Dubbi sulla guerra aerea durante la seconda Guerra Mondiale

bombardamentiLa Civiltà Cattolica n. 3725
3 settembre 2005

di Giovanni Sale s.j.

La decisione di portare la guerra aerea sulle città, facendo venir meno la tradizionale divisione tra fronte interno (costituito dai civili) e fronte esterno o militare (cioè il luogo ove si svolgeva il conflitto), sebbene sia stata presa dagli alti comandi militari e dai Governi, fu sostenuta pure dai Parlamenti nazionali e spesso dall’opinione pubblica, anche se indotta dalla martellante propaganda di guerra. Secondo J. Friedrich, «né i civili tedeschi né i britannici e nemmeno gli americani disapprovavano l’attacco mirato ai civili avversari» (1).

Per questo motivo, già a partire dai primi mesi di guerra, furono preparati rifugi antiaerei nei centri abitati, distribuite ai civili maschere antigas e previsto un sistema di oscuramento e coprifuoco delle città: tecniche cui milioni di europei sapevano di dover ricorrere in caso di attacco aereo, che quindi prevedevano fin dall’inizio come possibile.

Ovviamente nella documentazione della Luftwaffe e del Bomber Command non si parlava mai di bombardamento premeditato di obiettivi civili: gli obiettivi ufficiali da colpire erano fabbriche, campi di aviazione, porti, cantieri navali, importanti nodi ferroviari ecc. Ma i responsabili militari e politici sapevano bene che le bombe non facevano differenza tra industrie e città, tra cantieri e operai, soprattutto quando gli obiettivi da colpire erano volutamente indicati in modo generico. Il fine principale di quegli attacchi aerei era infatti di colpire il numero più alto possibile di civili, con lo scopo – come aveva pianificato il comandante del Bomber Command A. Harris – di piegare il morale della popolazione civile e così spingerla a ribellarsi al nazionalsocialismo e a Hitler.

In realtà avvenne il contrario, anche perché la propaganda di regime, orchestrata da Goebbels, presentava i nemici del Terzo Reich come barbari assassini e nemici giurati della nazione e della cultura tedesca. Di fatto a partire dal febbraio 1942 sino alla fine della guerra furono gli inglesi (insieme agli alleati statunitensi) a scegliere la guerra aerea come «strategia» (e non soltanto come appoggio all’azione militare di terra) per vincere il conflitto.

I bombardamenti aerei portati dal Bomber Command e dalla VIII Forza aerea statunitense sui cieli della Germania furono disastrosi, come abbiamo posto in evidenza in un articolo precedente (2). Sotto le bombe nemiche trovarono la morte circa 600.000 civili, quasi il 2% della popolazione urbana tedesca. Va però sottolineato che i costi umani della guerra aerea toccarono anche coloro che la praticavano: dei 125.000 uomini del Bomber Command inviati a bombardare le città nemiche ne morirono 55.000, cioè quasi il 40%; così la maggior parte di quelle operazioni furono in qualche modo suicide.

Contro i bombardamenti aerei

Quale fu la reazione degli inglesi al bombardamento a tappeto delle città tedesche da parte del Bomber Command? Il progetto del comandante Harris e del Governo di radere al suolo il maggior numero possibile di città tedesche trovò compatta tutta l’opinione pubblica inglese? Nessuno protestò nella civilissima Gran Bretagna contro il progetto di una guerra aerea totale, che colpiva soprattutto civili, colpevoli soltanto di essersi lasciati trascinare da Hitler e di non trovale la forza di rivoltarglisi contro?

Va subito detto che voci di protesta contro i bombardamenti sui civili si levarono nel Paese fin dall’inizio delle operazioni ad opera di intellettuali e di ecclesiastici pacifisti. Nel 1943, quando la guerra aerea era entrata nella sua fase più calda, l’arcivescovo anglicano di York, C. F. Garbett, rispondendo a un gruppo di presbiteri che lo avevano pubblicamente interpellato sul limite consentito perché un attacco aereo potesse considerarsi legittimo dal punto di vista della morale cristiana, ripropose il principio agostiniano di guerra giusta.

Scriveva l’arcivescovo a tale proposito: «Spesso nella vita non si ha la possibilità di scegliere tutto ciò che è assolutamente giusto e ciò che è assolutamente sbagliato, ma bisogna propendere per il minore tra due mali. Oggi il male minore è bombardare la Germania guerrafondaia, piuttosto che sacrificare la vita dei nostri connazionali che anelano alla pace e abbandonare alla violenza milioni di persone oggi ridotte a schiavitù» (3).

Il folle progetto hitleriano di dominio del mondo infatti in quel momento dava adito a interpretazioni di questo tipo, che si devono interpretare alla luce di ciò che la propaganda nazista spargeva ai quattro venti. Purtroppo non si trattava soltanto di propaganda o di pura retorica bellico-nazionalista, ma di ben altro. Il feldmaresciallo del Reich von Rundstedt nel febbraio 1942, in un incontro con ufficiali nazisti, disse che era intenzione di Hitler, una volta vinta la guerra, distruggere i popoli vicini e le loro ricchezze.

«Noi siamo obbligati – disse il feldmaresciallo – a distruggere almeno un terzo degli abitanti di tutti i Paesi confinanti: e il solo mezzo è la sottomissione organizzata, che in questi casi serve più delle mitragliatrici; nel numero vi sono limiti e inconvenienti che la carestia supera sempre con vantaggio, soprattutto nel caso della gioventù» (4).

Tali progetti non erano sconosciuti alla controparte e ciò spiega anche la determinazione con cui furono portati avanti da parte inglese i piani di bombardamento delle città tedesche. In ogni caso, il vescovo anglicano di Chichester, G.Bell, propose, davanti alla Camera Alta, il problema della legittimità morale per la coscienza cristiana dei bombardamenti aerei sulle popolazioni civili.

In un intervento del 9 febbraio 1943, tra lo stupore e le proteste dei Lord, disse: «Esigo che sia chiesta ragione al Governo della sua politica di bombardamento delle città nemiche allo stato presente, soprattutto delle azioni contro i civili, i non combattenti e gli obiettivi non militari e non industriali. Sono conscio dell’inevitabilità della morte dei civili nel corso di attacchi a impianti bellici e a trasporti militari, ma ciò è accettabile solo nella misura in cui avvenga nell’ambito di un’azione militare condotta in buona fede. Ci dev’essere una proporzione tra i mezzi impiagati e l’obiettivo raggiunto. Cancellare un’intera città solo perché si trova più o meno nelle vicinanze di impianti militari e industriali esula da tale proporzione. Noi […] dobbiamo mettere la nostra forza al servizio del diritto. E il diritto è contrario al bombardamento delle città nemiche, specialmente al bombardamento a tappeto» (5).

Anche i vescovi cattolici condannarono con forza i bombardamenti sui civili. Il Papa in particolare nei suoi radiomessaggi in diverse occasioni si espresse contro la guerra aerea, in particolare quando colpiva civili: da Pio XII essa era considerata la più devastante e la più barbara arma di offesa. Nel celebre radiomessaggio natalizio del 1942 denunciò con forza la sorte delle molte migliaia di non combattenti, «donne, bambini, infermi e vecchi cui la guerra aerea – i cui orrori Noi già dall’inizio più volte denunciammo – senza discernimento o con insufficiente esame, ha tolto la vita, beni, salute, case, luoghi di carità e di preghiera» (6).

Anche nel radiomessaggio natalizio dell’anno precedente il Papa aveva deprecato le devastazioni e le rovine che la guerra aerea aveva portato su «grandi e popolose città», nonché «su centri e vasti territori industriali», dilapidando in tal modo le ricchezze degli Stati e gettando nella miseria milioni di persone (7).

Il Papa, oltre a denunciare in diversi appelli e messaggi «l’intero sistema dei bombardamenti sui civili», si adoperò, fin dall’entrata in guerra dell’Italia (10 giugno 1940) perché Roma, la capitale del cattolicesimo, fosse risparmiata dalle bombe alleate. Tale richiesta si fece più insistente dopo che, nel novembre 1942, il Bomber Command effettuò bombardamenti su Genova, ma anche su Torino e Milano.

Alle proteste della Santa Sede contro tali bombardamenti (in particolare quello di Genova), che avevano colpito civili innocenti, il rappresentante inglese presso la Santa Sede, Osborne, rispose al Segretario di Stato, card. Luigi Miglione, che Genova era un porto militare e le perdite subite dalla popolazione civile erano di gran lunga inferiori a quelle provocate dai nazisti, alleati dell’Italia, in Gran Bretagna.

«Quanto alle perdite tragiche ma inevitabili della popolazione civile – scriveva il diplomatico – si può dire che il numero di morti e di feriti è relativamente piccolo [a Genova] quando lo si compara, per esempio, con i 306 morti e 1.337 feriti nel primo attacco tedesco alle porte di Londra, o con i 6.954 morti e i 10.615 feriti del mese di settembre 1940, e con i 1.100 morti di Coventry di due anni fa» (8). Comunque egli assicurava che l’oobiettivo delle incursioni aeree sulle città italiane erano i luoghi di interesse strategico-militare e non civili.

La stampa inglese e molti deputati della Camera dei Comuni chiesero in diverse occasioni che anche Roma fosse bombardata come le altre città italiane. In molti in Gran Bretagna non avevano dimenticato che, all’indomani dell’entrata in guerra dell’Italia, Mussolini aveva chiesto al suo alleato di farlo partecipare con alcuni aerei italiani al bombardamento di Londra: molti dicevano – il che però non è provato – di aver visto in quei giorni bombardieri italiani volteggiare sopra Londra.

A differenza di Roosevelt, il quale aveva assicurato il Papa attraverso il suo rappresentante personale, che da parte statunitense non c’era intenzione di bombardare Roma – ma che non poteva dare assicurazioni sulle intenzioni degli alleati inglesi (9) – , Churchill su questo punto non era propenso a prendere in considerazione le richieste del Papa: in diverse circostanze egli disse che non avrebbe esitato a bombardare Roma massicciamente se le necessità della guerra lo avessero richiesto.

Il 9 luglio 1943, dopo lo sbarco e la conquista della Sicilia da parte degli Alleati, il ministro degli Esteri inglese A. Eden, rispondendo all’intermediario vaticano, mons W. Godfrey, riaffermava il diritto del suo Governo di bombardare la capitale di un Paese nemico. La diplomazia pontificia, anche attraverso la mediazione di eminenti prelati della Chiesa cattolica in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, si mise in azione per impedire il bombardamento di Roma, la sede del papato, resa sacra dalla presenza di vetustissime memorie cristiane, care a tutti i popoli.

Ad essi fu risposto che, se si voleva preservare la città dai bombardamenti, era assolutamente necessario spostare fuori Roma tutti gli obiettivi di carattere militare. Fu anche proposto alla Segreteria di Stato di segnalare con luci rosse il perimetro dello Stato della Città del Vaticano, in modo che tale spazio, in caso di bombardamento aereo, fosse risparmiato.

Il card. Maglione rigettò con decisione tale proposta in quanto contraria alla missione della Santa Sede. Essa, infatti, se accettata, avrebbe attirato risentimenti nei confronti della Sede Apostolica da parte dei romani, esposti al pericolo delle bombe, e in genere sarebbe stata giudicata severamente dall’opinione pubblica mondiale. In secondo luogo la segnalazione richiesta avrebbe indicato nella notte l’esatta posizione della città e dei suoi quartieri, facilitando l’opera nefasta dei bombardieri alleati.

Dopo il bombardamento di Ostia del 16 maggio 1943, il ministro Ciano assicurò il card. Maglione (che aveva ripetutamente chiesto la smilitarizzazione di Roma) che i comandi militari italiani erano stati trasportati fuori città, aggiungendo però, in modo confidenziale, che Mussolini non aveva nessuna intenzione di lasciare la Capitale, soltanto perché un gerarca fascista (10) aveva rivendicato a Roma «l’onore di essere bombardata come le altre città italiane» (11).

Nonostante gli appelli del Papa per l’incolumità di Roma, essa fu bombardata per due volte nell’estate del 1943. Il 19 luglio, 500 aerei attaccarono gli impianti dello scalo ferroviario di san Lorenzo, colpendo anche il popoloso quartiere limitrofo, compresa l’antica basilica paleocristiana di San Lorenzo fuori le Mura.

I morti furono circa 1.500 e più di 5.000 i feriti. L’indomani il card Maglione spedì un telegramma di protesta agli Alleati che, nonostante le assicurazioni date, avevano colpito la città del Papa: esso fu inviato per conoscenza anche a tutti gli Stati neutrali e in particolare a quelli dell’America Latina.

Il 13 agosto, per la seconda volta, Roma fu nuovamente attaccata dall’aviazione alleata; questa volta l’obiettivo fu la stazione Tuscolana, ma fu colpito anche il quartiere circostante. Il giorno successivo il nuovo Governo Badoglio, che non si era ancora dissociato da Hitler, comunicava ufficialmente di dichiarare Roma «città aperta» (12). Com’è noto, tutte e due le volte il Papa si era recato nei luoghi del disastro per confortare la popolazione romana (13).

Il problema della legittimità morale della guerra aerea, che durante il secondo conflitto mondiale fu praticata sia dai tedeschi sia dagli anglo-americani, anche se da questi ultimi, come si è visto, con maggiore determinazione, è stato spesso oggetto di dibattito tra storici, filosofi e politologi: recentemente nel sessantesimo anniversario della fine della guerra tale argomento è stato ancora una volta riproposto all’attenzione non soltanto degli studiosi, ma anche, attraverso i media, dell’opinione pubblica.

C’è stato soprattutto in Germania chi ha strumentalizzato tale anniversario, in particolare quello del bombardamento della città di Dresda (13 febbraio 1945, che costò la vita a circa 400.000 civili), per riproporre tesi politico-ideologiche di matrice neonazista, già condannate definitivamente dalla storia. Si è anche parlato provocatoriamente, in riferimento al bombardamento a tappeto delle città tedesche, di Bombenholocaust, con lo scopo di bilanciare l’Olocausto dei sei milioni di ebrei europei uccisi dai nazist9i nei campi di sterminio o in altro modo, negando così implicitamente la sua unicità e rilevanza sul piano storico.

Di diverso tenore e orientamento sono invece i recenti lavori prodotti in ambito tedesco da intellettuali come G.Grass, J. Friedrich, W.G. Sebald e altri, per portare all’attenzione della nuova Germania il senso di quella terribile esperienza collettiva. Particolarmente sensibile a questo tema è lo storico Sebald, secondo il quale i tedeschi, subito dopo la guerra, hanno fatto di tutto per rimuovere, sul piano sia personale sia pubblico, tale vicenda di annientamento, come se ciò non avesse lasciato postumi dolorosi nella coscienza collettiva.

«Un’opera di annientamento – scrive lo storico tedesco – che è rimasta in gran parte esclusa dalla consapevolezza di sé elaborata a posteriori dalle vittime, che non hanno mai svolto un ruolo rilevante nelle discussioni relative allo stato d’animo profondo del nostro Paese e che non ha mai assunto i connotati di una esperienza simbolo nell’immaginario collettivo» (14).

Ciò avviene, secondo l’autore, perché «un popolo che aveva assassinato e torturato a morte milioni di esseri umani nei suoi lager» (15) non poteva a posteriori chiedere conto, alle potenze vincitrici, della logica politico-militare che aveva condotto alla distruzione della maggior parte delle città tedesche e ucciso circa 600.000 civili. Non è da escludersi che da molti tedeschi tale opera di annientamento venisse vissuta come una giusta punizione, o come «la ritorsione di un’istanza superiore con la quale non era ammesso discutere».

Ritornando al discorso sulla responsabilità morale per i bombardamenti di città con il solo scopo di causare distruzione e morte, va ricordato che i maggiori responsabili di questa strategia di attacco furono gli inglesi, i quali già nel 1928 ne avevano posto le basi teoriche nella cosiddetta «dottrina Treschard».

Secondo Sebald, essi in realtà si decisero a intraprendere una guerra aerea totale non soltanto per conseguire in tal modo la vittoria, ma anche per motivazioni meno nobili, come

1) per utilizzare i materiali bellici prodotti in quegli anni e che rischiavano di rimanere inutilizzati nei campi di aviazione della Gran Bretagna orientale;

2) per la paura di rimanere assenti dal conflitto in corso – dopo che il loro esercito nel giugno 1940 era stato costretto a riparare frettolosamente in patria, lasciando al nemico le armi pesanti, per non finire schiacciato dalla Wehrmacht nella sua avanzata nella Francia del Nord – soprattutto dopo l’entrata in campo degli Stati Uniti, rischiando così di perdere l’impero coloniale;

3) per il valore propagandistico che i bombardamenti avevano sul morale degli inglesi, che per tutto l’autunno del 1940 avevano dovuto subire i continui bombardamenti tedeschi e, successivamente allo sbarco in Normandia, le micidiali V1 e V2 che nella sola Londra uccisero più di 6.000 persone; infatti le notizie relative a «quella sistematica opera di distruzione riportate ogni giorno dai quotidiani inglesi giungevano in un momento in cui nel continente europeo non si veniva a contatto con il nemico» (16).

Circa poi la reale efficacia di tali bombardamenti a tappeto per determinare la caduta del Reich, si sono espressi da più parti dubbi e incertezze. E’ indiscutibile che essi abbiano in qualche modo facilitato l’invasione terrestre della Germania da parte degli eserciti alleati, che ormai la circondavano a tenaglia da ovest e da est: la decisione di bombardare Dresda, ad esempio, secondo F. Taylor, fu presa su richiesta dei comandi militari russi, per facilitare l’avanzata dell’armata rossa in territorio prussiano.

Ma era proprio necessario, ci si è domandati più volte, ridurre in cenere nei primi mesi del 1945 città come Darmstadt, Dresda, Pforzheim, provocando la morte di più di 100.000 civili, quando ormai l’esito della guerra era decisamente favorevole agli Alleati?

Ricordiamo pure che proprio in vista dell’avanzata terrestre degli eserciti alleati, si decise già nel 1944 di non infettare il suolo della Germania lanciando bombe batteriologice, nonostante qualche titubanza da parte degli inglesi. Già nel 1943 esisteva una bomba di progettazione britannica e di costruzione statunitense, contenente spore di carbonchio altamente letali: «Una mezza dozzina di bombardieri Lancaster – disse Lord Cherwell a Churchill – potrebbero portarne con sé una quantità sufficiente a uccidere, se equamente distribuita, chiunque si trovi in un raggio di due chilometri e mezzo, rendendo il territorio inabitabile» (17).

Sembra ormai accertato, da studi fatti dagli stessi statunitensi in situ appena finita la guerra, che i bombardamenti non spinsero in nessun modo i tedeschi a ribellarsi a Hitler, anzi risultò che tra la popolazione, dopo aver subito lo shock dei primi attacchi, cresceva un sentimento di sfiducia e di indifferenza verso tutto. «Le continue incursioni aeree – scrive J. Friedrich – rendono insensibili, l’anima non si ribella, ma si chiude in se stessa, dominano apatia e depressione. Si sentiva uno schiacciante bisogno di dormire ma nessun istinto di rovesciare il regime di Hitler» (18).

Secondo alcuni analisti, l’efficacia dei bombardamenti sulle città per abbreviare il più possibile la durata della guerra – era la giustificazione data della propaganda alleata in favore della guerra aerea – non diede i frutti sperati: le fabbriche distrutte infatti venivano riparate e rimesse in funzione o trasferite in zone più sicure (19). Dei civili uccisi dalle bombe si faceva poco conto; essi servivano soltanto alla macchina propagandistica di Goebbels.

Scrive a tale riguardo Sebald: «Nella primavera del 1944 era emerso che, nonostante i ripetuti attacchi, il morale della popolazione tedesca non risultava per nulla abbattuto, la produzione industriale aveva subito danni tutt’al più marginali e la fine della guerra non si era avvicinata di un solo giorno» (20).

Non dobbiamo credere, però, che soltanto gli intellettuali di lingua e cultura tedesca abbiano criticato a fondo i criteri che ispiravano la cosiddetta «guerra aerea totale». Tra i maggiori critici di tale strategia bellica troviamo il filosofo e politologo statunitense J. Rawls, secondo il quale i bombardamenti sulla Germania da parte del Bomber Command effettuati nel 1941 o fino al 1942 (in risposta all’aggressione nazista e ai bombardamenti sulla Gran Bretagna) potevano essere giustificati come azione di guerra, quelli invece posti in essere dopo la sconfitta dell’esercito tedesco a Stalingrado, che rimetteva in discussione le sorti del conflitto e in qualche modo riequilibrava l’ordine della forza, risultavano invece contrari a ogni forma di etica di guerra.

Poiché in questo caso l’uccisione di civili inermi era voluta per se stessa, per colpire il morale della popolazione secondo la logica del moral bombing, e per provocare dall’interno l’implosione del sistema. Che però, come si è visto, non avvenne.

I bombardamenti inglesi fino al 1942 possono considerarsi moralmente accettabili o tollerabili, secondo Rawls, per due ragioni fondamentali: «Primo, il nazismo faceva presagire un male politico e morale di portata incalcolabile per la vita sociale in qualsiasi parte del mondo. Secondo, la natura e la storia della democrazia costituzionale e il suo ruolo nella storia europea erano in pericolo. Churchill non esagerava davvero quando alla Camera dei Comuni nei giorni della capitolazione francese affermava che “se non riusciamo a resistere a Hitler, il mondo intero, compresi gli Stati Uniti […], piomberà di nuovo in secoli bui”» (21). Tale tipo di minacce giustificava in questo caso l’applicazione dell’«eccezione dell’emergenza suprema».

Tale esenzione, secondo Rawls, consentiva che, in circostanze eccezionalmente gravi, fosse momentaneamente sospeso lo staus giuridico di tutela dei civili, il quale di norma impediva che fossero oggetto di attacco diretto di guerra. Ciò si riteneva consentito per tutelare le democrazie costituzionali e assicurare l’esistenza alle «società ben ordinate». Secondo il filosofo statunitense l’eccezione dell’emergenza suprema invece non si sarebbe mai verificata in nessuna fase della guerra degli Stati Uniti contro il Giappone.

Le bombe atomiche lanciate nell’agosto del 1945 dagli americani su Hiroshima e Nagasaki non trovano secondo Rawls nessuna giustificazione di ordine morale: il loro utilizzo fu semplicemente un atto criminoso contro l’umanità: «Si diceva – scrive il filosofo – che sganciare la bomba era giustificato perché avrebbe avvicinato la fine della guerra.

E’ chiaro che Truman e la maggior parte degli altri leader alleati pensavano che l’effetto sarebbe stato quello e che così si sarebbero salvate le vite dei soldati americani. Le vite dei giapponesi, militari e civili, presumibilmente, contavano meno» (22). La seconda guerra mondiale finì definitivamente soltanto dopo tale terribile avvenimento.

Il mancato bombardamento delle linee ferroviarie per i «Lager»

C’è ancora un aspetto che in questi ultimi anni è tornato spesso nel dibattito storiografico, soprattutto in quello di lingua inglese (23). Ci si è chiesti infatti perché i bombardieri alleati, che furono capaci di addentrarsi per migliaia di chilometri in territorio nemico, colpendo Berlino, Dresda e perfino Danzica, non si spinsero nella vicina Polonia meridionale per bombardare le linee ferroviarie su cui vagoni di morte percorrevano indisturbati i territori del Reich verso i campi di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Infatti a partire dalla primavera del 1944 gli Alleati erano informati delle atrocità che venivano compiute in quei luoghi, poiché due ebrei fuggiti dal campo avevano descritto ogni cosa in relazioni immediatamente inviate alle cancellerie alleate.

Una copia del cosiddetto «protocollo di Auschwitz» fu pure inviata a Pio XII, attraverso il rappresentante personale del Presidente degli Stati Uniti. Essa però arrivò in Vaticano soltanto nel tardo autunno dello stesso anno, quando ormai ogni cosa era di dominio pubblico (24). Ci si chiede se i Governi alleati siano venuti a conoscenza dell’esistenza di campi di sterminio ad Auschwitz soltanto attraverso le descrizioni che ne fecero i due ebrei fuggitivi, oppure se ne fossero informati anche da altre fonti militari o diplomatiche. A questo proposito è illuminante la testimonianza di un collaboratore a Roma di M. Taylor, rappresentante personale di Roosevelt, l’addetto alla delegazione, F. C. Gowen.

Questi, in un Rapporto confidenziale redatto nel dopoguerra (25), scrisse: «Il Governo polacco a Londra ripetutamente informò gli inglesi e gli americani dell’esistenza di un complesso di campi di morte ad Auschwitz-Birkenau, che però veniva indicato come “Oswiecim”. Tali dettagliati e accurati rapporti furono ordinariamente “non creduti” dal Foreign Office, e conseguentemente non presi in considerazione dal Dipartimento di Stato Usa» (26).

Gowen, però, ritiene che tali campi di morte fossero ben noti ad alcuni alti ufficiali a Londra e Washington, come erano anche ben informati dell’esistenza dei treni della morte stipati di ebrei, che da tutti i territori dell’Europa sottoposti alla dominazione nazista partivano verso Auschwitz-Birkenau. Ma, «sebbene tali cose fossero conosciute, né i campi di morte né le linee ferroviarie furono mai bombardate».

Eppure già a partire dalla metà del 1943 – scrive il diplomatico – un gran numero di organizzazioni ebraiche aveva segretamente richiesto ai Governi alleati il bombardamento di Auschwitz-Birkenau: «Ma queste richieste furono tutte ignorate sia a Londra, sia a Washington e Berna» (27). Per quale motivo – si chiese Gowen – tali allarmanti notizie furono o non credute o ritenute esagerate o poco attendibili dalle autorità alleate? Da un lato – egli scrive – a motivo di un banale equivoco sul nome della località interessata, dall’altro perché evidentemente il bombardamento di tali obiettivi non era considerato di primaria importanza dai comandi militari.

«E’ stato notato che i campi di morte di Auschwitz-Birkenau erano invariabilmente indicati in quelle richieste come “Oswiecim”, il nome polacco del paese: parte di una larga area incorporata nell’anteguerra [sic] da Hitler nel III Reich. Nel tempo di guerra il suo nome cambiò da Oswiecim in Auschwitz su decreto della Germania; tale fatto fu usato da alcuni per confondere ulteriormente la questione: infatti il nome di Auschwitz non appariva nelle mappe polacche di quell’area vicina a Cracovia.

Auschwitz III, il nome segreto delle SS per indicare le industrie di materie sintetiche (operante come campo di lavoro di Auschwitz) presso Monowitz (un altro nome tedesco), fu riportato come Oswiecim dalle operazioni ufficiali della US Army Air Force e dalla RAF, i quali non erano stati informati che Oswiecim era il nome che il Governo polacco e alcuni gruppi di ebrei usavano per far riferimento al complesso dei campi di morte di Auschwitz.-Birkenau.

Inoltre, nel tardo 1944, mentre gli Alleati facevano progetti per bombardare gli impianti delle industrie sintetiche di Oswiecim, alcuni gruppi ebraici comunicavano all’assistente segretario di guerra J.J. McCloy e ad altri anziani ufficiali in Washington che Auschwitz-Birkenau era entro la portata delle bombe alleate» (28), e quindi chiesero che si colpisse la rete ferroviaria che conduceva ai campi di morte creando azioni di disturbo, in modo da rallentare l’inarrestabile macchina di morte.

Che cosa fecero a questo punto gli Alleati? Nel giugno Churchill si interessò personalmente della questione e, dopo aver letto i rapporti su tale materia, scrisse al ministro degli Esteri, A. Eden: «Che cosa si può fare, che cosa si può dire?». Il Ministro dal canto suo consigliò il bombardamento di alcune linee ferroviarie, in particolare quelle che procedevano verso la Polonia.

Dopo di che Churchill diede istruzioni a Eden in questo senso: «Cercate di ottenere quanto potete dall’aviazione e servitevi di me se sarà necessario». Ora, poiché si sarebbe dovuto fare un bombardamento di precisione per colpire la rete ferroviaria o importanti nodi di comunicazione, si passò l’ordine agli statunitensi, responsabili delle operazioni diurne dell’aviazione alleata.

Al Pentagono arrivarono diverse richieste che chiedevano il bombardamento delle reti ferroviarie che conducevano ad Auschwitz. L’ufficio competente prese conoscenza di tali richieste, rispondendo a sua volta: «Annullare tutto» (29). Un’offensiva alleata per interrompere il transito dei treni della morte verso Auschwitz non soltanto non fu posta in esecuzione, ma non fu neppure formulato un piano specifico a tale riguardo.

Come è noto, furono distrutte le industrie di materie sintetiche situate vicino ad Auschwitz-Birkenau, perché considerate obiettivi di guerra, ma nessuna bomba fu lanciata sulla rete ferroviaria, né sui forni crematori, che pure erano ben visibili dalle fotografie riprese dagli aerei che perlustravano la zona. Evidentemente per gli Alleati contrastare la soppressione degli ebrei in Europa non era una priorità (30).

Tutto fu coperto da una sorta di cospirazione del silenzio : il nemico da abbattere era la Germania nazista e una parte dei suoi abitanti. «Il silenzio rigorosamente tenuto durante la guerra su Auschwitz-Birkenau e sui campi di morte delle SS, sia a Londra sia a Washington e a Mosca, fu un silenzio assordante. Era come se esistesse tra le due sponde dell’Atlantico un accordo per ignorare tale questione» (31).

L’obiettivo principale degli Alleati in quel momento era vincere la guerra e, quindi, deporre Hitler e cancellare una volta per tutte la Germania e dall’Europa ogni traccia di nazionalsocialismo; il dramma vissuto dagli ebrei, sebbene avvertito e considerato grave – come risulta dalle relazioni scritte in quegli anni dai funzionari e diplomatici angloamericani – fu per il momento posto tra parentesi. Nessuna emergenza umanitaria, seppure di immani proporzioni, poteva purtroppo distrarre in quel momento gli Alleati dal perseguire con decisione i veri obiettivi della guerra.

Tale modalità di condurre la guerra aerea viene anche oggi condannata, come lo è stata in passato, dalla coscienza cristiana: essa appare sotto tutti i punti di vista inaccettabile poiché non proporzionata al «male concreto » che in quel momnto si voleva evitare. Ciò vale per i bombardamenti tedeschi sulle città inglesi inermi, pr quelli alleati sulle città tedesche, massicci e spesso inutili sul piano militare e strategico, per quelli statunitensi, ancora più micidiali, su Hiroshima e Nagasaki.

Note

1) J. Friedrich, La Germania bombardata. La popolazione tedesca sotto gli attacchi alleati: 1940-1945, Milano, Mondatori, 2004, 51.
2) Cfr G. Sale, «I bombardamenti aerei nel secondo conflitto mondiale» in Civ. Catt. 2005 III 224-237.
3) S.A.Garrett, Ethics and Airpower in World War II. The British Bombing of German Cities, New York, Palgrave Macmillian, 1977, 99.
4) Archivio della Civiltà cattolica (ACC), Fondo non ordinato. Si tratta di alcune notizie comunicate nel maggio 1944 dal generale Carboni a mons. Luigi Centoz.
5) S.A. Garrett, Ethics and Airpower in World War II. The British Bombing of German Cities, cit 113.
6) In Civ Catt 1943 177
7) Ivi, 1942 I 82.
8) Actes et documents du Saint Siége relatif à la seconde Guerre Mondiale (ADSS) vol VIII, Citta del Vaticano, Libr. Ed. Vaticana, 1973, 96.
9) Cfr ivi, 135.
10) Si trattava del gerarca Tullio Cianetti, presidente della Confederazione fascista del Lavoro e dell’Industria.
11) ADSS, vol VIII, 401.
12) Il card. Maglione avvisò subito il delegato a Washington, mons Cicognani, ma la sua risposta, del 16 agosto, fu poco rassicurante: la dichiarazione italiana non solo non aveva giovato a nulla, ma aveva perfino suscitato diffidenza specie dopo le dichiarazioni che la guerra sarebbe continuata a fianco della Germania: «Perciò Alleati appariscono decisi a martellare Italia, stancare popolazione, costringere attraverso distruzione e massacro a resa piena se codesto Governo tarda a trovare una via d’uscita».
13) Nel radiomessaggio natalizio del 1943 il papa disse a questo proposito: «Nel corso di quest’anno al tormenta della guerra si è avvicinata sempre più alla Città Eterna; e dure sofferenze si sono abbattute su molti dei nostri diocesani. Non pochi tra i più poveri hanno visto il loro focolare distrutto da attacchi aerei. Un Santuario [San Lorenzo fuori le Mura], caro al cuore della Roma cristiana e vero gioiello di una venerabile antichità, fu colpito e ricevette ferite difficilmente sanabili». (Civ Catt. 1944 I 66).
14) W.G. Sebald, Storia naturale della distruzione, Milano Adelphi, 2004, 18.
15) Ivi, 26
16) Ivi, 30
17) J. Friedrich, La Germania bombardata. La popolazione tedesca sotto gli attacchi alleati: 1940-1945, cit., 89.
18) Ivi, 99.
19) In quel periodo metà dell’Europa era occupata dai nazisti, per cui ciò che mancava da una parte (come, ad esempio, la manodopera) veniva portata da un’altra: questo di fatto durò almeno fino allo sbarco degli Alleati in Normanidia.
20) W.G Sebald, Storia naturale della distruzione, cit. 29
21) J Ralws, Il diritto dei popoli, Torino, Comunità, 2001, 132.
22) Ivi, 133. secondo altri studiosi le bombe atomiche sul Giappone furono invece lanciate per motivi di ordine politico, cioè nel contesto della contrapposizione tra USA e URSS che stava crescendo con la fine della guerra. Con esse gli Stati Uniti davano alla Russia una dimostrazione chiara della loro potenza.
23) Cfr R. Breitman, Il silenzio degli Alleati, Milano, Mondatori 1999
24) Cfr. R. Graham, «Il Protocollo di Auschwitz e il vaticano nel 1944», in Civ Catt 1996 IV 330-337.
25) Il testo definitivo, non ancora pubblicato, è stato però redatto da suo figlio W.E. Gowen. Un suo esemplare è conservato presso l’archivio della Civiltà Cttolica.
26) ACC, Fondo non ordinato
27) Ivi.
28) Ivi.
29) J. Friedrich, La Germania bombardata. La popolazione tedesca sotto gli attacchi alleati: 1940-1945, cit. 112.
30) Secondo lo storico statunitense R. Breitman, una tempestiva denuncia da parte degli Alleati dei crimini nazisti nei confronti degli ebrei avrebbe costituito un serio ostacolo all’attuazione della «soluzione finale», ma ciò non fu fatto. «La cautela e il calcolo prevalsero invece sulle due rive dell’Atlantico». La verità è che «gli Alleati si comportarono in maniera tale da far capire alla Germania che non gliene importava un accidente di quanto accadeva agli ebrei» (R:Breitman, Il silenzio degli Alleati, cit. 246) 31) ACC, Fondo non ordinato, Relazione Gowen