Analisi (molto)critica del nuovismo ecclesiale con suggerimenti per sradicare il relativismo. C ’è un ’ignoranza nel clero cattolico che non sa cosa sia l ’islam,e non ha ancora fatto lo sforzo di informarsi. La battaglia contro il relativismo è una battaglia interna alla chiesa, è lo stesso mondo cristiano a credere che le religioni si equivalgono. Per farsi accettare dal mondo molti chierici hanno abbracciato l’umanitarismo e l ’egualitarismo, il risultato è un odio ancora maggiore.
di Marina Valensise
Lo storico francese, membro dell’Institut, lo fa con un saggio sull’ultimo numero di Commentaire, il trimestrale fondato da Raymond Aron e diretto ora da JeanClaude Casanova con la sua pattuglia di liberalconservatori scelti. Besançon adempie al compito da slavista, studioso di leninismo, e da cattolico esperto di chiesa ortodossa e in grado di passare dalla teologia all’arte astratta seguendo il filo dell’iconoclastia.
Il risultato è un magnifico ritratto di Benedetto XVI e del mondo cattolico, di fronte alle due sfide dell’islam e dell’evangelismo, ma anche una riflessione senza indulgenza sul ritardo con cui la chiesa ne ha preso coscienza, del suo perché, nell’anchilosi tra religione umanitaria e religione democratica.
Quello che colpisce innanzitutto Besançon nella biografia di Joseph Ratzinger è la scoperta in apparenza tardiva dell’essenza del totalitarismo da parte del futuro pontefice. Nella sua autobiografia, infatti, l’ex seminarista bavarese, figlio di un gendarme assai devoto, descrive la Germania di Hitler conosciuta da bambino “non come un paese convertito al nazismo, ma come un paese occupato dal partito nazista e le sue bande”. Ma è solo nel ’68 che, decano a Tubinga della facoltà di teologia, alle prese con gli ideologi rivoluzionari della Rote Armee Fraktion, Ratzinger avrà l’insight del totalitarismo.
Altro aspetto interessante è, per Besançon, la sua tesi sulla teologia della storia in san Bonaventura. Una scelta che dimostra l’adesione all’agostinismo e l’influenza dei grandi teologi gesuiti come Henri de Lubac, Hans Urs von Balthasar e Romano Guardini, che non gli impedirà di ritrovare, una volta a Roma, il neotomismo del domenicano Georges Cottier.
Besançon parla di Ratzinger come di un “Cassirer cattolico”, un grande professore che discute con passione coi teologi luterani, prima di diventare arcivescovo di Monaco e di essere nominato, nel 1981, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede da Papa Wojtyla, che impresse così una svolta al suo pontificato.
“Benché fosse egli stesso un intellettuale, Giovanni Paolo II – scrive Besançon – ebbe il gran merito di affidare quell’incarico a un uomo che sapeva essere intellettualmente più attrezzato di lui. E’ raro che le grandi personalità sopportino di avere accanto personalità di pari levatura. Certo i due erano diversi. Wojtyla aveva ricevuto una formazione eclettica, in Polonia, nelle condizioni peggiori. Ratzinger invece era lo scholar sul quale il Papa poteva contare in qualsiasi circostanza. E furono legati sino all’ultimo da un’amicizia fatta di collaborazione”.
Contrariamente a quel che spesso si pensa, Ratzinger – a dire di Besançon – non è affatto un trionfalista. Anzi, è abitato da una visione estremamente buia, anche se non disperata, dello stato in cui versa la chiesa contemporanea.
Senza farsi illusioni è ben consapevole che “le cose per la chiesa vanno male, molto male”. Eppure, prima da cardinale e ora da Papa, resta persuaso che nel naufragio la chiesa conservi il tesoro del dogma che, definito e ridefinito da secoli di riflessione, rappresenta il cuore stesso della sua verità . E’ per questo che, dopo aver assistito all’invasione marxista leninista della teologia della liberazione, Ratzinger ha voluto limitarne i danni in America latina.
E l’indomani della sua elezione, ha insistito sul celibato ecclesiastico, senza nulla promettere in fatto di sacerdozio femminile. Fedele al Concilio Vaticano II, ne ha riletto le conclusioni alla luce della vera tradizione dogmatica, lasciando il ruolo di Prefetto solo per esprimere alcune riserve sull’evolvere della liturgia, e in particolare sulla posizione del prete rivolto ai fedeli, anziché all’altare.
Anche nel rapporto coi luterani Ratzinger si è sempre posto dal punto di vista della verità, nota Besançon. “Anziché lasciarsi andare a un sentimentalismo ecumenico, Ratzinger cerca di sapere in che cosa credono i luterani”. Vuole sapere quali sono i testi canonici che per loro fanno autorità.
Ma il fatto che con loro non sia possibile un accordo sulla “certezza della salvezza” e nemmeno sulla giustificazione attraverso la fede, se l’atto di fede riassume in sé le altre due virtù teologali, speranza e carità, non gli ha impedito di continuare il dialogo per arrivare, nel 1999, alla firma di un’intesa, e alla solenne affermazione della sola fide e della sola gratia, riconosciute dal Concilio di Trento.
Oggi del resto, a parte l’interesse di una discussione vivificante, è la stessa idea di controversia teologica che tende a scomparire, tra cattolici e riformati, vuoi per indifferenza o perdita di senso o per ignoranza. Viceversa, rispetto agli ortodossi, la chiesa cattolica sarebbe pronta a fare carte false per porre fine a una separazione che l’angustia da secoli. Giovanni Paolo II, in questo senso ha fatto tutto quel che poteva. Ha definito l’ortodossia “uno dei due polmoni” dell’unica chiesa, sebbene uno fosse “compresso da uno pneumotorace straordinariamente duro”.
Il fatto è che il solo patriarcato di Mosca rappresenta i tre quarti dell’ortodossia, e in termini di soldi e di fedeli è in grado di esercitare un tale peso sul patriarcato ecumenico di Costantinopoli, che Atene cerca proprio per questo di attrarre nella sua orbita. Ormai insomma l’ortodossia, spiega Besançon, non è più un semplice strumento dello stato russo, come all’epoca di Nicola I o di Stalin, ma uno dei suoi ingranaggi essenziali.
“I dignitari del Cremlino ostentano grandi croci sul petto, seguono tutte le processioni. Venerano persino le icone di Putin. In Russia oggi si parla di ortodossismo, come un tempo si diceva leninismo, come se bastasse un ismo per ritrovare la stessa funzione. Mosca si considera non la terza Roma, ma la sola e unica Gerusalemme, e la Russia l’unico stato davvero cristiano”, quasi fossimo tornati al XVI secolo, all’epoca del monaco Filoteo (quello di Pskov, che nel 1510, dopo le nozze tra il principe Ivan III e la nipote dell’ultimo imperatore di Costantinopoli, si rivolse allo zar annunciando: “Due Rome son cadute, ma la terza sta in piedi, e non ve ne sarà una quarta”).
Il patriarca Alessio II, continua Besançon, pensa che i latini e i monofisiti (per i quali esiste una sola natura nel Cristo, e cioè la natura divina del Figlio di Dio) vadano considerati eretici, non cristiani. In più, Mosca chiede a Roma di strangolare con le sue mani la chiesa uniate o “greco cattolica”, repressa da Stalin e prima ancora dallo zar, e sopravvissuta in Ucraina con 5 milioni di fedeli.
Roma naturalmente non lo può accettare, ma s’astiene dal nominare patriarca il cardinale di Leopoli, come vorrebbero gli uniati, mentre Alessio II vorrebbe estendere la sua giurisdizione su tutti i territori dell’ex Urss e su tutti i russi nel mondo. Diversa la reazione degli ebrei all’elezione del nuovo Papa, di cui conoscevano gli sforzi di riconciliazione compiuti durante il pontificato di Wojtyla. Non a caso, il nuovo Papa ha festeggiato il 40° anniversario della “Nostra Aetate” al Tempio romano.
Di fatto, la battaglia di Benedetto XVI contro il relativismo è una battaglia interna alla chiesa, perché ormai è lo stesso mondo cristiano a pensare che le religioni si equivalgano e che ognuno possa seguirne una fai da te. Al contrario, Ratzinger è convinto che la verità stia da una parte sola, e che solo nella chiesa cattolica si possa trovare completamente.
Ha scritto un libro per denunciare i limiti del pluralismo teologico, “quanto al dialogo interreligioso – osserva Besançon – non è proprio il genere d’iniziativa favorito da un Papa che ha liquidato gli incontri di Assisi dove sgozzavano polli sull’altare di Santa Chiara”. La successione di Giovanni Paolo II è stata semplice e rapida. Il Conclave ha eletto subito il candidato migliore, che era anche il miglior teologo vivente, residente a Roma da anni.
Una volta eletto, il nuovo Papa ha perfettamente assicurato la transizione, tornando alla sobrietà, dopo il carisma di Wojtyla, ritrovando “lo stile giusto e la dignità della chiesa”, e imponendo “una sorta di digiuno, dopo un festino copioso, a una chiesa bisognosa di silenzio e riflessione per affrontare le nuove sfide del XXI secolo”.
La prima è l’islam. Cent’anni fa, spiega Besançon, l’islam appariva al mondo occidentale come un’incrostazione arcaica destinata a riassorbirsi o a vegetare nel suo secolare immobilismo. Oggi conta più fedeli della chiesa cattolica. L’ islam conquista proseliti, reprime i cristiani, in Africa e in medio oriente, a forza di conversioni, espulsioni, emigrazioni, e s’espande in Europa.
Il tema dell’islam come religione naturale del Dio rivelato e la differenza teologica rispetto all’idea di alleanza che fonda il giudaismo e il cristianesimo, Besançon li ha già affrontati negli anni scorsi, sia in un libro (“Trois Tentations dans l’Eglise”, Perrin 2002), sia in un saggio tradotto dal Foglio nel 2004. Perciò su Commentaire si limita a sottolineare la vaghezza di giudizio che regna oggi “per l’ignoranza del clero che, anche ai vertici, non sa cosa sia l’islam o non ha ancora fatto lo sforzo di informarsi”.
Stigmatizza l’esistenza in Vaticano di una “lobby araba”, molto influente presso il Pontificio istituto di studi arabi e islamistica dove ha a lungo insegnato padre Maurizio Borrmans, che intendeva dimostrare le affinità e le convergenze tra la religione del Corano e quella della Bibbia, alimentando “dialoghi” che in realtà erano solo “monologhi alternati tra rappresentanti dei due campi che restavano o fingevano di restare sordi agli argomenti altrui”, come succede ancora oggi ai vescovi cattolici che vivono in medio oriente e si guardano bene sia dal portare offesa all’islam, sia dal contrastare l’irenismo dominante nel cattolicesimo europeo.
Resta il fatto che la chiesa di Roma si trova davanti a un dilemma: rifiutare il conflitto, continuando a utilizzare un controsenso quando si parla di tre religioni del libro, col rischio di islamizzarsi senza accorgersene.
O mantenere un atteggiamento amichevole, ma annoverare una volta per tutte la religione musulmana fra le religioni non cristiane, dunque l’islam come paganesimo (tesi ripresa da Besançon anche nel suo contributo su “Islam e occidente”, pubblicato da liberilibri) finendola una volta per tutte col “triangolo” cristianesimo, giudaismo, islam, che può valere per il giudaismo, può valere per l’islam, ma non per il cristianesimo legato al giudaismo da vincolo di parentela, che invece non esiste con l’islam.
L’altra sfida è la spinta dell’evangelismo, che sposta le frontiere e muta i rapporti di forza tra cattolici e protestanti. Rispetto alla religione “una, santa, cattolica, romana”, quella evangelica, implica una religiosità affettiva, adogmatica, associativa, pratica, civica, mantiene il senso forte della relazione personale con Dio, ascolta la sua parola, e professa il credo tradizionale in perfetto accordo con le strutture sociali americane.
Esiste infatti una stretta analogia tra il rapporto individuale con Dio e l’individualismo democratico, e l’uno e l’altro crescono e si fortificano a vicenda, in un paese come l’America dove il moltiplicarsi delle sette è, sin dai Padri fondatori, garanzia di libertà, e la forma di governo ha senso solo in quanto fondata su una fede profonda. Due sono, infine, le ragioni per le quali la chiesa ha preso in ritardo coscienza di queste sfide, secondo Besançon.
La prima è la religione umanitaria, la tentazione cioè di “una perversa imitatio di se stessa”, in cui la chiesa è caduta per la pressione del comunismo che l’ha portata ad aprirsi al mondo, perdendo di vista la realtà e trascurando l’annuncio del Vangelo. La seconda ragione sta nell’evoluzione egualitaria della società post ’68, con lo svanire dell’autorità, la volatilità della regola morale, il relativismo generalizzato.
“La democrazia – scrive infatti Besançon – assume i colori religiosi quando si tratta di cancellare ogni differen za tra gli esseri umani”. Non distingue più tra uomo e donna, padri e figli, sani e malati, eterosessuali e omosessuali, diventa inclusiva e portatrice di un umanitarismo radicale che rende ipervulnerabile una società come la chiesa cattolica, struttura gerarchica, legata al potere divino, e straordinariamente anomala in un mondo in cui l’unica fonte di legittimità è il suffragio.
Eppure sembra che la chiesa, abbracciando l’umanitario, accettando il nuovo regime democratico, cercando una connivenza col ’68, abbia finito per essere più odiata che mai. “Non solo per la sua organizzazione ecclesiastica, per l’indebito potere del clero, ma è la chiesa in quanto tale a diventare un ostacolo alla libertà, supremo valore della democrazia”.
Come osa interdire certi insegnanti, sbarrare la strada alle donne, agli omosessuali, quando ogni paese civile riconosce la completa eguaglianza giuridica? E non parliamo della libertà sessuale. L’accusa s’estende anche al passato, Galileo, l’Inquisizione, lo schiavismo, e soprattutto la Shoah.
“Sotto processo ormai non è più la sola chiesa cattolica, ma il cristianesimo nei suoi stessi testi fondatori, disprezzato in nome della ragione e della scienza, oggi indigna in nome della morale”. E la chiesa davanti a un tale diluvio di odio e disprezzo cosa fa? “Nega semplicemente l’esistenza dei nemici”, risponde Besançon. “Volta le spalle alla realtà, falsa la morale, e si trincera dietro un sublime morale supercristiano che vorrebbe passare per mistica, dispensando la parola amore in tutte le salse e i modi possibili”.
Si arriva così a quella che Paolo VI definì “l’autodemolizione della chiesa”. Con la Controriforma e il Concilio di Trento, la chiesa di Roma rispose all’iconoclasmo riformato per mezzo di una prodigiosa creatività barocca. Col Concilio Vaticano II, invece, è la stessa chiesa in fase di autodemolizione a produrre un’esplosione iconoclasta. Muri nudi, quadri aboliti, statue rimosse, liturgia priva di bellezza.
L’ondata iconosclasta è opera di clero e del clericalismo, ma al crollo generale sopravvive il clericalismo, la piaga che accompagna la chiesa sin dalle origini. In quarant’anni il numero di praticanti si riduce di tre quarti in Francia, seguita a ruota da Italia, Spagna, Irlanda, Polonia e Stati Uniti, e il numero di preti cala in proporzione. I cristiani sanno oramai di essere una minoranza sempre più esigua, e sono rassegnati. “Ma sanno almeno in cosa credono?” si domanda Besançon. E la risposta è incerta, stando ai sondaggi relativi alla fede nei dogmi fondamentali, come la resurrezione di Cristo, o la vita eterna.
I giovani, anche se catechizzati, di religione non ne sanno granché, anzi sono privi delle nozioni di base. E gli stessi vescovi ammettono che la barca sta andando a picco e non c’è nulla da fare, e la chiesa finirà per diventare una setta, o un grappolo di sette isolate e ostili. Per quanto crepuscolare, il quadro però è incompleto.
Non tiene conto di quei fedeli che, indifferenti alle statistiche, si meravigliano ancora che le messe, per quanto brutte, siano celebrate. E con gli occhi dell’animo, scorgono la presenza di Dio nell’Eucarestia e nel minimo atto di carità. Hanno la speranza, credono nella fede che la chiesa cattolica abbia le chiavi della vita eterna, anche se ignorano quanti fedeli si troveranno all’appuntamento della parusia.
“La cosa, in fondo, appartiene a un altro ordine, direbbe Blaise Pascal. Il Papa non si può rifugiare nella contemplazione misticoliturgica, come succede nell’ortodossia orientale, ma deve prendere decisioni pratiche che riguardano la chiesa visibile, incarnata com’è incarnato il suo Capo”. E’ vero che esiste un rimedio per arginare la crisi.
E inizia col modernismo, che alla fine del XIX secolo si proponeva di colmare l’abisso tra la dottrina della chiesa e la ragione, vale a dire la filosofia, la storia e la scienza contemporanee. Ammettendo e relativizzando i risultati della scienza, il dissidio fu in parte risolto, ma non scomparve del tutto.
Adesso, il nuovo modernismo si propone di superare il disaccordo normativo tra la chiesa e la società contemporanea. Progressista all’epoca della Guerra fredda, oggi è un modernismo teologico più che politico. Volendo sbarazzarsi di dogmi defunti e norme obsolete, interpreta per esempio la resurrezione di Cristo come un modo di parlare dei discepoli che significa semplicemente la permanenza del “messaggio” lasciato da lui.
O vuole far passare la Vergine Maria per una madre di famiglia fiera dei suoi molti figli e il peccato originale per un mito inventato da due nevrotici come san Paolo e Agostino, che hanno fatto ammalare per secoli la cristianità latina. Vuole convincerci che divorzio e aborto siano accettabili e comunque lo siano il matrimonio dei divorziati e l’ammissione per loro alla comunione.
Tutte tesi che hanno dalla loro “la gentilezza, l’umanità, la tenerezza indulgente dei nostri regimi democratici moderni, e testimoniano di quella ‘apertura all’altro’ che di per sé è un valore tenuto in gran conto dal nostro tempo”. Ma allora cosa fare? Coltivare una speranza “ecumenica”, uscendo dal dogma cattolico, col rischio di confondersi all’evangelismo, o rafforzare la dottrina teologica? Alla domanda, Besançon dice di non saper rispondere. E riconosce solo che la crisi della chiesa cattolica è una crisi dell’intelligenza, e che la chiave dell’intelligenza può essere soltanto teologica. Il che è già un passo avanti.
“Se la chiesa non è stata capace di orientarsi correttamente, se ha preso una strada che non porta da nessuna parte, è perché non è stata capace di operare la coincidenza tra l’intelletto e la realtà. Non ha saputo vedere l’avversario, non ha scelto giudiziosamente tra il nemico e l’amico, non ha saputo analizzare le situazioni com’era necessario. Ed è per questa costante deficienza intellettuale che scoraggia quelli che potrebbero essere i suoi amici naturali e incoraggia chi la disprezza”.
L’unico vero rimedio allora è un ritorno in grande alla teologia, come discorso razionale su Dio, e fonte di piacere analogo a quello che cercavano i filosofi dell’antichità. E, secondo Besançon, “il massimo regalo che la chiesa potrebbe offrire a un’umanità che la democrazia moderna non ha reso necessariamente più felice o più intelligente sarebbe di farglieli condividere”. Perché le emozioni, gli slanci sentimentali che gli uomini possono procurarsi nelle più diverse religiosità, purtroppo, non possono fare bene.
“E’ comprenderle che farà bene”. E il “Deus Caritas est”, la prima enciclica del nuovo Papa teologo, già lo dimostra.