4 Febbraio 1989
«A pochi chilometri da Phnom Penh ho visto operai che scavavano. E dei cumuli bianchi, indefinibili. Lentamente i cumuli acquistavano un’identità: teschi ed ossa umane. Altri resti di un genocidio». Così Fabrizio Del Noce racconta quello che ha visto in Cambogia. Gli occupanti vietnamiti se ne stanno andando lasciando un piccolo governo comunista alle prese con un esercito comunista terrificante: quello di Poi Pot, che dalla jungla continua a dirigere la guerriglia dei Khmer rossi. E’ la prima parte di un grande reportage sull’Indocina. Questa puntata è dedicata alla Cambogia.
Fabrizio Del Noce
UN piccolo, insignificante posto di frontiera segna il confine di terra tra il Vietnam e la Cambogia, più o meno a metà della strada che collega Saigon, oggi città Ho Chi Mihn, a Phnom Penh. Un confine importante, teatro dieci anni fa della prima guerra civile all’interno del mondo comunista, tra i khmer rossi che governavano in Cambogia, e gli ex vietcong divenuti padroni di un Vietnam riunificato dalla guerra.
Oggi Vietnam e Cambogia sono in qualche modo unificati anch’essi, dato che da 10 anni è al potere a Phnom Penh un governo installato e sostenuto dai vietnamiti. E perciò solo uno sparuto gruppo di soldati pattuglia da entrambe le parti questo confine, attraversato ogni giorno nei due sensi da gruppi di contadini che cercano di scambiare le loro merci con il sistema antico del baratto.
I controlli, al confine, sono pressocché inesistenti. Per i giornalisti l’aver ottenuto il visto vietnamita è considerato una garanzia sufficiente. Quello cambogiano è solo una formalità aggiuntiva.
Massacri democratici
Un Paese che oggi parla a tutti di sterminii, di genocidio, di fosse comuni, con annessa la vasta gamma di sentimenti che suscitano le tragedie umane. Soprattutto quelle rievocate da film di successo con un supplemento di macabro e di thrilling.
Ossessionante, mentre la vecchia automobile ansima sulla strada polverosa che costeggia paludi e risaie, mi torna alla mente un bilancio: tre milioni di morti su sette milioni di abitanti. Sotto il profilo statistico e percentuale, un primato che sarà ben difficile battere. Eppure, per la generazione europea del ’68, Vietnam e Cambogia non erano solo miti, erano dogmi.
Come in tutti i regimi comunisti, la prima formalità necessaria per i giornalisti è l’assegnazione di una guida. Un po’ interprete, certamente un po’ spia. E comunque garanzia, per il regime, che l’intruso occidentale sia costretto a muoversi in ambiti ben circoscritti. La mia guida è una funzionaria del ministero degli Esteri, parla un francese accettabile.
La prima cosa che mi racconta per farmi entrare nel «clima» cambogiano, è di essere sola al mondo. Tutta la sua famiglia fu prelevata dai khmer rossi, con l’accusa consueta e generica: cospirazione con il nemico. La macchina era ormai piena, e i khmer rossi le dissero che sarebbero tornati a prenderla. Ma in effetti non tornarono più. Ed ebbe salva la vita.
Del resto — mi conferma — non c’è famiglia che non abbia avuto qualche ucciso dai khmer rossi, o morto in seguito agli stenti patiti in quei brevi, lunghissimi tre anni del loro regime. E’ logico quindi che il loro spettro sia dovunque, un incubo incancellabile. Meno logico, invece, che abbiano ancora una sopravvivenza militare e addirittura una credibilità politica.
Eppure, è proprio l’America, spalleggiata dall’Europa, e sostenuta dalla Cina e dai suoi gregari, che ha assicurato questa sopravvivenza garantendo a Pol Pot e ai suoi il seggio alle Nazioni Unite. E’ un paradosso che mi ha sempre colpito. Ma l’impatto con una Cambogia dove tutto ancora parla dei massacri me lo rende non tanto difficile da spiegare quanto impossibile da accettare. Nemmeno in nome della realpolitik.
La politica internazionale, nel secondo dopoguerra, si è retta su una serie di principi, in linea generale condivisibili, tra cui quello di non riconoscere governi imposti da occupazioni militari straniere. Singolare non è il principio, ma l’applicazione che ne è stata fatta. Idi Amin, in Uganda, è stato rovesciato da una coalizione di Paesi vicini. Ma nessuno ha mantenuto il seggio all’Onu al suo governo, genocida nei fatti più che nei principi, e comunque nemmeno comparabile con quello di Pol Pot.
L’invasione vietnamita in Cambogia non è stata certo dettata da motivi umanitari, ma per una eterogenesi dei fini ha impedito che gli stermini toccassero livelli ancora più atroci. Dieci anni dopo bisogna essere realisti e chiedersi: se i vietnamiti non avessero rovesciato Pol Pot, cosa sarebbe accaduto?
A pochi chilometri da Phnom Penh ho visto degli operai che stavano scavando. E dei cumuli bianchi, indefinibili, accatastati. Ho detto alla guida di avvicinarsi. E a poco a poco i cumuli acquistavano una identità e un nome: teschi e ossa umane, altri resti di un genocidio. L’ennesima, ma certo non l’ultima, fossa comune. È una impressione che va al di là delle descrizioni.
La pace come incubo
Tante ossa accatastate ordinatamente come fossero legna da ardere. E i teschi accuratamente censiti e schedati. Per sesso, e per età presunta. Un giovane medico vietnamita, incaricato di questo macabro censimento, mi ha detto che per alcune notti non aveva potuto dormire, assalito dagli incubi. Mi ha fatto toccare con mano la realtà di eccidi che il mondo vuole in realtà rimuovere dalla memoria. Soprattutto l’intellighenzia progressista, nei cui schemi non entra Pol Pot, e neppure Mao un tempo deificato e oggi visto come era nei fatti.
Le ecchimosi — mi dice il medico — dimostrano come la maggioranza delle persone sia stata uccisa con le bastonate e con la tortura. E come il genocidio sia stato anagraficamente democratico: c’è una equa ripartizione tra donne e uomini, tra adulti, vecchi e bambini. Macabro passato, si dirà.
Ma anche un possibile e non augurabile futuro. I khmer rossi esistono ancora. Almeno 40-50mila nelle jungle e nelle montagne. Una potenza militare superiore a quella del governo cambogiano che entro l’anno sarà orfano dell’appoggio vietnamita. Lo spettro che sta dietro il ritiro ormai irreversibile delle truppe di Hanoi.
Il primo ministro cambogiano Hun Sen si mostra abbastanza sicuro. Riceve i giornalisti stranieri in una conferenza stampa. Un nome è onnipresente. Sempre il solito. Pol Pot. La Cambogia vive adesso un nuovo incubo, un incubo chiamato pace, che nemmeno il suo primo ministro riesce ad esorcizzare del tutto.
Hun Sen è giovane, porta gli occhiali, parla con calma e con tono dimesso. I suoi timori sono chiari: teme che il vento della distensione che non soffia solo sull’Est e sull’Ovest, ma lambisce anche i due santuari asiatici del comunismo, la Russia e la Cina, finisca per rimettere in gioco i khmer rossi. La Cambogia — è il senso del suo discorso — è una piccola crisi regionale che ha assunto rilievo mondiale.
Un accordo per chiudere questa crisi può declassarla nuovamente a crisi regionale. Ma chiudere la crisi con il semplice ritiro delle forze straniere — è il suo timore — significa comunque rimettere in gioco i khmer rossi come organizzazione politica. E potrebbe anche rimetterli in gioco come forza militare, riaprendo la guerra civile.
Ci sono infatti tre forze che si oppongono al governo filo-vietnamita di Phnom Penh: i fedeli del deposto principe Sihanouk, i nazionalisti di Son San, che sono i più deboli e, appunto, i khmer rossi. La forza più organizzata e armata, di cui Pol Pot, sembra certo, continua ad essere l’anima e la guida. E anche se fosse vero, come i khmer rossi dicono, che «lui» è in Cina solo e malato, politicamente fuori gioco, trattare con i suoi complici sarebbe come condannare Hitler assolvendo il nazismo.
I dialoghi di pace non si annunciano facili. Da un lato infatti il governo di Phnom Penh, anche se formalmente è riconosciuto solo dai Paesi del blocco sovietico, si considera il governo legale della Cambogia, che ha il controllo effettivo di gran parte del territorio. Hun Sen è categorico: «Nessuno pensi» afferma «di inviare qui i caschi blu delle Nazioni Unite come forza che garantisca i negoziati per un nuovo governo di unità nazionale. Noi siamo il governo legale della Cambogia, e da queste basi tratteremo con gli altri».
Una premessa, questa, che cozza frontalmente con le pretese degli «altri», che dopo avere combattuto per dieci anni nella jungla proprio perché non riconoscevano il governo filo-vietnamita, non intendono adesso negoziare dopo averlo legittimato.
Ma se la sola presenza dei khmer rossi è un incubo perenne, e il dover trattare con loro un insulto per i morti e una minaccia per i vivi, l’accordo con il principe Sihanouk non manca né di difficoltà, né di rischi. A Phnom Penh, del suo effimero regno, sopravvive il sontuoso palazzo reale che si affaccia sul Tonlé Sap e sul Mekong, i due fiumi che si abbracciano a est della capitale con lo sfondo verde smeraldo della foresta tropicale sulla sponda opposta.
Sihanouk, deposto nel ’70 dagli americani per sostituirlo con un alleato duttile ma inetto, il maresciallo Lon Noi, è a buon diritto considerato un maestro nel cambiar bandiera. Trescava con la Cina di Mao ai tempi dell’intervento americano in Vietnam. Dopo essere stato deposto riparò in Cina e organizzò la guerra di liberazione nazionale a fianco dei khmer rossi.
Non ne condivise — va detto a suo onore — il progetto di «normalizzazione», e durante il loro governo fu tenuto prigioniero nel suo palazzo. Ma ridivenne loro alleato dopo l’invasione vietnamita, e adesso vorrebbe tornare al potere con l’appoggio dei Paesi occidentali, che dopo averlo deposto e combattuto, adesso lo vedono come unico potenziale simbolo dell’unità nazionale. Affidabile proprio perché di lui diffidano, per diversi motivi, tutte le varie componenti del comunismo asiatico.
Ritiro e retorica
Su questo sfondo politico, il disimpegno militare del Vietnam procede rispettando le scadenze prefissate. Nella penultima fase, tra dicembre e gennaio, sono partiti altri 50mila soldati.
Ci hanno portato fino nelle più lontane province per assistere agli addii. Donne e bambini che lanciavano frutta e fiori ai soldati stipati su vecchi camion che si avviavano lentamente in lunghe colonne sollevando enormi nuvole di polvere. C’è una retorica che si assomiglia dovunque, in Cambogia come in Afghanistan, in queste cerimonie. Più interessante, sarebbe poter vedere che cosa ci sia realmente «dietro».
Centinaia di migliaia di giovani soldati che tornano in Vietnam ad ingrossare le fila dei disoccupati o dei sottoccupati di un popolo che sa vincere le guerre e non sa costruire la pace. E che adesso è costretto a pagare il prezzo di questo ritiro per rompere l’isolamento internazionale e ottenere prestiti in dollari, la moneta dell’odiato nemico americano. Sapore amaro di una rivincita.
Una popolazione cambogiana che teme una verifica: l’efficienza del suo esercito costretto d’ora in poi a fronteggiare da solo i 40-50mila khmer rossi annidati sulle montagne Cardamone o nascosti nei campi ai confini con la Thailandia. E’ raro che sferrino vere e proprie offensive.
In pattuglie sparute si infiltrano in villaggi non presidiati o isolati, dove non ci sono guarnigioni vietnamite, e reclutano con la forza i giovani terrorizzando gli abitanti. E seminano sul loro passaggio tappeti di mine di plastica, che si confondono con la terra rossa delle piste delle foreste.
Questo, finora. Ma cosa faranno una volta che i vietnamiti non ci saranno più? E’ un dubbio che non leggiamo negli occhi della gente di villaggio sensibilizzata dalla propaganda di regime che assicura protezione e vittorie. Ma è un dubbio reale, che affligge a Phnom Penh chi gestisce e ha dovuto accettare l’alea politica del rischio.
Bandiere rosse e incenso
La Cambogia che ho trovato è un Paese meno povero di quanto mi sarei aspettato. Sarebbe del resto per natura e per clima un Paese, se non ricco, almeno autosufficiente. Adesso, con una popolazione quasi dimezzata dal genocidio, presenta un aspetto esteriore più vicino alla povertà che alla miseria.
Mancano, è ovvio, i prodotti occidentali e di consumo. I soli telefoni esistenti si trovano alle poste centrali. Non esiste un collegamento telex. Il traffico, come del resto in Vietnam, è formato quasi esclusivamente di biciclette, e i trasporti pubblici sono assicurati dai «risciò», carrozzine trainate da biciclette.
I grandi, maestosi viali di quella che fu la più bella città dell’Indocina sono quindi quasi deserti, particolarmente malinconici la sera, all’incerta luce di rari lampioni, quando entra in vigore il coprifuoco. Non capita spesso di veder rivivere una capitale.
Phnom Penh, svuotata a suo tempo dai suoi abitanti, come una pattumiera umana, in nome di un ritorno di massa alle campagne, risorge lentamente. Respira ancora con fatica, ma i negozi si moltiplicano, i mercati sono meno poveri, le case, rimaste disabitate per anni, hanno trovato nuovi inquilini.
Per lo più contadini, che cominciano ad abituarsi alla vita urbana. Rivisitare oggi Phnom Penh vuol dire comunque associare dei ricordi. Anche in noi giornalisti c’è una curiosità macabra che ci porta a rivedere le vecchie ambasciate, vuote e disabitate da «allora». E ci spinge a lavorar di fantasia, a immaginarci la città com’era, e a chiederci tanti perché.
Il vecchio liceo di Phmom Penh assomiglia alle scuole coloniali che troviamo ancora in tante parti del mondo. Ma questa ha una storia speciale. Divenne la prigione di Stato, luogo di tortura e di morte per più di 20mila persone. Oggi un museo ne ricorda l’olocausto. Si vedono le aule scolastiche trasformate in celle, le fotografie, gli strumenti di tortura. E sembra impossibile che fino a quel fatale 17 aprile 1975 le stesse aule ospitassero giovani studenti.
Così pure il bellissimo stadio, orgoglio dell’architetto Van Mollivan, che firmandone pomposamente il progetto non avrebbe mai immaginato che sarebbe diventato il mattatoio ufficiale per i prigionieri politici.
Chiedo alla guida di portarmi a una chiesa cattolica. Dovunque, nei Paesi in cui c’è stato il colonialismo francese, ci sono delle chiese. Anche in Cambogia ce n’erano. Ma adesso non più. Distrutte, da Pol Pot, nella sua furia iconoclasta. Uccisi, o fuggiti, i sacerdoti. E uccisi anche la maggior parte dei bonzi, tra cui anche il grande bonzo della pagoda Langka, tempio buddista di Phnom Penh.
Adesso, alla sera, a testimoniare che il Paese torna a vivere, nelle pagode si brucia di nuovo l’incenso. Un acuto profumo si diffonde per le strade, ma nessuno contesta più l’odore dell’incenso. In un Paese devoto a un buddismo intriso di tradizioni animiste il «nuovo» comunismo al potere si è riconciliato con Buddha. I ceri bruciano tra le bandiere rosse.
Saccheggio culturale
La civiltà khmer è molto antica. La sua massima fioritura fu tra l’ottavo e il dodicesimo secolo, quando le dinastie khmer cominciarono a costruire le loro città nel nord del Paese. Takeo, e soprattutto l’antica capitale imperiale di Angkor Wat.
L’influsso incrociato di religioni provenienti dall’India, buddismo e bramanesimo, dette ispirazione alla costruzione di uno dei prodigi artistici del mondo. Appunto, i complessi di templi di Angkor Wat e di Angkor Thom. Oggi, con gli aerei turboelica della risorta «Air Kampuchea», si può di nuovo visitare quella che è considerata una delle meraviglie del mondo.
Ma quello che la mente dell’uomo ha creato nei secoli è minacciato dalla mano dell’uomo. Solo ingenti aiuti internazionali potranno salvare questi templi, minacciati dalla vegetazione che sta prendendo il sopravvento e ne mette in pericolo la stabilità. E il resto lo hanno fatto in questi anni di guerra i vari eserciti contrapposti.
Strani paradossi della storia: Pol Pot era un cultore proprio di questa grande epoca khmer, quella fiorita intorno all’anno Mille. E proprio per ricrearne le antiche glorie, per far risorgere la decaduta razza khmer, inventò il progetto del ritorno forzato alle campagne. Teorizzò l’uccisione in massa di medici e di intellettuali, simbolo di un distorto sapere.
Mi rendo conto che oggi ogni discorso sulla Cambogia continua a riportare inevitabilmente a lui, al piccolo Hitler asiatico. E mi rendo anche conto che descrivere i suoi documentati errori ed orrori non spiega in alcun modo il perché siano avvenuti. Gli studi a Parigi, l’influenza di Robespierre, di Marx e di Lenin, il sogno di applicare le teorie assimilate in Occidente adeguandole alla realtà cambogiana. Il sogno di mettere gli intellettuali al servizio della rivoluzione. Sono solo in piccola parte le premesse a una spiegazione.
I pochi intellettuali sopravvissuti a Phnom Penh non riescono nemmeno loro a spiegare. Di più: hanno in un certo senso rimosso quel periodo, vedono come una grande macchia nera. Esprimono solo timori, allucinazioni: Pol Pot è sempre il capo dei khmer rossi, se loro torneranno, tornerà anche lui. E su questa ipotesi sinistra un luogo incantato come il delta del Mekong, paradiso, per ora, e non per molto, incontaminato dal turismo di massa, diviene d’improvviso demoniaco. Il governo attualmente al potere a Phnom Penh ci appare quello che forse è in realtà.
Un normale governo comunista, dove il pragmatismo è oggi molto più forte dell’ideologia. Lontano dall’altra anima, demoniaca, del comunismo, quella di Pol Pot. Un’anima con cui, per gli strani giochi della politica, potrebbe essere di nuovo costretto a venire a patti. A loro volta, i milioni di vittime di questa tragedia ci appaiono in qualche modo apparentati alle altre vittime del terrore comunista. Alle vittime di Stalin, alle vittime di Mao. Per tutti manca una spiegazione.
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CAMBOGIA
CAPO DELLO STATO
Heng Samrin è al potere dall’ 11 gennaio 1979. La sua permanenza alla guida dello Stato è stata ratificata da un’elezione avvenuta il 17 dicembre dello stesso anno. Dal 4 dicembre del 1981 Samrin è anche Segretario generale del Partito popolare rivoluzionario.
PARTITO POPOLARE RIVOLUZIONARIO
È il partito unico al potere dal ’79 in Cambogia. La sua guida del Paese non è mai stata riconosciuta dall’Onu dove la Cambogia è rappresentata ancora dal Governo di coalizione antivietnamita della Kampuchea (Cambogia) democratica. Del Politburo del Partito popolare fanno parte, oltre allo stesso Samrin: Chea Sim, Hun Sen, Say Phuthang, Bou Thang, Chea Soth, Men Saman, Mat Ly e Ney Pena.
GOVERNO
Dal 26 dicembre 1984 capo del governo è Hun Sen. Del suo gabinetto fanno fra gli altri parte: Ney Pena (Interni), Koy Buntha (Difesa), Kong Korm (Esteri)
TERRITORIO
L’attuale della Cambogia ha un’estensione di 178mila chilometri quadrati che salgono a 181 mila se comprendiamo anche le acque interne.
POPOLAZIONE
Secondo l’ultimo censimento che risale al 1981, è di sei milioni e 689mila abitanti per una densità media di 37 abitanti per chilometro quadrato. Il coefficiente di accrescimento annuo è stato tra l’80 e l’85 del 2,6%. Attualmente la capitale Phnom Penh è abitata da circa quattrocentomila abitanti (329mila nell’81).
LINGUA E RELIGIONE
La lingua ufficiale è l’antico khmer mentre è usato anche il francese (retaggio coloniale e, in pratica, seconda lingua del Paese). La popolazione è nella quasi totalità buddista: esiste una piccola minoranza cattolica che conta tredicimila 835 battezzati. La popolazione è in maggioranza (93%) discendente dagli antichi khmer; esistono due piccole minoranze: vietnamita (4%) e cinese (3%).
ECONOMIA
Nel Paese non si hanno dati su investimenti industriali stranieri. Moneta ufficiale è il riel, nell’86 con 30 riel si acquistava un dollaro americano. Tutte le imprese sono tassate, siano esse private o statali ma l’aliquota di tassazione varia secondo il settore produttivo e la dislocazione geografica. Alcune industrie moderne (chimica e trasporti soprattutto) si sono affiancate a quelle tradizionali artigiane: abbigliamento, ceramiche, eccetera. Nell’86 la Cambogia ha importato merci per un valore di oltre 117 milioni di dollari ed esportato per appena dodici milioni.
RISORSE
Le zone meglio coltivate si addensano lungo il corso del fiume Mekong, autentica miniera di ricchezza per tutta l’Indocina. Anche intorno al Tonle Sap vi sono zone coltivate. Il prodotto principale è, naturalmente, il riso (un milione e settecentomila ettari delle terre coltivate, cioè circa il 55% del totale, sono riservate a questa produzione che nell’86 è stata di venti milioni di quintali. Fra gli altri prodotti: il mais, il sesamo, i fagioli (che vengono poi fatti essiccare) e la manioca. Esiste anche una piccola produzione (ventimila quintali di fibra nell’86) di cotone. Nell’84 sono stati prodotti 40mila tonnellate di sale.
FORESTE
I prodotti dei boschi rappresentano le voci più consistenti del commercio estero: 160mila quintali di caucciù sono stati prodotti nell’86 mentre nell’anno precedente la produzione di legname è stata di cinque milioni e 303mila metri cubi.
ALLEVAMENTO E PESCA
Un milione e mezzo circa sono i bovini, un milione trecentomila i suini mentre i bufali sono oltre settecentomila. Ma è la pesca che rientra fra le voci importanti dell’economia del Paese e permette di dare un po’ di ossigeno alle asfittiche esportazioni. In particolare il Tonle Sap rappresenta un ricchissimo fondo di acqua dolce per il pesce. Le 68mila tonnellate di pesce annualmente pescato (il dato è del 1985) danno vita anche ad una diffusa industria conserviera.
STATISTICHE SOCIALI
Gli ultimi dati disponibili (risalgono però niente meno che al 1981) informano che il prodotto nazionale lordo per persona è di 70 dollari americani all’anno. L’ultimo dato disponibile sugli ospedali è addirittura del ’71 (94 ospedali per poco più di settemila posti letto; la situazione in questo ventennio non deve essere di molto migliorata). La popolazione urbana è il 15,6%; quella impegnata in agricoltura il 72%
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LA STORIA
Dieci secoli tra splendori e invasioni
IL 93 per cento della popolazione cambogiana è rappresentata dai discendenti degli antichi khmer. Non esistono notizie certe sulla nascita di questo popolo ma gli etnologi ritengono che esso derivi dalla fusione di popolazioni indigene con invasori provenienti dal Nord.
Il popolo si andò affermando fin da tempi remoti per dar forma ad una vera e propria civiltà intorno al quinto secolo dopo Cristo. Fu allora che i khmer subirono anche le influenze culturali e religiose indiane ed in particolare del brahmanesimo.
Nel X secolo giunse fra i khmer il buddhismo che è ancora la religione più diffusa (c’è una esigua minoranza cattolica, retaggio del passato coloniale). L’arrivo del buddhismo coincide anche con l’inizio del periodo di massimo fulgore della civiltà khmer (dal X al XII secolo).
E’ in questo periodo che i khmer raggiungono anche la massima estensione territoriale del loro regno conquistando i territori del Laos e del Vietnam meridionale. A questo periodo di grande splendore risale la fondazione della città reale di Angkor i cui magnifici resti sono a testimoniare il livello artistico ed architettonico raggiunto dai khmer.
Oggi la città (che dall’inizio del secolo al 1940 è stata sotto il dominio thai) è in abbandono essendo che il centro del Paese si è spostato nella zona di Phnom Pen alla confluenza fra il Mekong e il Tonle Sap.
Con il XIII secolo inizia per la civiltà khmer un periodo di decadenza dovuto soprattutto a lotte intestine. La decadenza sarà poi definitivamente aggravata con l’arrivo delle potenze coloniali: dapprima i portoghesi e, in seguito, gli olandesi.
Ma è solo nel XVII secolo, con l’arrivo dei francesi, che l’influenza coloniale diventa stabile nel Paese. I francesi, sfruttando la continua minaccia di Siam (Thailandia) ed Annam (Laos), indussero il re Norodom a porsi sotto loro protettorato (1863).
L’autonomia (ma sempre all’interno dell’Unione francese) arriverà per la Cambogia solo nel 1947 e dovrà attendere il 1966 (in applicazione degli accordi di Ginevra del ’54) per ottenere l’indipendenza. Sihanuk, Lon Nol, golpe filo americano, terrore dei Khmer rossi sono nomi, infine, dei nostri tempi.