatoria? O il riesame spregiudicato di un dilemma politico e morale?
di Ernesto Galli della Loggia
Si assiste da tempo, invece, a una riproblematizzazione per così dire storica e morale dell’olocausto (come viene oggi generalmente chiamato, con un termine che a me personalmente non piace, sia per il sapore religioso-sacrificale che bi è connesso, sia per l’omaggio di maniera che i non ebrei che l’adoperano credono, adoperandolo, di rendere alla memoria delle vittime).
Riproblematizzazione che mi sembra abbia avuto la sua tappa iniziale negli studi di alcuni ricercatori, soprattutto anglosassoni, e spesso ebrei, dedicati specialmente al modo in cui i governi e le opinioni pubbliche dei Paesi democratici reagirono (o, come fu quasi sempre il caso, non reagirono) alla persecuzione hitleriana. Si tratta dunque di una riproblematizzazione storica e morale che nulla a che fare con i tentativi di qui pochi che invano mirano a contestare la portata fatture dello sterminio o addirittura a negarne l’esistenza.
Ma il discutere del genocidio nazista e di tutte le questioni che esso implica si rivela ancor oggi difficilissimo alla coscienza occidentale per il troppo e giustificato senso di colpa di cui essa si sente pur partecipe, da un lato, e per l’altissimo carico emotivo che quell’evento si è lasciato dietro di sé, dall’altro. Sono poche le sedi come la New York Review of Books (tempio dell’intellettualità liberal americana, ma liberal davvero, non già a chiacchiere autogratulatorie), nelle quali sono possibili la serenità e la tolleranza.
E dove quindi, per esempio, Gordon A. Craig, forse il più noto tra gli studiosi americani di storia tedesca, dando conto della discussione aperta in Germania da Habermas, può non solo sottolineare alcune gravi scorrettezze polemiche di questo, ma, pur prendendo le distanze dalle tesi revisioniste, in particolare quelle di Ernest Nolte, anche scrivere che nessuno dei loro autori (e tanto meno Andreas Hillgruber, particolarmente prese di mira da Habermas) «può essere considerato, neppure con la più fervida fantasia, un apologeta del nazionalsocialismo».
Proprio la polemica clamorosamente suscitata da Habermas e certi suoi echi italiani hanno fatto vedere come meglio non si poteva quali sono le carni vive della coscienza occidentale che una riproblematizzazione storico-morale del genocidio ebraico può andare a colpire in modo dolorosissimo.
Il sociologo di Francoforte e coloro che anche da noi si muovono sulla sua scia considerano, infatti, una riproblematizzazione attualmente infondata e moralmente riprovevole ogni analisi storica che comunque associ e, ancor peggio, vada nel senso di omologare lo sterminio ebraico a fatti a esso in qualche modo paragonabili. essi accusano pertanto alcuni storici tedeschi che si sono per l’appunto messi su questa linea di voler solo, in tal modo, «banalizzare» il genocidio antiebraico, con l’intento inconfessato di alleviare la colpa che alla fine della guerra persa sulla Germania come un macigno.
Ma quali fatti, quali altrui fatti potrebbero, se non altro in termini quantitativi, essendo paragonati al genocidio nazista? E’ evidente che, a parte lo sterminio degli Armeni, compiuto dai Turchi nel 1915-’16, che fece un milione e forse più di vittime, il solo altro termine di confronto possibile è rappresentato dalle immense perdite di vite umane connesse all’esistenza, in Russia, del potere sovietico. ma è precisamente il fatto che sia questo l’unico termine di confronto possibile, o quasi, a indicare qual è la vera posta in gioco di quella problematizzazione storico-morale dello sterminio nazista che oggi si rimprovera con scandalo alla storiografia tedesca.
La ragione vera per cui a tanti ripugna associare la violenza hitleriana a quella bolscevico-sovietica sta nel fatto che sembra a essi che in tal modo il carattere barbarico e sterminatore della prima possa venire attenuato per l’assimilazione a un’altra violenza, quale la seconda, dagli stessi ritenuta, a differenza dell’altra, «politica»: cioè in qualche misura giustificabile e degna e, semmai, frutto non già di un’intenzione originaria, bensì di una degenerazione successiva e per così dire casuale (la rivoluzione impazzita), di cui solo Stalin sarebbe stato responsabile.
Ma perché mai, è lecito chiedersi, dovrebbe essere questo l’esito della temuta comparabilità? Perché mai non potrebbe e non dovrebbe essere il contrario? E cioè che, lungi dal significare attenuazione del peso e del significato della violenza nazista, il confronto mettesse capo viceversa a un giudizio più aspro circa quella comunista bolscevica?
Concettualmente ed emotivamente cruciale, dunque, non è tanto l’esigenza di custodire in una sfera di terribile unicità la violenza del genocidio nazista, quanto piuttosto la distinzionenetta e indiscutibile tra una violenza sicuramente da rifiutare e una violenza come minimo problematica. Quasi che solo tale distinzione consentisse di circondare gli esiti della prima violenza di una piena e irrefutabile esecrabilità.
La distinzione tra violenza cattiva e violenza problematica (o addirittura buona) si dispone lungo il discrimine reazione/rivoluzione, ed è da tale spartiacque che essa desume il giudizio sulla qualità della violenza.
Avviene così che tutta la nostra cultura politica, mentre è irresistibilmente o quasi inavvertitamente porta ad applicare alla violenza reazionaria e controrivoluzionaria il punto di vista delle vittime, e quindi a escludere dal criterio del giudizio morale su di essa qualsiasi considerazione circa l’intento politico-ideologico sugli autori, ritenuto in ogni caso negativo, poi viceversa tenda, quella stessa cultura, ad applicare sempre e comunque alla violenza rivoluzionaria l’attenuante di aver agito in base a motivi di particolare valore sociale e storico, prescindendo quindi interamente dalla soggettività di coloro che quella violenza hanno dovuto subire sulla propria carne, finendo in tal modo per trovarsi quasi inevitabilmente dalla parte dei carnefici.
Appena poche settimane dopo la conquista del potere da parte dei bolscevichi, Steinberg, il socialista rivoluzionario che ricopriva la carica di commissario del popolo della Giustizia, di fronte alle prime indiscriminate misure repressive del governo sovietico, si rivolse esasperato a Lenin: «Ma allora che ci stiamo a preoccupare tanto di un commissario alla Giustizia? Chiamiamolo direttamente commissariato allo sterminio sociale e facciamola finita!». la risposta di Lenin fu fulminante: «Ben detto! Dovrebbe essere proprio questo… ma non possiamo dirlo».
Lo scambio di battute è un’introduzione adeguata a ciò che accadde in Russia negli anni seguenti. E infatti si trova, non a caso, in quello che forse è l’unico libro compilato con criteri scientifici sugli esordi del sistema repressivo sovietico e sulle sue gesta durante la rivoluzione: il volume di Gorge Leggett, The Cheka, Lenin’s Political Police, uscito alcuni anni fa in Gran Bretagna. Se fosse stato letto, così come se fossero stati davvero letti i libri di Aleksandr Solgenitsin, nessuno oggi potrebbe venire a parlare ancora di degenerazioni staliniane.
Il tema centrale che tali libri pongono è per l’appunto quello dello sterminio di classe, e la domanda che rivolgono alla nostra coscienza, prima forse che al nostro giudizio storico, è precisamente se esiste una differenza, e quale, tra sterminio di classe e sterminio di razza. Hannah Arendt (anch’essa autrice assai più citata che letta) pensava che tra i due ci fosse un’analogia sostanziale dal momento che «per il funzionamento dei regimi totalitari è assai più decisiva l’introduzione del concetto di “nemico oggettivo” che non la definizione ideologica del suo contenuto»; «in Germania, dopo il 1938, questo elemento fu rappresentato dalle masse ebraiche, in Russia da qualunque gruppo che per una qualsiasi ragione, ma indipendentemente dai suoi atti, cadesse in disgrazia presso il potere».
Certo non sembra fatto per contraddire le tesi della Arendt quanto scriveva nel novembre 1918 sul periodico della Cheka del fronte orientale, Terrore rosso, il capo stesso di quell’organizzazione: «Noi non stiamo facendo una guerra contro degli individui.Noi stiamo sterminando la borghesia come classe. Durante le investigazioni non cercate la prova che l’accusato abbia agito a parole e a fatti contro il potere sovietico.
Le principali domande che ci si deve fare sono: a quale classe appartiene? Qual è la sua origine? Quali la sua istruzione o professione? Sono queste le domande che devono decidere il destino dell’accusato, e in ciò risiedono il significato e l’essenza del Terrore rosso». Del resto già sulla Pravda, preannunciando il decreto del 5 settembre sul Terrore rosso, si poteva leggere un’esortazione agli operai di questo tenore: «Preparatevi ad un assalto di massa spietato contro i nemici della rivoluzione. Le città debbono essere ripulite di questa putredine borghese. Tutti i signori borghesi devono essere registrati, così come i signori ufficiali, e tutti coloro che sono pericolosi per la causa della rivoluzione, devono essere sterminati… D’ora in poi l’inno della classe operaia sarà un inno di odio e di vendetta».
Non furono parole al vento. Per la difficile situazione dei rifornimenti, alla borghesia urbana furono assegnate razioni alimentari che significavano in pratica la morte per inedia; per la prima volta nella storia, l’uso dei campi di concentramento fu esteso ai cittadini del proprio Paese di null’altro colpevoli se non di un’appartenenza politica e sociale; le fucilazioni di ostaggi (compresi donne e bambini) raggiunsero proporzioni di 150 a uno, toccando livelli quantitativi di 2 mila nell’arco di un solo giorno e di una sola località; le torture e i metodi d’eliminazione più feroci furono impiegati in un’infinità di casi (dall’impalamento all’immersione nell’acqua bollente, all’infilare i condannati in bare piene di chiodi che gli trafiggevano le carni).
Che Lenin fosse a perfetta conoscenza di tutto ciò, e anzi spesso vi aggiungesse il suo incoraggiamento, lo indicano prove schiaccianti che ridicolizzano la tesi della degenerazione. E neppure è sostenibile la tesi dell’inevitabile ferocia della guerra civile. Nel maggio del 1922, quando la guerra civile era finita da un pezzo, esce qual era l’opinione di Lenin sul nuovo Codice penale sovietico allora in preparazione: «La legge non deve abolire il terrore.
Esso deve essere sostanziato e legalizzato in linea di principio, chiaramente, senza elusioni o abbellimenti. Il paragrafo sul terrore deve essere formulato il più largamente possibile, dal momento che soltanto una coscienza rivoluzionaria della giustizia e la coscienza rivoluzionaria in generale possono determinare le condizioni della sua pratica applicazione». Tutto, così, era pronto per essere affidato alla «coscienza rivoluzionaria» di Stalin, le cui manifestazioni sono abbastanza note nelle lorolinee generali.
Ma alcuni punti devono essere ricordati. Soprattutto le cifre. Secondo Robert Conquest, lo storico forse più autorevole in questo campo di studi (Il grande terrore, editore Mondatori), agli inizi del 1937 erano rinchiuse nei lager sovietici circa 5 milioni di persone, alle quali se ne aggiunsero altri 7 nei 24 mesi seguenti, per una cifra complessiva di 12 milioni.
Di questi, almeno un milione di uomini furono uccisi nel corso di esecuzioni singole o di massa, e almeno 2 milioni morirono di morte «naturale» nel biennio 1937-’38. Dopo questa data la popolazione dei lager salì di nuovo bruscamente, fino a 12-15 milioni nel periodo compreso tra il 1939 e la fine degli anni ’40.
Poiché il tasso di mortalità media annua (mortalità «naturale») si può stimare a seconda dei periodi tra il 10 e il 20 per cento, ne risulta che tra il 1936 e il 1950 morirono nei campi sovietici circa 12 milioni di persone. se a questi si aggiungono i circa 7 milioni di uomini, di donne e di bambini, periti a causa della collettivizzazione forzata delle campagne e delle relative deportazioni, si raggiunge la cifra di 20 milioni di morti (da non confondere con l’eguale cifra di 20 milioni di morti che costò alla Russia la seconda guerra mondiale)
Viene da chiedersi cosa mai possa esserci di «banale» in un tale terrificante oceano di morte, che fa ritenere per l’appunto «banalizzazione» la sola idea di assumerlo a termine di confronto per la catastrofe dell’ebraismo europeo. ma sono d’accordo che non può essere solo questione di cifre: la comparabilità non può essere solo numerica. Giustamente Primo Levi ha scritto che la specificità dei campi di sterminio tedeschi come quelli di Chelune o di Treblinka stava nel loro essere veri e propri «buchi neri», destinati esclusivamente a dare la morte e a null’altro, dove centinaia di migliaia di ebrei scendevano dai treni solo per essere avviati alle camere a gas.
E’ vero. Ma mi domando quale parola, quale termine sarebbero adatti a definire, per esempio, il campo di Kolyma. Sì, formalmente si trattava di un complesso di campi di lavoro minerari situati nel cuore della Siberia orientale, ai quali si arriva dopo un viaggio terribile su quelle che sono state definite «navi della morte» per il numero dei decessi che vi si verificavano (in un caso un incendio a bordo di una di esse uccise i 2 mila prigionieri incatenati sotto i boccaporti).
Il lavoro, svolto elle condizioni più primordiali, era obbligatorio fino a 50 gradi sotto zero, con una razione alimentare che era di 800 grammi di pane al giorno, ma solo per coloro che raggiungevano il 100 per cento della quantità di lavoro assegnata. nel ’38 le pellicce furono bandite e ai prigionieri vennero consentiti solo indumenti imbottiti di ovatta e calzature di tela.
A Kolyma il tasso di mortalità era superiore al 30 per cento annuo, il che vuol dire che in pratica era pressoché impossibile sopravvivere più di 24-36 mesi; si calcola infatti che nel periodo 1937-’41 siano morte, nel complesso di quei campi, almeno un milione di persone. non tutte di morte «naturale». Nel ’38 un boia della Nkvd comandante del lager, tale Garamin, fece installare per esempio il campo speciale di Serpantinka destinato alle esecuzioni di massa mediante fucilazione: nel giro di soli 12 mesi furono 26 mila.
D’altra parte, qualunque fosse il fine istituzionale del Gulag staliniano, sta di fatto che secondo Roy Medvedev «il 90 per cento di coloro arrestati prima della guerra, o condannati ai campi di lavoro, non sopravvisse». Mi domando – e credo che sia domanda storicamente lecita – se cifre e percentuali come quelle fin qui riportate autorizzino a definire la mortalità del Gulag, come Levi l’ha definita, «un sottoprodotto tollerato con cinica indifferenza».
Come non pensare, tra l’altro, prima di esprimere un giudizio, al fatto che ogni discorso sull’universo concentrazionario sovietico deve tener conto della nostra ignoranza? Infatti dello sterminio nazista possediamo una documentazione pressoché integrale, compresi migliaia di foto e metri di pellicola; di quello sovietico invece nulla. Ma che panorama ci offrirebbe, che giudizio daremmo, se gli archivi sovietici ci spalancassero la vista delle tecniche, dei gesti, dei paesaggi, dei volti, del sadismo, che hanno fatto da sfondo alla morte di 20 milioni di uomini?
Comunque, se 20 milioni di vittime sono un «sottoprodotto», pure bastano, forse, a rendere quanto meno problematica l’ipotesi che nella violenza comunista-bolscevica fossero assenti quelle caratteristiche di pianificazione e di centralizzazione dello sterminio di massa che furono proprie del nazismo.
Quando, come riporta Conquest, il comandante del Nkvd (antesignano dell’odierno Kgb) della capitale della Kirghisia riceveva da Mosca telegrammi come questo: «Vi è stato assegnato l’incarico di sterminare 10 mila nemici del popolo. Riferite telegraficamente i risultati» e la forma e il tenore della replica erano: «In risposta alla vostra del… sono stati sterminati i seguenti nemici del popolo», il tutto seguito dall’elenco dei disgraziati in questione; ovvero quando al Nkvd di Sverdlovsk veniva ingiunto sic et simpliciter di procedere all’esecuzione di 15 mila persone, è difficile non veder proiettata anche sui massacri staliniani del 1937-38 quella stessa cupa ombra di routine burocratica, organizzata e diretta dall’alto, che è parte così grande dell’orrore che suscita in noi la macchina sterminatrice nazista.
Resta tuttavia l’obiezione che, mentre dalla macchina del genocidio hitleriano nessun ebreo (foss’egli stato per avventura anche una camicia bruna) aveva la possibilità di salvarsi, viceversa lo sterminio sovietico non possedeva il medesimo carattere implacabilmente mirato.
Credo che l’obiezione abbia un rilievo, anche assai grande, soprattutto sul piano concettuale.
Ma nei fatti mi pare difficile che un socialista rivoluzionario, un kulako, un borghese abbiano avuto molte probabilità (forse quasi nessuna) di salvarsi se la loro famiglia, la cerchia delle amicizie, il gruppo di appartenenza, sono venuti a trovarsi nel mirino della repressione. La cui sistematicità era sì erratica nel senso di colpire ora qui ora là e dunque in questo senso non sistematica; ma pure sistematicissima e spietata quando puntava in una direzione.
L’importante è ce quando lo faceva, essa usava un criterio (quello di «nemico del popolo» alias «di classe») che, proprio per la sua formulazione puramente ideologico-astratta, nulla aveva a a che fare con contenuti oggettivi e specifici imputabili a questo o a quello. Le vittime erano, per così dire, dedotte a priori, in questo senso, dunque, predestinate.
Egualmente dedotte a priori su una base ideologica erano le vittime ebree del nazismo. Ed è questo elemento insieme alla vastità, e alla pianificazione centralizzata dello sterminio, che rende lecito istruire una comparabilità tra i due eventi. Il che non vuol dire che il genocidio antiebraico non possieda una sua specificità assoluta: la comparabilità non esclude l’unicità.
Il procedimento della massificazione, l’uso dei cadaveri come materia prima, l’inclusione dell’infanzia nel novero dei predestinati al massacro, e infine il lineare perseguimento di questo in una dimensione di tetra e ineguagliata scientificità rendono il genocidio hitleriano qualcosa di assolutamente peculiare.
E’ vero che tutti questi elementi, presi da soli (compreso l’uso del gas, inaugurato, come si sa, non per la «soluzione finale», bensì per il programma di «eutanasia»), hanno dei precedenti e delle analogie, dando per l’appunto la comparabilità; ma essi furono presenti, tutti e tutti insieme, e con una forza distruttiva eccezionale, solo nel genocidio nazista. proprio da ciò deriva la sua unicità, che talvolta sembra sfidare perfino la nostra capacità di comprendere, e proprio per questo esso ci si presenta a ragione come avvolto in un’aura di sacralità.
Ma se questa è, come deve essere, la conclusione, perché è tuttavia così importante affermare la comparabilità tra il genocidio nazista e ciò che è successo nella Russia bolscevica? A cosa serve? No di certo a fare dell’anticomunismo viscerale,come si dice con una formula un po’ vecchia ma sempre pronta all’uso. Serve qualcosa di molto importante: e cioè a consentire finalmente alla cultura democratica un riesame spregiudicato di quel grande tema politico e insieme morale che è rappresentato dalla violenza.
Che i tempi siano maturi per questo riesame lo suggerisce la concomitanza , che è difficile pensare casuale, tra il dibattito ora apertosi in Germania e quello in corso in Francia sulla natura e i caratteri della Rivoluzione francese. Anche in Francia, infatti, nel quadro di una riconsiderazione generale di quello che fu il meccanismo rivoluzionario dell’89, si è accesa una disputa vivacissima non solo sulla «necessità» del terrore giacobino e sulle sue effettive modalità; ma – ciò che è ben più importante – sull’incidenza che il terrore e tutto ciò che al Terrore si riconnette ha avuto nel plasmare l’idea di democrazia che il pensiero radicale europeo ha coltivato per 150 anni.
I due dibattiti vertono su argomenti all’apparenza diversi ma uniti da un nesso corposissimo che chiama in causa un tratto decisivo del modo d’essere e di pensare dei popoli del continente: il ruolo, appunto, della violenza, nella storia dell’Europa contemporanea; e, ancor di più, la posizione ideologica di fronte a essa. Non meraviglia che, seguendo i tratti caratteristici di due storie nazionali così archetipicamente contrapposte, questo ruolo venga colto sul versante della Francia nel suo rapporto con la «rivoluzione», sul versante della Germania,invece, in rapporto alla «reazione».
Il pensiero democratico, cioè il pensiero di cui tutti noi siamo nutriti, ha sempre mostrato la tendenza a percepire la violenza rivoluzionaria in due modi, entrambi, in sostanza, moralmente e politicamente assolutori: e assimilandola alla violenza per così dire tradizionale, a un elemento cioè fisiologico delle vicende umane, quale si manifesta per esempio nelle azioni delle folle in tumulto, degli eserciti nei confronti delle popolazioni civili, nella soppressione del singolo avversario politico; ovvero, nel secondo modo, rubricando la violenza rivoluzionaria sotto la fattispecie espressa dal principio antichissimo salus rei publicae suprema lex, che si può tradurre «la salvezza dello Stato prima di tutto» (in questo caso dello Stato, o del governo, o del partito rivoluzionari).
Momento riassuntivo di entrambe le assoluzioni l’idea che la violenza rivoluzionaria sia giustificata dalla necessità di spezzare la resistenza del vecchio di fronte al nuovo, nonché la violenza sulla quale il primo a sua volta si reggerebbe. Fermo in questa prospettiva, il pensiero democratico è stato per lungo tempo incapace di cogliere nella violenza rivoluzionaria che come tale s’inaugura nel 1789, un nuovo tipo di pratica di coscienza storica.
Eretta con la rivoluzione arbitra del destino dell’uomo e dei popoli, la politica viene infatti condotta dalla rivoluzione medesima a trovare un suo momento decisivo nell’individuazione di un nemico definito ideologicamente, da spazzare via con ogni mezzo. La violenza diviene il tribunale d’appello della politica perché, come ha scritto François Furet, la rivoluzione non conosce alternativa tra il consenso e la morte, tra la volontà del popolo (supposta dai gruppi dirigenti) e il complotto dei nemici del popolo.
Di tutto ciò pensiero e mentalità democratici hanno tardato ad accorgersi per un’ottima ragione: perché erano essi stessi tra i figli di quel nuovo tipo di prassi e di coscienza storica, molti dei cui stereotipi vivevano poderosamente anche nel loro immaginario. E’ accaduto così che , a differenza di quel liberale, il punto di vista democratico abbia per lo più preferito non vedere la novità e la natura della violenza rivoluzionaria, e invece equipararle candidamente alla violenza tradizionale, inevitabile compagna delle vicende umane. Con ciò negando di fatto che nel giudizio sull’evento «rivoluzione» potesse avere un rilievo significativo il problema specifico della violenza.
Viceversa, posto davanti a qualsiasi fenomeno o movimento politico reazionario e controrivoluzionario , il pensiero democratico ha sempre assunto e tutt’ora assume il giudizio sulla violenza (innanzi tutto etico, e va da sé di condanna) come parametro essenziale del suo giudizio storico-politico. E dunque, non solo si espone oggettivamente a una critica d’incoerenza, ma in questo modo s’impedisce anche di scorgere quel legame tra violenza rivoluzionaria e violenza controrivoluzionaria che quasi sempre è iscritto nei fatti in maniera evidentissima.
Dibattiti come quello francese e tedesco annunciano però che oggi, forse, le cose stanno cambiando. L’accettazione ormai pacifica della democrazia liberale da parte di tutti i Paesi europei che possono esprimersi liberamente nonché della quasi totalità dell’intellettualità europea significa che oggi è probabilmente diventato possibile, e sentito come necessario, procedere a una riproblematizzazione della violenza europea, a un nuovo disegno delle etichette che su di essa sono state unilateralmente apposte sulla falsariga dell’eredità democratico-giacobina.
E naturalmente questo nuovo disegno deve anche occuparsi di ricomporre il profilo delle complicità e dei silenzi.
La vittima forse più tragica del genocidio nazista non morì ad Auschwitz né a Treblinka, bensì nel cuore di Londra. Era Samuel Zygielblajm, rappresentante del Bund nel Consiglio nazionale polacco in esilio. Zygielblajm si uccise nel maggio del 1943 dopo aver lasciato scritto che lo sterminio dell’intera popolazione ebrea della Polonia ricadeva innanzitutto sugli assassini, ma indirettamente sui governi e i popoli delle potenze alleate: «Assistendo passivamente allo sterminio di milioni di uomini, donne e bambini, indifesi e torturati a morte, quei Paesi sono diventati complici degli assassini».
Naturalmente dopo il ’45 tutto cambiò, ma sulla responsabilità del giorno prima fu steso un comodo velo d’oblio. Il genocidio nazista venne avvolto dal tabù storico e, insieme, dall’enfatico ossequio martirologio degli stessi che davanti al martirio vero avevano alzato le spalle.
Come non supporre che tra le due cose ci sia un nesso? E come non supporre egualmente che l’avallo a questo silenzio sia stato accordato dalla parte democratico-progressista dell’opinione pubblica occidentale a quella liberal-moderata (oggettivamente più compromessa nelle passate complicità col nazismo) perché anch’essa, a sua volta, aveva da farsi perdonare la sua complicità con i crimini staliniani?
Di certo il tentativo di usare i crimini nazisti per nascondere i propri, di adoperare la violenza «reazionaria» per celare gli aspetti più imbarazzanti di quella «rivoluzionaria» e cioè di far apparire «cattiva» solo la violenza «reazionaria», fu messa in opera dall’Unione Sovietica. E’ un fatto arcinoto, o almeno dovrebbe esserlo, che il rappresentante sovietico al Tribunale di Norimberga cercò in ogni modo di convincere i suoi colleghi occidentali perché fosse addebitato agli imputati tedeschi anche il massacro di Katyn (oltre 5 mila ufficiali polacchi prigionieri passati per le armi dai russi).
Che i giudici occidentali abbiano respinto tale richiesta sapendola fondata su un falso, ma tuttavia abbiano dovuto accettare la presenza nel collegio giudicante dei sovietici stessi, indica bene, e con la pregnanza del fatto emblematico, quanto il silenzio sulla violenza «rivoluzionaria» sia stato storicamente intrinseco alla condanna consentita ai democratici di quella «reazionaria», e svela altresì l’esistenza oggettiva di uno scambio tra il silenzio sui crimini sovietici da una parte, e la possibilità di giudicare quelli nazisti dall’altra.
Ecco i motivi che rendono ormai necessaria una considerazione comparata di entrambi. Solo una riproblematizzazione del significato e del ruolo della violenza, di tutta la violenza, solo il riesame dei suoi segreti nessi interni, può finalmente schiudere alla nostra coscienza un più limpido giudizio morale e un più esatto giudizio storico.
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NaziComunismo la storia nascosta