di Andrea Galli
L’unico “noooo!” che parte corale e spontaneo dai convegnisti stipati in platea, l’unica contestazione a muso duro tocca a Stephanie Schlitt, responsabile della sezione diritti riproduttivi della segreteria internazionale di Amnesty International, colei che ha seguito la consultazione interna e poi l’outing abortista dell’associazione.
L’atmosfera si riprende grazie allo Chardonnay Sermillon australiano e all’ottimo pudding servito dai camerieri. Delegate dello Zambia e femministe indiane formano un capannello di fianco al banchetto dedicato a sterilizzazione e vasectomia. Mentre una ginecologa vietnamita si rilassa sfogliando il nuovo catalogo della Durbin Clinic Sales, distributrice di strumenti clinici per aborto, con forcipi monouso di 24 cm e forbici uterine a poco più di 3 sterline. E tutto torna a filare liscio.
Apertasi martedì e chiusasi ieri a Londra, nel prestigioso Queen Elizabeth II Conference Centre, di fianco alla Westminster Abbey, la «Global Safe Abortion Conference 2007» (Conferenza globale sull’aborto sicuro) è stata alla fine, per gli organizzatori, un buon successo.
Uno dei maggiori raduni di associazioni e Ong abortiste degli ultimi 15 anni, che ha visto presenti tutti i big del settore. A partire da Marie Stopes International, promotrice dell’evento, attiva in 38 Paesi in partnership con organizzazioni locali e che vanta di aver avuto 4,8 milioni di clienti nel solo 2005; sino all’International Planned Parenthood Federation, la più nota e forse ramificata multinazionale di servizi attinenti ad aborto e contraccezione; all’Ipas, ente americano particolarmente impegnato in questi anni nella promozione della isterosuzione manuale, pratica abortiva condotta con un aspiratore, il manual vacuum aspirator, da usarsi in situazioni di emergenza o dove mancano attrezzature sanitarie adeguate; fino ad Abortion Rights, il cui nome è già un biglietto da visita, e molti altri.
Una parata di potenti e danarose lobby (Ippf dichiara di aver ricevuto, nel solo 2006, 107,4 milioni di dollari da governi, fondazioni e privati, con un incremento del 34% rispetto al 2001) le quali hanno chiamato a raccolta 500 fra operatori e delegati delle stesse organizzazioni, in larga parte dai Paesi africani, ma con rappresentanze un po’ da tutto il mondo.
Due gli scopi ufficiali dell’incontro, uno globale l’altro locale: sollecitare i Paesi in via di sviluppo a fare di più per frenare la mortalità femminile a causa di aborti illegali, ovvero a essere più ospitali e generosi nei confronti di Ippf e soci, e celebrare il 40esimo anniversario della legalizzazione dell’aborto nel Regno Unito, chiedendo una modifica della legge – che viene discussa in questi giorni in Parlamento – in un senso ultra-aperturista: cancellazione di qualsiasi “nulla osta” di medici o di terzi per abortire, licenza di operare anche per infermieri e personale specializzato, mantenimento del limite degli aborti tardivi a 24 settimane, senza scendere a 22 come richiesto da più parti.
Tuttavia, il problema che ha dato tono e colore all’evento è sembrato un altro, cioè quello richiamato fugacemente nel comunicato stampa della giornata inaugurale: l’aborto diventato – o meglio, tornato a essere – una divisive issue, un tema dibattuto, in Europa come in Canada, in Usa come in Gran Bretagna. Insomma in Occidente. In altre parole, ciò che una ventina di anni fa sembrava scontato e intoccabile, oggi viene rimesso in discussione. E non in qualche nazione subtropicale e arretrata.
È stato il britannico Guardian, il quotidiano liberal di una delle società più secolarizzate del globo, a titolare ieri in prima pagina: «Troppi aborti: Lord Steel, lo sponsor della legge del 1967, richiama a una maggiore responsabilità sessuale», e di seguito l’articolo in cui si dava conto della diffusa preoccupazione per il numero di aborti registrato l’anno scorso in Inghilterra e Galles (200 mila).
Così com’è stata India Knight, editorialista del Sunday Times e non propriamente un’attivista pro-life, a firmare due domeniche fa un fondo al vetriolo contro la horror pill, intitolata la «La brutale verità dell’aborto fai da te». E se l’Independent domenica scorsa faceva una cronaca amarissima della vicenda di Helene, rivoltasi a una clinica londinese di Marie Stopes per un aborto, il giorno dopo il Daily Telegraph dedicava una pagina all’alto tasso di aborti di bambini con anomalie fisiche minime.
Cecile Wijsen, di Rutgers Nisso Groep, Ong per i diritti riproduttivi e la salute della donna con sede a Utrecht, in un seminario dedicato alle tendenze dell’aborto in Europa ha fatto notare come anche in Olanda il tema sia tornato sui giornali, e sia rinato un dibattito impensabile fino a pochi anni fa. Insomma, sembra tirare un’aria meno simpatica per il «partito abortista» globale, o almeno più problematica che in passato.
Così la denuncia del Vaticano, ritenuto responsabile morale sia delle morti per aborti illegali un po’ in tutto il mondo sia dell’alto numero di aborti legali in un Paese come l’Inghilterra (questo – dicono – per il fatto che non ammette la liceità dei profilattici, i quali permetterebbero di ridurre il ricorso alla sala operatoria), è stato l’altro leitmotiv della due giorni londinese.
Alla Chiesa cattolica è stato dedicato l’incontro conclusivo della prima giornata (con Jon O’Brien, presidente di «Catholic for a free choice», Arnoldo Torunò, ginecologo del Nicaragua, e Wanda Nowicka, militante pro-aborto polacca), ma in una sorta di rifugio nelle sicurezze del passato, agitando i “nemici” di sempre.
Per dirne una: «Se facessimo fuori la Chiesa – ha esordito dalla platea un partecipante del Ghana – faremmo un enorme passo in avanti». Applausi generali. Braccia alzate in segno di somma approvazione (con disappunto si presume dei genitori, visto il nome) da parte di John Bosco Bassomingera, responsabile per le relazioni esterne di Marie Stopes in Tanzania.
Poi però tocca a Daniela Draghici, pasionaria abortista rumena, collaboratrice di Ipas, ricordare una realtà più prosaica: «Sono i demografi, più che la Chiesa, quelli che oggi ci danno contro». E con qualche ragione, se la Romania ha uno dei più bassi tassi di natalità del mondo e da 15 anni, ininterrottamente, il numero dei decessi è superiore a quello delle nascite.
(A.C. Valdera)