Fu l’Italia ad applicare per prima, e con successo, il modello economico keinesiano
di Rino Cammilleri
Ancora una puntata dedicata al modello economico keynesiano e all’Italia che, per prima e con successo, lo applicò. Il “settembre nero” del 1929 tramite Wall Street si propagò al pianeta. La bolla speculativa esplose e generò il panico, il quale provocò vendite a catena, le quali generarono svendite. E fallimenti e suicidi e disoccupazione.
L’interconnessione economica creata dalla vittoria angloamericana nella Grande Guerra diffuse il contagio in Europa, e i contraccolpi politici si sommarono ai revanscismi dei vinti.Keynes aveva predicato il ruolo dello Stato nell’economia: ne prendesse le redini e guidasse la nazione fuori dal guado. Esattamente il contrario di quanto prevedevano i sacri canoni dell’economia “classica”, detta – chissà perché – “politica”.
Imperava il laissez fare: lo Stato non doveva intromettersi. Al massimo, poteva fare l’arbitro del gioco, magari intervenendo contro la formazione di monopoli che alteravano le “regole” del mercato. Di fatto, l’unico monopolio contro cui si interveniva era quello del lavoro: le coalizioni operaie impedivano i ribassi salariali e strozzavano la libera contrattazione del prezzo della manodopera.
Ora, quest’ultimo era l’unico che il capitalista poteva ridurre. In tempi di crisi non poteva certo sperare in una riduzione di prezzo da parte dei suoi fornitori. La sola materia prima il cui prezzo dipendeva esclusivamente da lui erano le braccia dei lavoratori. Questi, però, rifiutavano di lavorare a un livello di mera sussistenza e, tramite le loro associazioni, potevano restare a braccia incrociate per un periodo superiore al famoso “lungo periodo”.
La cosa provocava ulteriori fallimenti e ulteriore disoccupazione. Insomma, lo Stato doveva cessare di fare l’arbitro e diventare capitalista in proprio. Doveva usare il suo potere sovrano per stampare denaro, darlo ai disoccupati affinché aumentassero i loro consumi. Questi ultimi avrebbero rimesso in moto le fabbriche e l’elargizione iniziale si sarebbe moltiplicata secondo parametri che Keynes calcolò esattamente.
Già, ma per fare questo ci voleva uno Stato che non venisse paralizzato dai “poteri forti” e le loro emanazioni parlamentari. L’ideale era uno Stato dittatoriale. E il regime fascista, ai cui vertici sedevano ex socialisti e sindacalisti rivoluzionari, era in pole position per la bisogna. Nel 1933 Mussolini, su consiglio del casertano Alberto Beneduce (nomen omen: aveva due figlie, Vittoria Proletaria e Idea Socialista; quest’ultima moglie di Enrico Cuccia) creò l’Iri (Istituto di ricostruzione industriale, non a caso), e inaugurò la via italiana al keynesismo. Fu dato il via a grandi opere pubbliche, allo scopo di fornire ai disoccupati quell’erogazione iniziale di cui avevano bisogno.
Lo stimolo ai consumi diede respiro all’intera economia nazionale e fece rientrare, moltiplicata, la spesa d’inizio. A quel punto, poiché lo Stato non è un ente a scopo di lucro, perché non continuare il gioco? Perché ripianare il bilancio di quel deficit provocato all’inizio? Perché non reinvestire continuamente la ricchezza moltiplicata e rimandare a più alti livelli di crescita il pareggio?
Era la cosiddetta politica del deficit spending, che, se saggiamente condotta, può garantire uno sviluppo indefinito. Anche gli Usa, con grave ritardo, dovettero riconoscere che tale politica, inaugurata dagli italiani, era vincente. Ma loro non potevano permettersi una dittatura: solo una situazione d’emergenza poteva offrire a Roosevelt il destro per instaurarla. La chiamarono New Deal ma non era altro che dittatura economica.
Il guaio era che ci voleva una guerra vera per far digerire agli americani una economia di guerra quale era il keynesismo. In quella occasione i laudatori di Max Weber persero l’opportunità di rimangiarsi le loro fregnacce e di ammettere che l’etica calvinista non c’entrava un tubo con il capitalismo. Avessero conosciuto la storia; anzi, l’avessero studiata senza paraocchi ideologici, avrebbero saputo che il capitalismo è nato nell’Italia cattolicissima del Medioevo, quando un solo mercante fiorentino era in grado di giugulare interi regni. E avrebbero potuto capire che la crisi di Wall Street, crisi soprattutto finanziaria, aveva un antecedente tutto italiano.
Infatti gli italiani, dopo avere inventato tutti gli strumenti economico-finanziari di cui ancora oggi il mondo si serve, persero il primato proprio perché i loro capitalisti, ormai troppo ricchi, passarono dalla produzione di cose alla speculazione pura: si guadagnava di più e senza faticare. Così, la produzione si spostò al Nord dove il lavoro costava meno. E sempre meno costò, man mano che l’etica protestante prese il posto di quella cattolica.
Lo spostamento dell’attenzione sul Vecchio Testamento a discapito del Nuovo e la dottrina della predestinazione in breve tempo fecero vedere nei poveri dei maledetti da Dio, e il segno della benevolenza divina nelle ricchezze. Questa era la vera etica “calvinista” del capitalismo weberiano, e produsse i sordidi slum londinesi, nei quali i reietti erano tenuti lontani dalla vista di quei pochi privilegiati cui la terra per cacciare la volpe non bastava mai.
Questo non poteva accadere in luoghi, come l’Italia “papista”, nei quali i più ricchi produttori tenevano nei loro bilanci la voce “messer Dio” per indicare la quota da dedicare alla beneficenza. L’onnipresente predicazione ecclesiastica avrebbe reso loro la vita difficile se si fossero lasciati tentare dal sentirsi “predestinati” solo perché gli affari andavano loro meglio che agli altri. Il capitalismo italiano ebbe i suoi teorici proprio in uomini di Chiesa, dal frate che inventò la partita doppia a S. Tommaso d’Aquino.
Ma costoro ricordavano, anche, che l’uomo non è solo quel che mangia. E’ vero, da un certo momento storico in poi la guida del capitalismo è passata ai Paesi di cultura protestante, ma da essi è venuto anche il “lato oscuro” del capitalismo: consumismo, edonismo, superficialità, volgarità, immoralità, massificazione. I capitalisti italiani della prima rivoluzione industriale, quella medievale, finanziarono cattedrali e opere d’arte eterne, nonché ospedali e quant’altro serviva per salvare la loro anima e il corpo altrui.
Guardate le opere più imponenti di quelli “nordici”: sono banche. Adorando il Dio cristiano, gli italiani furono, un tempo, anche ricchi. Agli adoratori di Mammoma prima o poi la bolla speculativa scoppierà in faccia e ci trascineranno tutti a fondo.