Corriere della Sera 26 luglio 2011
di Vittorio Messori
È da condividere, ovviamente, lo sfogo recente di Beppe Severgnini che — su Sette — dice il suo «fastidio per l’insopportabile dilagare del “tu” sempre e comunque». Per quanto conta, io pure tendo istintivamente a irrigidirmi se qualcuno con cui non ho confidenza mi interpella con il «tu»; e mai penserei di fare altrettanto con lui.
Dunque, mi è stata dura essere giovane nel Sessantotto, in cui sembrava tornato il tempo di Achille Starace che aveva abolito il «lei». Quel gerarca in camicia nera imponeva il «voi», mentre i figli dei borghesi in eskimo, travestiti da proletari, ti sprangavano se non usavi il «tu». Certo, nella mia allergia entrano pure i 17 anni di scuola statale della vecchia Torino, dove i professori ti davano del «lei» dalla quarta ginnasio, cioè dai 14 anni, e ti insegnavano che lasciarsi andare a familiarità intempestive era tra le impudicizie da lasciare agli immigrati. Che allora erano quelli che sbarcavano ogni mattina a Porta Nuova dal Treno del Sole.
Credo però che, in questa resistenza, vi siano ragioni che vanno al di là del soggettivo. Sarà forse un caso se gli inglesi— il popolo cioè che meglio ha conservato il senso della Tradizione — hanno un thou ma lo riservano al Padreterno, e interpellano con lo you anche bambini, fratelli, amanti e pure cani, cavalli, gatti?
E che dire del fatto che, sino a tempi recenti, anche da noi i figli davano del «voi» ai genitori e, spesso, le mogli ai mariti e viceversa? Mio padre, militare per cinque anni nel Regio Esercito, ricordava che per gli ufficiali superiori, spesso aristocratici, era impensabile dare del «tu» persino all’ultima delle reclute.
Naturalmente, chi è ancora impregnato di spirito sessantottardo replicherà che questo fa parte del classismo da abbattere per una società più giusta. E più «fraterna», aggiungeranno tanti cattolici, convinti che la fede abbia a che fare con l’uso e l’abuso della seconda persona singolare.
Ma a questi credenti — peraltro in buona fede — andrebbe osservato che la fraternità cui pensano è solo «orizzontale», come quella che si crea in un sindacato, in un partito, magari in una loggia. Nella prospettiva di fede, si è davvero «fratelli» solo guardando a una dimensione verticale: i legami stretti tra noi derivano dal fatto che scopriamo di avere, nei Cieli, lo stesso Padre.
Solo riconoscendoci credenti, dunque «figli di Dio», possiamo scoprire la familiarità che ci accomuna e passare alla confidenza anche verbale. La quale è una scoperta e una conquista, non cosa scontata. Mi ha sempre impressionato un particolare, straordinario eppure troppo spesso trascurato, delle 18 apparizioni di Lourdes.
La Signora non diede mai del «tu», ma sempre del «voi», all’analfabeta quattordicenne, alla miserabile figlia di un padre straccione, che aveva conosciuto anche la prigione. L’Apparsa parlava nel dialetto di quella piccola rachitica per fame e stenti, eppure Bernadette aveva difficoltà a capire le frasi, in quel «voi» che nessuno ovviamente aveva mai usato con lei. Meno che mai preti e vescovi, che a lungo la interpellarono con un «tu» sbrigativo.
Che cos’è questo sbracarsi dei cattolici, se sembra che si tengano educate distanze persino in Paradiso? Per contrasto, e per restare alla vecchia Francia, vale la pena di ricordare quell’assemblea demoniaca che fu la Convenzione giacobina che gestì il Grande Terrore.
Tra gli innumerevoli decreti pubblicati a ritmo affannoso da quegli invasati per creare, a colpi di ghigliottina di massa, «l’uomo e la società nuovi», ce ne fu uno che abolì i titoli di Monsieur e Madame e li sostituì con quelli di Citoyen e Citoyenne, imponendo al contempo a tutti de se tutoyer, di darsi del «tu». Chi avesse osato restare al vous sarebbe caduto nella rete della «legge dei sospetti», uno dei decreti più infami della storia, che condannava a morte, senza diritto alla difesa, non solo chi contrastasse la Rivoluzione, ma anche chi non vi si impegnasse attivamente.
L’esempio di Robespierre sarà poi seguito da Lenin e da Stalin: Siberia o plotone di esecuzione per chi usasse ancora «signore» e «signora» e non l’obbligatorio «compagno». Ed era forse ammissibile un Sie tra i Kamaraden del nazionalsocialismo?
Ogni totalitarismo impone la «fraternità» a colpi di «tu» obbligatorio. Dunque, non è questione solo di gusti o di galateo: l’impegno per salvare il «lei» (o, per chi preferisca, come al Sud, il «voi») è forse un piccolo ma significativo impegno per la libertà. Sarà anche per questo che, a Lourdes, la voce dal Cielo si rivolse alla misera ragazzina come a una damigella?
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