Il fallimento nella prevenzione delle tossicodipendenze finisce per far prevalere l’accettazione
Anche le sostanze cannabiche comportano pesanti conseguenze nella vita di relazione dei giovani
Dopo l’appello per la legalizzazione delle «droghe leggere» (si veda «Il So-le-24 Ore» del 26 marzo) e l’intervento di don Luigi Ciotti (29 marzo) oggi ospitiamo il contributo di don Chino Pezzoli.
di don Chino Pezzoli
(Comunità «Promozione umana» di San Giuliano Milanese)
Dopo vent’anni di esperienza con i tossicodipendenti non riesco proprio a classificare alcune droghe come “leggere”. Se per droghe leggere si intendono le sostanze cannabiche (hashish e marijuana) occorre spiegare ai giovani e agli adulti che cosa si intende per “leggere”.
Uno sbaglio, ormai diffuso, consiste nel classificare come “leggere” le sostanze con le quali si riesce a convivere. L’alcool, a esempio, è sempre stato considerato compatibile o comunque accettabile per ottenere quella necessaria euforia in famiglia, nelle feste, nei ritrovi. Ora assistiamo a giovanissimi consumatori di sostanze etiliche con manifestazioni comportamentali confuse, aggressive, di pericolo personale e pubblico.
Similmente si procede nel pubblicizzare l’uso delle sostanze cannabiche. Si assicura l’opinione pubblica che tali sostanze non fanno male, che occorre permetterne l’uso. Autorevoli personaggi fanno conoscere la loro opinione in merito, che il più delle volte suona come sentenza o, peggio, invito alla trasgressione.
Credo che sia necessario considerare, prima di tutto, il significato dell’uso di una sostanza stupefacente all’interno della cultura giovanile e le sue implicanze psichiche sullo sviluppo dell’«io».
Bisogna riconoscere che nella cultura contemporanea c’è un’alta incidenza e un’ampia accettazione dell’uso di marijuana, di hashish. La maggior parte dei diciottenni (circa i due terzi) ha sperimentato tali sostanze. Un tasso di sperimentatori e consumatori così alto ci preoccupa e non può essere considerato un comportamento deviante da tollerare o da legittimare con una legge.
Il periodo dell’adolescenza è difficile, il giovane affronta il compito evolutivo di differenziazione dai genitori per raggiungere un’identità autonoma. La sperimentazione dei nuovi valori e delle nuove convinzioni, la ricerca di nuovi ruoli e identità, la verifica dei propri limiti e dei confini del proprio sé, non possono essere turbati da una sostanza alterativa della psiche.
Affermare che gli adolescenti, proprio per la loro esigenza di sperimentazione evolutiva e verifica dei propri limiti, siano tentati di sperimentare l’uso di sostanze cannabiche, è davvero una pazzia scientifica.
La mente debole e non ancora strutturata dell’adolescente passa facilmente dall’uso all’abuso delle sostanze cannabiche. Spesso l’adolescente trova in queste sostanze lo sfogo emotivo e la compensazione per la carenza di rapporti umani significativi.
E’ estremamente pericoloso favorire al giovane l’uso di sostanze disinibitorie per permettergli un inserimento adeguato nel gruppo dei pari. Non è la marijuana il “farmaco” che disinibisce e permette la comunicazione, il dialogo. Una mente alterata non comunica con gli altri, ma solo riesce a fondersi nel gruppo perdendo completamente l’autonomia, l’identità.
Forse alla nostra cultura piace il giovane in balia di spinte emozionali incontrollate, di gesti euforici e disordinati, di comportamenti rambeschi. Ecco perché si scrive e si dice che i giovani consumatori di sostanze cannabiche hanno migliori capacità di instaurare rapporti sociali, hanno un maggior senso dell’avventura e si preoccupano maggiormente dei sentimenti degli altri. Sono bugie professionali che non possono essere sostenute se non si vuole confondere la maturità dell’«io» con la stupidità.
Qualcuno poi ha anche sostenuto che l’uso di marijuana e hashish facilita un concetto positivo di sé. Ipotecare una simile eresia equivale a sostenere la tesi che tutte le persone per evolvere e prendere coscienza del proprio «io» dovrebbero conoscere l’impiego di cannaboidi o di altre sostanze simili… Siamo veramente in una cultura demenziale. Si vuole a tutti i costi legittimare una devianza con tesi assurde.
Si cerca, inoltre, di sostenere che le sostanze cannabiche abbiano assunto, nella cultura giovanile, gli stessi significati psico-sociali che erano associati all’alcool nelle generazioni precedenti.
Di fronte a simili affermazioni pericolose, sarà bene precisare alcuni rischi derivanti dall’uso delle cannabis.
Prima di tutto, è bene ribadirlo che sono pochissimi gli sperimentatori delle sostanze cannabiche che riflettono una normale fase di esplorazione e di curiosità. I giovani sperimentatori, ben presto, diventano consumatori.
I consumatori abituali sono incapaci di investire energie in relazioni interpersonali significative o di trarne soddisfazione. Inoltre, la loro sfiducia, la loro ostilità e il loro isolamento emotivo impediscono che le relazioni ottenute sotto l’effetto della sostanza divengano realtà. Non sono in grado di investire le loro energie nella scuola, nel lavoro, o di impegnarle per il raggiungimento di obiettivi significativi. In altre parole, sono alienati «dall’amore e dal lavoro», da ciò che dà significato alla vita e permette di trarne soddisfazione. Parallelamente si sentono infelici e inadeguati con tutti e con tutto. Sentendosi infelici e incapaci, questi giovani rifiutano qualsiasi rapporto continuo e costruttivo e vivono in un “mondo-altro”, palesando reattività e aggressività verso una vita normale.
Dimostrano, quindi, incapacità nel controllare e regolare gli impulsi. Non c’è in loro interesse per i rapporti umani, vale a dire, non c’è rapporto con ciò che dà alla vita un senso di stabilità, uno scopo.
L’impulso del momento diventa per loro fondamentale, non viene però trasformato gradualmente e mediato da un sistema più ampio di valori e di obiettivi, perché il sistema psichico è alterato e quindi carente di funzionabilità elaborativa dei contenuti.
Nella mancanza e abbassamento delle capacità interiori, la pazienza e la tolleranza sono impossibili. Gli stessi sentimenti vengono “offuscati” in quanto la sostanza offre momentanee gratificazioni illusive di relazione, di contatto, di rapporto con gli altri.
Si hanno, inoltre, seri motivi (questo è grave) per ritenere che l’uso della cannabis procuri al consumatore disagi assai gravi, come la riattivazione di stati latenti schizofrenici. Sono ormai parecchi i casi accertati di giovani compromessi nella psiche in modo irreversibile per l’uso di tali sostanze.
Come si è visto, i danni che procurano queste sostanze stupefacenti dette “leggere” non sono affatto trascurabili o da nascondere. Non si capisce proprio perché si debba legalizzare l’uso che equivale a diffondere l’opinione che queste sostanze, tutto sommato, non sono poi così pericolose o che, addirittura, dovrebbero essere presentate come «ricostituente psichico».
La cultura dello “sballo”, già in atto tra i nostri giovani, non può trovare in una legge l’assenso e la normalizzazione.
Ha ragione lo psichiatra Vittorino Àndreoli nell’affermare che, siccome abbiamo fallito nella prevenzione della tossicodipendenza, ora tentiamo in tutti i modi di accettarla e che non esiste più l’attenzione verso la persona e i grandi ideali che deve conseguire.