La Ue sta varando un lessico politicamente corretto censurando termini come “terrorista islamico”. Parla Samir Khalil: «Non si può dimenticare la realtà cambiando il dizionario»
di Giorgio Paolucci
Un’apposita commissione dell’Unione Europea sta mettendo a punto un “lessico” che fissi le linee guida per funzionari e politici. Sotto esame sarebbero alcuni termini ritenuti ambigui o addirittura infondati come “terrorista islamico”, “jihad” nel senso di “guerra santa”, “islamista” come sinonimo di estremista. Un primo documento di rilettura “islamicamente corretta” del vocabolario corrente dovrebbe essere presentato in giugno dalla presidenza austriaca di turno della Ue.
«La lingua è un’arma terribile, e certe parole usate a sproposito possono offendere le sensibilità religiose e agitare gli animi. Ma questo non autorizza a manipolare la verità o a mettere il velo su certi fatti solo perché sono spiacevoli e imbarazzanti», puntualizza Samir Khalil Samir, islamologo “politicamente scorretto” di fama internazionale, docente alla Saint Joseph University e al Pontificio Istituto Orientale di Roma.
Secondo le anticipazioni filtrate da Bruxelles, il termine “terrorista islamico” verrebbe sostituito da “terrorista che invoca l’islam in modo oltraggioso e illegittimo”…
«Non si deve dimenticare che in questi anni molti imam hanno più volte legittimato l’uso del primo termine dichiarandolo conforme al Corano e alla tradizione musulmana, la quale autorizza il ricorso alla violenza quando una terra ritenuta islamica deve essere difesa dai nemici. E questo si verificherebbe in molte situazioni: Palestina, Afghanistan, Iraq, negli anni scorsi la Bosnia. Coloro che in Occidente vengono chiamati terroristi, nel mondo islamico sono considerati mujahidin e se muoiono vengono onorati come martiri. Dunque, non è vero che il termine terrorista islamico è improprio o addirittura illegittimo: appartiene alla mentalità che si è sviluppata da tempo in molta parte del mondo musulmano. Altra cosa, invece, è stabilire un’equivalenza impropria e fuorviante tra islam e terrorismo. Ma purtroppo la realtà di questi anni ci costringe a fare i conti con tanta gente che usa la violenza e compie azioni terroristiche convinta di agire da buon musulmano».
Un altro termine da tempo entrato nel vocabolario corrente e che verrebbe usato impropriamente è “jihad”. Per la maggior parte dei musulmani, obiettano i censori dell’Unione europea, non significa guerra santa, ma indica piuttosto uno sforzo spirituale per migliorare se stessi, e non va quindi utilizzato in una accezione negativa…
«Questa è la versione edulcorata che piace a voi occidentali. Peccato che non corrisponda a ciò che sta scritto nel Corano e negli hadith (i detti attribuiti a Maometto, ndr) né alla mentalità diffusa tra i musulmani. Nel Corano la parola jihad è utilizzata per significare la lotta in nome di Dio ed è un obbligo a cui tutti i credenti maschi e adulti sono tenuti quando la comunità è in pericolo. Nelle 6 raccolte autentiche (sahâ’ih) di hadith, un capitolo intero è dedicato al jihad e tratta esclusivamente della guerra sulla via di Dio, non dello sforzo spirituale; e nel sito del ministero degli Affari islamici dell’Arabia Saudita si parla di battaglia, non di sforzo interiore. Infine nel linguaggio corrente dei Paesi arabi, come pure sui giornali di quei Paesi, non si usa mai il termine jihad per definire una lotta o uno sforzo spirituale, e la parola mujahidin significa “quelli che praticano il jihad”. Questa è una elaborazione molto diffusa in Occidente, che non corrisponde né alla tradizione né alla mentalità corrente nel mondo arabo-islamico».
Il nuovo lessico in corso di elaborazione prevederebbe anche la critica del termine “islamista”, impropriamente usato come sinonimo di estremista o fiancheggiatore delle tendenze più radicali.
«Anche in questo caso si deve partire da quello che accade nel mondo musulmano piuttosto che dai desideri o dalle aspettative del “politically correct” in salsa occidentale. Fino a 20-30 anni fa esisteva solo la parola muslim, che significa musulmano. Poi in Egitto è stato coniato un nuovo sostantivo: islamiyy, che vuole significare musulmano radicale, islamista. Un islamista non è di per sé incline alla violenza o al terrorismo, ma interpreta i sacri testi e la religione in maniera radicale, e spesso oltranzista. E questa posizione, alla quale molti vengono educati dai predicatori nelle moschee ma anche dai libri di testo nelle scuole e nelle università, da molte televisioni o dai gruppi oltranzisti, sfocia spesso nell’intolleranza verso chi non la condivide o verso i cosiddetti “nemici dell’islam”, un termine molto comodo per demonizzare qualsiasi avversario e che pone le premesse teoriche per la sua distruzione».
In definitiva, lei ritiene che il vocabolario “islamicamente corretto” potrebbe creare più equivoci di quanti ne vuole combattere?
«Mi pare che l’iniziativa, di cui peraltro aspettiamo di conoscere i dettagli, nasca con un approccio ideologico piuttosto che in nome di un sano realismo. Bisogna prendere atto di ciò che accade, anziché ingegnarsi a modellare le parole secondo certi desideri. Potrebbe anche verificarsi un’eterogenesi dei fini: il risultato finale sarà il rafforzamento dell’islamofobia, come è accaduto in Olanda dopo l’omicidio di Van Gogh e in Danimarca dopo il caso delle vignette, Paesi dove il cosiddetto rispetto della diversità ha prodotto eccessi e scatenato reazioni di segno contrario. La violenza di matrice islamica è una realtà con cui tutti dobbiamo fare i conti, anziché mascherarla cambiando il vocabolario, e l’Europa deve impegnarsi di più a combatterla, anche aiutando coloro che nel mondo musulmano lottano per un’interpretazione del Corano e della tradizione che sia rispettosa dei diritti umani e della libertà. Ma questo potrà farlo solo se diventerà più consapevole del suo patrimonio ideale, non se si accontenterà di qualche aggiustamento lessicale».