Bambini geneticamente rimpiccioliti per far fronte al riscaldamento globale. Pillole della bontà per inibire i bulletti razzisti. Intolleranze indotte per ridurre il consumo di carne. Così nei college inglesi si pianifica il mondo nuovo
di Rodolfo Casadei
Psicologi che promuovono la pillola contro il razzismo, un cocktail di sostanze che una volta assunte ci renderebbero meno ostili e più empatici nei confronti degli estranei. Eticisti che proclamano l’obbligo morale e giuridico per i futuri genitori di procreare attraverso la fecondazione assistita per garantire alla loro progenie il miglior corredo genetico possibile.
No, non siamo sul set di un film. Eppure fra le guglie e il tardo-romanico dei grandi edifici dei college l’atmosfera intellettuale è la stessa dei laboratori di Gattaca, della prigione-centro di condizionamento mentale di Arancia meccanica o del Gabinetto del dottor Caligari (1919), il primo film centrato sull’idea della manipolazione del paziente da parte di uno scienziato mefistofelico.
Decisamente qualcuno sta giocando al Padreterno o all’apprendista stregone non lontano dalle rive del Tamigi, nelle aule e nelle biblioteche della più antica università del mondo anglosassone. Qui dove studiarono dodici santi cattolici (fra i quali Tommaso Moro) e dieci beati, dove i primi collegi per gli studenti furono organizzati da francescani, domenicani, carmelitani e agostiniani, dove si laurearono schiere di vescovi e arcivescovi anglicani e il fondatore del metodismo John Wesley e tanti suoi seguaci, oggi la visione dell’uomo come creatura di Dio è completamente bandita e sostituita da quella dell’uomo prodotto ingegneristicamente da altri uomini, manipolabile all’infinito.
Due figli grossi o tre nanetti?
Continua a rimbalzare sui più autorevoli quotidiani internazionali (ultimo in ordine di tempo, due settimane fa, Le Monde) la sparata di tre ricercatori, due dei quali affiliati al Future of Humanity Institute di Oxford: il “futurista e transumanista” Anders Sandberg e la studiosa di filosofia esperta in “miglioramento umano” Rebecca Roache. Titolo del loro articolo, apparso sulla rivista scientifica Ethics, Policy & Environment “Human Engineering and Climate Change”.
La loro tesi è che i provvedimenti fin qui concordati a livello internazionale per la riduzione delle emissioni di gas climalteranti e i cambiamenti volontari di stile di vita volti a diminuire le concentrazioni di Co2 nell’atmosfera non si sono fino a oggi dimostrati in grado di mitigare il fenomeno del riscaldamento globale, mentre gli scenari geo-ingegneristici, che prevedono di immettere nell’atmosfera materiali che controbilancino l’effetto serra o di sequestrare l’anidride carbonica nelle piante o sotto terra, presentano molti rischi. Che fare, allora?
Perbacco, possiamo cercare di ingegnerizzare l’uomo, di modificarlo artificialmente perché consumi di meno ed emetta meno Co2. E via con le idee brillanti. Secondo la Fao gli allevamenti di animali da carne contribuiscono al 14-22 per cento di tutte le emissioni a effetto serra, secondo gli eco-estremisti del Worldwatch Institute addirittura il 51 per cento.
«La riduzione del consumo di carne può essere ottenuta con strumenti sociali e culturali, tuttavia alle persone spesso mancano la motivazione o la forza di volontà per rinunciare alla carne rossa anche se vorrebbero farlo. La bioingegneria umana potrebbe essere d’aiuto. Mangiare qualcosa che ci da la nausea potrebbe produrre un’avversione a lungo termine a quel cibo.
Far mangiare carne rossa contenente sostanze emetiche, che provocherebbero il vomito, potrebbe essere usato come un condizionamento all’avversione, ma coloro che non sono fortemente motivati a rinunciare alla carne rossa è improbabile che siano attratti da questa opzione (ma pensa, ndr).ù
Una via più realistica potrebbe essere quella di indurre una moderata intolleranza, come quella al latte, nei confronti di quel tipo di carne. La intolleranza alla carne rossa è molto rara, ma potrebbe essere indotta stimolando il sistema immunitario contro le proteine bovine. Il sistema immunitario sarebbe condizionato a reagire a tali proteine, e perciò l’alimentazione non eco-friendly diventerebbe un’esperienza spiacevole».
Ma la trovata più geniale è un’altra, e poteva arrivare solo dal paese di Jonathan Swift, dei Viaggi di Gulliver e dei lillipuziani: “making humans smaller”, far diventare più piccoli gli umani. Più grandi siamo, più consumiamo. «Poiché il peso aumenta con la lunghezza, anche una piccola riduzione in altezza potrebbe produrre un significativo effetto sulla stazza.
Riducendo l’altezza media degli americani di 15 centimetri, otterremmo una riduzione della massa corporea del 23 per cento per gli uomini e del 25 per cento per le donne». Già, ma come si può ottenere questo? Manipolando i livelli della somatotropina, cioè dell’ormone della crescita, nei bambini.
Oppure attraverso la fecondazione assistita, modificando i criteri della diagnosi genetica pre-impianto: anziché selezionare gli embrioni “più belli”, come si fa ora, si selezioneranno quelli che promettono di sviluppare bambini più bassi. Oppure, anche se come metodo è «più speculativo e controverso», si potrebbe «ridurre il peso alla nascita» inducendo parti prematuri o assumendo farmaci che favoriscono l’espressione dei geni materni su quelli paterni, i primi favorendo soggetti più smilzi.
Ma come si fa a convincere i genitori ad avere figli nanetti anziché giovani aitanti? «Quel che non appare attraente oggi potrebbe esserlo domani, specialmente se ci sono ragioni etiche per un certo tipo di intervento». E questa è anche la risposta all’obiezione secondo cui i genitori non dovrebbero avere il diritto di modificare un fattore così delicato della vita dei figli come l’altezza: «Data la gravita dei cambiamenti climatici, e data la possibile mancanza di soluzioni alternative, potremmo concludere che se una particolare soluzione di bioingegneria umana promuovesse nel complesso il benessere di un bambino, i genitori dovrebbero avere il diritto di attuare quella soluzione anche se è controversa».
Se poi il clima volgesse davvero al brutto, o meglio al caldo spinto, verrebbe buona un’altra soluzione ancora: «Fissata una certa quota di emissioni di gas a effetto serra, ogni famiglia sarebbe autorizzata ad avere solo due figli. Tuttavia, se ci fosse la possibilità di ridurre l’altezza umana, alcune famiglie potrebbero avere più di due figli. La bio-ingegneria umana permetterebbe di scegliere fra l’avere meno bambini più grossi oppure più bambini a patto che siano piccoli».
La legge del più cresciuto
Meno drastica ma nella stessa linea di pensiero la psicologa Sylvia Terbeck, dell’Oxford Centre for Neuroethics (“neuroetica”: e qui un brivido corre lungo la schiena). Non che intervenire sugli embrioni o sul sistema immunitario, si accontenterebbe di modificare i comportamenti sociali degli esseri umani a suon di pastiglie. È infatti convinta di aver scoperto la pillola contro il razzismo.
Trattasi del propanololo, un farmaco beta-bloccante normalmente usato per curare l’angina e l’ipertensione. Ma un esperimento avrebbe dimostrato che inibisce l’amigdala, la parte del cervello sede delle emozioni e in particolare della paura: sottoposti a test psicologici volti ad accertare il livello dei loro pregiudizi razziali, i partecipanti che hanno assunto il farmaco hanno registrato un punteggio più basso di quelli che hanno assunto un placebo.
Un radioso futuro si apre davanti a noi: un giorno ai genitori verrà intimato di somministrare le opportune dosi di propanololo ai loro figli che hanno mostrato atteggiamenti bullistici con ragazzi di diverso colore.
Sempre che questi figli siano riusciti a scampare un’altra trovata targata Oxford: l’aborto post-natale”. Infatti Francesca Minerva e Alberto Giubilini, i due eticisti italiani che all’inizio dell’anno hanno suscitato clamore con la loro riflessione sulla liceità di sopprimere i neonati nei primi giorni di vita, sono la prima una ricercatrice dell’Oxford Uehiro Centre for Practical Ethics, il secondo un membro del direttivo della Consulta Bioetica Onlus (quella con Beppino Englaro e Carlo Flamigni) che a Oxford tiene affollate conferenze. Il loro ragionamento, per chi non lo ricorda, era il seguente: «Lo status morale di un neonato equivale a quello di un feto nel senso che entrambi sono privi delle caratteristiche che giustificano l’attribuzione di un diritto alla vita a un individuo».
«Sia un feto che un neonato sono certamente esseri umani e potenzialmente persone, ma nessuno dei due è una “persona” nel senso di “soggetto di un diritto morale alla vita”. Secondo noi “persona” significa individuo in grado di attribuire alla propria esistenza almeno un certo elementare valore, cosicché l’essere privato dell’esistenza rappresenterebbe per lei una perdita».
Non è questo il caso dei neonati, che non sono in grado di apprezzare coscientemente la vita come bene e di darsi degli scopi. Pertanto, non essendo “persone in atto” ma solo “in potenza”, possono essere sacrificati agli interessi di altri. «L’asserito diritto di individui come i feti e i neonati a sviluppare la loro potenzialità (…) è sovrastato dagli interessi delle persone in atto (genitori, famiglia, società) a ricercare il loro proprio benessere, perché le persone in potenza non possono essere danneggiate dal non essere portate all’esistenza.
Il benessere delle persone in atto potrebbe essere minacciato dal fatto che il nuovo bambino, anche se sano, richiede energia, denaro e attenzioni di cui la famiglia potrebbe trovarsi a corto. A volte queste situazioni possono essere prevenute attraverso l’aborto, ma in alcuni casi questo non è possibile. In questi casi, dal momento che le non-persone non hanno diritti morali alla vita, non ci sono ragioni per vietare gli aborti post-natali».
La motivazione importa poco: neonato disabile, crollo nervoso della puerpera, intervenuti problemi economici; comunque sia, il neonato non ha come tale diritto alla vita, e perciò l’infanticidio – perché di questo si tratta – dovrebbe essere sempre permesso.
L’articolo apparve sul Journal of Medical Ethics, una rivista accademica britannica diretta da Julian Savulescu. E chi è Savulescu? È il direttore dell’Oxford Uehiro Centre for Practical Ethics e dell’Oxford Centre for Neuroethics.
Nelle sue numerose pubblicazioni ha sostenuto che i genitori hanno il dovere di selezionare la nascita del miglior figlio possibile sulla base delle informazioni genetiche a loro disposizione, e che questo va realizzato soprattutto a livello di fecondazione assistita e diagnosi pre-impianto, che deve servire a individuare gli embrioni che promettono di regalarci i bambini più intelligenti.
Giustissimo. Peccato solo che i genitori di Savulescu non abbiano seguito i consigli del loro futuro figlio.
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Manipolare le persone per “migliorarle
Il vecchio incubo non è più solo un film
Diciamo che al Future of Humanity Institute e al Centre for Neurethics di Oxford hanno semplicemente pensato di passare dalla letteratura alla realtà, di tradurre nei fatti ottantanni di utopie e distopie che finora erano solo passate dai libri alla celluloide.
L’Inghilterra è il paese di Aldous Huxley, di George Orwell, di Anthony Burgess ed è la patria adottiva di Andrew Niccol, lo sceneggiatore di Gattaca, il film del 1997 che mostra l’umanità divisa fra coloro che sono nati programmati geneticamente e coloro che sono stati concepiti nel modo tradizionale. Nonostante le leggi formalmente proibiscano la “discriminazione genetica”, i primi sono classificati come “validi” e destinati alle professioni superiori, gli altri come “non-validi” e confinati a occupazioni umili.
Julian Savulescu, il direttore dell’Oxford Neurethics Centre, si sta attivamente battendo per un mondo di questo tipo, dove i genitori dovrebbero essere tenuti a farsi carico della migliore selezione possibile del patrimonio genetico dei figli. Al tema del condizionamento mentale si sono dedicati sia George Orwell col suo 1984 (scritto nel 1948) che Anthony Burgess con Arancia meccanica (1962), entrambi riproposti come film, il secondo per la regia di Stanley Kubrick (1971) e il primo per quella di Michael Radford, che lo girò nello stesso anno che da il titolo all’opera.
Nel film tratto dal libro di Burgess il teppista Alex DeLarge, responsabile di un omicidio e di innumerevoli brutalità, viene sottoposto alla cura Lodovico: questa consiste nella visione coatta di scene di violenza e di sesso estremo con l’accompagnamento musicale della Nona di Beethoven e di altri classici. In seguito a questo trattamento, Alex prova nausee insopportabili ogni qual volta tenti di reagire a violenze contro di lui o di avere approcci sessuali. Le sue inclinazioni disordinate sono state eliminate al prezzo dell’eliminazione del suo libero arbitrio.
In 1984, invece, le tecniche di condizionamento sono quelle del bispensiero, che attraverso torture fisiche e propaganda pervasiva spingono il soggetto a fare proprie preferenze e convinzioni che cambiano a seconda delle variazioni di linea del partito al potere. In Il mondo nuovo di Huxley, capostipite della letteratura distopica (1932), gli esseri umani sono prodotti in serie in laboratorio su basi eugenetiche, mentre la riproduzione naturale è vietata. Nella società descritta nel romanzo il termine “condizionato” sostituisce quello di “educato”. [rc]