A parte la Giordania e poche altre nazioni moderate, gli altri hanno chiuso gli occhi.
di Gian Micalessin
Devono aver perso di vista quel dovere della «zakat» considerato uno dei cinque pilastri dell’Islam. Per capirlo basta sbirciare la lista dell’ Ufficio Onu di Ginevra per il Coordinamento degli affari Umanitari in cui sono elencati i contributi destinati ad Haiti dalle singole nazioni. Scorretela da cima e fondo e scoprirete che l’Arabia Saudita, il più grande produttore di petrolio del mondo, non c’è.
Come mai? Semplice, non hanno cacciato manco un centesimo. Hanno spedito un messaggio di condoglianze firmato da re Abdallah e hanno voltato pagina.
Fermi, non fate un fascio di tutto l’Islam e di tutti gli arabi. Se riguardate la stessa lista scoprirete che la povera Giordania, dove il petrolio è più raro della pioggia, ha inviato un aereo militare con un ospedale da campo, sei tonnellate di cibo e rifornimenti seguito da un altro volo con a bordo una squadra medica.
Persino i disgraziati palestinesi di Gaza di fronte a quel disastro si son messi di buzzo buono e cercando di raccogliere qualcosa da regalare a chi dall’altro capo del mondo si ritrova per una volta a star peggio di loro.
Certo in altri angoli del Medio Oriente il contributo non è altrettanto esemplare. Le 50 tonnellate di cibo messe a disposizione dal Qatar, l’emirato con uno dei più alti redditi pro capite del mondo, non sono proprio un segnale di grande generosità. Ma sono pur sempre un gesto.
E anche l’Iran pronto a svenarsi quando si tratta di spedire missili e armi a Hezbollah o Hamas poteva metter insieme qualcosa di più di 30 risicate tonnellate di aiuti alimentari. Ma se a caval donato non si guarda in bocca i grandi, imperdonabili assenti continuano a essere gli sceicchi sauditi.
E non è certo questione di consuetudini. Quando i poveri haitiani cercheranno di capire il motivo di tanta indifferenza scopriranno che in passato il braccino saudita, con loro così corto, ha dispensato un miliardo di dollari, all’Irak appena uscito dalla guerra a Saddam Hussein.
Strabuzzeranno gli occhi quando realizzeranno che persino gli sciiti iraniani, nemici della grande potenza sunnita, ottennero dopo il terremoto di Ban del 2003 circa 200mila dollari. La vera pioggia di petroldollari è però riservata ai palestinesi a cui nel 2009 la casa reale saudita ha confermato donazioni per 1 miliardo e 100 milioni, in aggiunta al miliardo già messo a disposizione per ricostruire Gaza.
Certo il problema, come ben sanno da Ramallah alla Striscia, è capire se quei dollari arriveranno a destinazione o resteranno scritti sul libro delle buone intenzioni. Ma la promessa, a differenza di quel che succede per Haiti, almeno c’è. Come ci fu nel 2004 quando Riad rispose al dramma dello tsunami mettendo a disposizione delle popolazioni colpite 35 milioni di dollari usciti dalle casse del governo.
Quando poi si trattò di aiutare i musulmani pakistani del Kashmir – colpiti nel 2005 da un altro sisma – i signori del petrolio non furono secondi a nessuno e misero sul tavolo quasi 4 milioni di verdoni. Volendo andare più indietro gli haitiani scoprirebbero che in passato gli aiuti sauditi sono arrivati persino nel cuore dell’Europa. Negli anni Novanta 300 milioni di dollari sauditi vennero usati per acquistare armi destinate ai musulmani bosniaci impegnati nella sanguinosa guerra con serbi e croati.
E qualche anno dopo 5 milioni di dollari messi a disposizione dal Comitato Saudita per i soccorsi al Kosovo disseminarono di moschee e minareti la regione della ex Jugoslavia oggi formalmente indipendente. La differenza è tutta lì. Con i dollari sparsi tra le rovine del Kashmir, le spiagge musulmane dell’estremo oriente e le montagne del Kosovo o della Bosnia si può propagandare la fede.
Con gli aiuti all’infedele Haiti non si conquista neppure mezzo fedele. E questo per la zelante e integralista gerarchia religiosa wahabita, vero pilastro della casa regnante saudita, non è assolutamente ammissibile.
Aiutare senza esigere nulla in cambio è un abitudine riservata ad Europa e Stati Uniti. A quell’Occidente che nel 2003 non esitò a soccorrere i terremotati iraniani. A quell’Occidente pronto ad aprire il portafoglio anche quando guerre, terremoti e calamità naturali colpiscono nazioni dove esibire la croce è più pericoloso che ritrovarsi in mezzo ad uno tsunami.