Nella storia i nostri agricoltori hanno diffuso tecnologia e innovazione in tutto il mondo favorendo lo sviluppo di sistemi di coltivazione innovativi; ora si trovano costretti a sfilare con i trattori in porti e autostrade convinti da chi, con poche idee di cosa sia lo sviluppo del settore agricolo, non sa come rendere di nuovo competitiva la nostra agricoltura, pensando a come tentare di bloccare lo sviluppo creato dagli altri
Bruno Mezzetti
(Dip. Scienze Ambientali e delle Produzioni vegetali Università Politecnica delle Marche)
La vera agricoltura tradizionale forse riusciva a garantire prodotti cosiddetti più naturali, forse non sempre salubri, ma in ogni caso con elevati costi sociali. Un esempio storico di sfruttamento nei campi ci riporta al tempo delle mondine, quando le donne dovevano vincere la lotta alle malerbe nei campi perché ancora non esistevano diserbanti o altre pratiche alternative per il controllo delle infestanti, né macchine per la piantagione e per la raccolta.
Sebbene ci siano state tante battaglie per la dignità del lavoro nelle campagne, questo problema sociale è ancora attuale ed ha effetti sulla nostra agricoltura per le differenze del costo del lavoro che caratterizza i diversi Paesi, provocando o una competizione tra le nostre produzioni e quelle originate dai Paesi con basso costo del lavoro, o anche il flusso di popolazioni dai Paesi poveri verso l’Italia per i lavori più faticosi nelle campagne, a basso salario e senza nessuna tutela (raccolta pomodori, frutta e vendemmia).
IL RITORNO ALL’AGRICOLTURA TRADIZIONALE
Oggi si propone di tornare ad un’agricoltura tradizionale, ma non è chiaro che cosa sia oggi un’agricoltura tradizionale, e tornare a questi livelli e condizioni produttive è improponibile ed anche inaccettabile per le condizioni degli agricoltori e per il rischio di non riuscire a garantire un livello produttivo sufficiente per le nostre esigenze alimentari, in continuo aumento per il prossimo futuro.
La tradizione agricola, fondamento della nostra società, deve essere preservata e perché ciò avvenga deve rimanere un’agricoltura compatibile con le esigenze sociali di chi la realizza (tutti gli operatori delle diverse fasi produttive). Un’agricoltura sostenibile deve quindi garantire un’elevata efficienza produttiva, al minor impatto ambientale, con il più elevato controllo della qualità e con costi compatibili per l’agricoltore e per il consumatore.
L’agricoltura biologica, che ora si caratterizza per un maggiore costo a carico del consumatore (costi dei contributi finora erogati per promuovere l’agricoltura biologica, compensare il calo delle rese produttive e conseguente maggior prezzo che generalmente si richiede al consumatore), senza provati effetti di miglioramento ambientale e/o di riduzione di rischio per il consumatore (anzi, con evidenze del contrario), non può essere considerata un’agricoltura sostenibile e tanto meno futuribile per il nostro Paese.
Per conservare la nostra agricoltura non basta una valorizzazione delle produzioni tipiche d’eccellenza, per mercati di nicchia ad elevato valore, ma occorre anche pensare allo sviluppo di sistemi di coltivazione ad elevata efficienza produttiva, utili per garantire ricavi agli agricoltori anche con prodotti indirizzati a settori di mercato a basso prezzo, sempre più rilevanti anche nel nostro Paese.
La forte azione propagandistica a favore dell’agricoltura tradizionale e dei relativi mercati di nicchia darà forse benefìci limitati a pochi nel breve periodo. Costerà però non poco al nostro Paese la perdita di conoscenze conseguente al blocco della ricerca sulle biotecnologie vegetali, iniziato con le prime moratorie del 1998, poi continuato in diversi modi, producendo l’effetto del completo abbandono della sperimentazione in campo sulle piante transgeniche.
LE DIRETTIVE COMUNITARIE
Alcune amministrazioni comunali e regionali italiane si sono dichiarate OGM-free. Il Governo italiano stesso vieta la coltivazione delle piante transgeniche su tutto il territorio nazionale sia per scopi sperimentali che commerciali. Questi divieti si basano su leggi e regolamenti privi di valore giuridico. Infatti, la normativa sulla coltivazione e sulla commercializzazione di prodotti transgenici dovrebbe dipendere dalle direttive comunitarie.
Le più importanti sono la Direttiva 2001/18 per le autorizzazioni per sperimentazione e per coltivazione, e dal 2004 anche dalla direttiva EC 1829/2003, (1) che definisce una procedura di autorizzazione comune per i paesi Comunitari, identificando l’EFSA (Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare) come responsabile della valutazione scientifica delle piante e dei prodotti OGM per uso alimentare e zootecnico.
Con il Decreto 224 del 2003 il nostro Paese ha recepito la direttiva EU 2001/18, ma questa non ha ancora avuto applicazione. Ciò perché nel Decreto è previsto l’obbligo da parte del Ministero dell’Agricoltura di predisporre protocolli di sperimentazione per tutte le specie di interesse. Dal 2003 ad oggi questi protocolli non sono mai stati preparati. Resta il dubbio che questa sia stata una scelta volontaria della nostra classe politica per far slittare e quindi bloccare nel tempo ogni autorizzazione.
Si pensi che, nello stesso periodo, la Spagna non solo ha preparato i suoi protocolli e sviluppato una consistente coltivazione commerciale di mais Bt (nel 2006 già superiore a 50.000 ettari), ma anche realizzato il primo studio in Europa sui benefici economici derivanti dalla coltivazione di mais resistente agli insetti (2).
Il primo paradosso di questa situazione di blocco creato dal “movimento” anti-OGM è che ciò, in realtà, è a favore solo delle multinazionali: ad esempio, quelle chimiche che continuano a produrre e vendere i loro fitofarmaci, anche quelli utilizzati per l’agricoltura biologica (che spesso ne richiede più di quella integrata e che comunque devono essere tossici verso i parassiti); oppure quelle del Biotech che, mantenendo elevati gli investimenti in ricerca, seppure fuori dell’Europa, hanno continuato a sviluppare nuove tecnologie e nuovi prodotti.
Il movimento anti-OGM si basa anche sull’opinione di rari colleghi ricercatori (spesso di campi non pertinenti alla genetica e alla biologia molecolare vegetale e quindi senza competenze specifiche) che considerano le piante transgeniche poco efficaci, incompatibili con il nostro sistema agricolo, o pericolose e in ogni caso di appannaggio solo delle multinazionali.
La loro posizione è spesso frutto di scarsa conoscenza. Di fatto, che nel nostro Paese e in Europa continui questa situazione di perdita della conoscenza scientifica nelle biotecnologie vegetali non porta ad altro risultato che mantenere il monopolio dei prodotti nelle mani multinazionali.
Un secondo paradosso, diremmo di non poco interesse, è la situazione creatasi in Italia, considerando che cosa sta succedendo in Friuli con agricoltori che rivendicano il diritto di poter coltivare mais-Bt perché hanno ormai chiari i possibili vantaggi di queste coltivazioni, consapevoli dell’assenza di rischio reale per l’ambiente, per la salute del consumatore ed anche del benefìcio in termini di competitivita e qualità delle loro produzioni.
Il fatto che un agricoltore venga multato per azioni mirate solo a sostenere il diritto di sapere se gli OGM possono essere di utilità per la sua produzione è un esempio di come questa situazione sia gestita in un regime di estremo controllo e come chi non si adegua alle idee portate avanti da certi politici poi deve essere punito. Questo agricoltore deve avere il sostegno della comunità scientifica a dimostrare che quanto propone di fare non crea alcun danno all’ambiente e tanto meno ai sistemi agricoli.
PRINCIPIO DI PRECAUZIONE E APPROCCIO PRECAUZIONALE
L’attuale normativa prevede l’applicazione del Principio di Precauzione, inteso solo come valutazione dei possibili rischi (e quelli teorizzabili sono sempre infiniti), mentre poco si guarda ai benefici. La necessità di verifica dei rischi, ora estremizzato da un punto di vista normativo, rende impraticabile o inaccessibile alle piccole strutture di ricerca – che sono soprattutto pubbliche nel nostro Paese – ogni possibile rilascio commerciale di una pianta transgenica.
Una ricerca prima finalizzata alla verifica dei benefici, seguita poi da una verifica dei rischi, sempre in paragone ai rischi delle controparti convenzionali o biologiche e concentrata solo sui prodotti più interessanti, sarebbe enormemente più efficace, efficiente ed anche accessibile. La creazione di una rete nazionale di siti sperimentali dove sviluppare la sperimentazione sulle piante transgeniche di possibile interesse per la nostra agricoltura (Fig. 2) sarebbe un primo passo in questa direzione.
Produrre una pianta transgenica con caratteristiche genetiche che risolvano specifici problemi dei prodotti tipici italiani è possibile, pur con le ridotte risorse economiche a disposizione della nostra ricerca pubblica. Rimane però il problema degli enormi costi previsti per produrre i dati scientifici, oggi per la maggior parte inutili perché già disponibili nella letteratura scientifica, sulla relativa assenza di rischi delle singole piante. Infatti, nel processo di autorizzazione per la coltivazione e la commercializzazione di piante transgeniche, TUE applica quel Principio di Precauzione che, di fatto, è trasformato in Principio di Blocco. Infatti, la sua interpretazione corrente è “non posso verificare tutte le ipotesi di rischio e quindi non autorizzo”.
Dovrebbe invece essere logico che, nell’intero processo decisionale, sia utilizzato un Approccio Precauzionale, inteso secondo il cosiddetto Principio di Familiarità: valuto i rischi tenendo conto sia delle conoscenze già disponibili sia di informazioni che potranno essere acquisite con ulteriore sperimentazione. Ciò significa, ad esempio, che non si dovrebbe ripartire ogni volta da zero, per dimostrare che lo stesso gene, inserito in una nuova varietà di pomodoro, non provoca danni alla salute dell’uomo e all’ambiente.
È infatti fondamentale produrre e diffondere risultati sperimentali concreti da utilizzare poi nella discussione politica e pubblica sui reali rischi e benefici di queste produzioni a confronto con quanto si può ottenere con i metodi di coltivazione convenzionali, integrati e, soprattutto, biologici. Il risultato di questa attività scientifica trasferita al consumatore si può identificare con il principio di familiarità da seguire per una discussione condivisa con l’opinione pubblica dei risultati scientifici ma anche con prodotti concreti da mostrare al pubblico, come ad esempio il risultato della sperimentazione effettuata presso l’Università Politecnica delle Marche su uva da tavola.
Purtroppo, ciò ora non avviene, anzi a volte c’è anche un vero e proprio occultamento nei confronti dell’opinione pubblica dei risultati che dimostrano i benefici che possono derivare da una nuova pianta transgenica. La ricerca nel settore della biologia molecolare sta portando allo sviluppo di nuove tecniche di ingegneria genetica che riducono i rischi e rendono più accettabili ai consumatori i loro prodotti.
Tra queste, di sicuro interesse è la cisgenetica, che significa il trasferimento di geni che sono stati isolati dalla stessa specie. Diversi lavori scientifici hanno evidenziato che una pianta geneticamente modificata con un gene che è stato isolato dalla stessa specie dovrebbe essere considerata come una pianta ottenuta con metodi tradizionali d’incrocio e quindi non da assoggettare alle pesanti normative previste per le piante transgeniche.
Queste nuove tecniche possono aiutare ad aumentare l’accettabilità delle piante transgeniche, ma in ogni caso rimane fondamentale promuovere e sviluppare la ricerca su studi applicati a nuovi geni di interesse specifico per le esigenze della nostra agricoltura che, come abbiamo detto prima, deve mirare a: riduzione degli input (e quindi una riduzione dell’impatto ambientale, dei costi e del rischio per gli agricoltori); qualità del prodotto, intesa come una riduzione del rischio per il consumatore e un aumento del valore nutrizionale (food safety), disponibilità e accessibilità del costo del prodotto (food security).
Per altre specie vegetali l’assenza di transgeni commerciali è certamente da ricercare anche nella loro tipologia di commercializzazione. Il mercato delle specie ortofrutticole è composto da molteplici mercati cosiddetti di nicchia, in cui le preferenze dei consumatori in termini di sapori, colori, dimensioni, odori, riguardo a una certa specie vegetale, variano anche solo passando da una provincia ad un’altra.
Pertanto, una certa varietà può risultare economicamente trainante in una limitata frazione del mercato globale dei prodotti ortofrutticoli, e questo impedisce un qualsiasi investimento finalizzato allo studio per la sua trasformazione genica (che di per sé può essere anche abbastanza limitato), ma soprattutto per i costi delle valutazioni richieste dalle normative, stimate fino a 8-10 milioni di dollari, costi che solo alcune multinazionali possono essere in grado di sostenere.
Ad oggi è dunque chiaro che solo alcune colture transgeniche possono essere applicate su larga scala, mentre molte altre stentano ad affacciarsi sul mercato globale. Ingenti costi di ricerca, limitati ettari destinati alla loro coltivazione, variabilità genetica, barriere imposte dal mercato e opposizioni politiche rappresentano quindi le cause principali dei limiti imposti ad applicazioni biotecnologiche su diverse specie frutticole e orticole.
CUI PRODEST?
Abbiamo inteso evidenziare i possibili benefici della transgenesi a confronto con il biologico. Finora si è sempre fatto il contrario. Nella storia i nostri agricoltori hanno diffuso tecnologia e innovazione in tutto il mondo, favorendo lo sviluppo di sistemi di coltivazione innovativi; ora si trovano costretti a sfilare con i trattori in porti e autostrade (vedi proteste organizzate da alcune associazioni) convinti da chi, con poche idee di che cosa sia lo sviluppo del settore agricolo, non sa come rendere di nuovo competitiva la nostra agricoltura, pensando solo a tentare come bloccare lo sviluppo creato dagli altri. Pensare solo a biologico, km-zero, e tipico non aiuta la nostra agricoltura ma la distrugge.
Continuare in questo modo significa perdere tempo, questi prodotti continueranno ad entrare nel nostro Paese, ma soprattutto occuperanno sempre più spazio su altri mercati togliendolo ai nostri.
Continuare in questo modo significa immobilizzare la nostra agricoltura e mantenerla legata agli interessi di chi ha gestito e spera di continuare a gestire contributi comunitari, utili solo a demolire la capacità imprenditoriale dei nostri agricoltori.
Già 10 anni fa si parlava di una nuova politica europea basata sulla tecnologia e l’innovazione, ma non è successo nulla; ora si discute per una nuova PAC (Politica agricola comune) e questa idea dell’innovazione viene riproposta, ma difficilmente si potrà realizzare, ora che si è già quasi persa “un’era tecnologica“.
Si dovrebbe velocemente passare da una visione ristretta di prodotti locali, facilmente clonabili, a nuovi prodotti locali innovativi, efficienti, di qualità, di elevata sicurezza e utili per nuove strategie di mercati. In questo nuovo scenario si dovrebbe dare al più presto una giusta collocazione al contributo che può derivare dalle biotecnologie
Note
1) http://eur-lp.x.europa.eu/LexUriServ/LexUriSÉrv.do?mi-OJ:L:2003:268:0001:0023:EN:PDF.
2) Gomez-Barbero et al., Nature Biotech, 26, 2008, pp. 384-386.