La Croce quotidiano 6 ottobre 2017
Si è portati spesso a pensare che una cosa si rivela buona perché frutto di una buona decisione iniziale, mentre la verità è che nel corso del processo di ciascun atto etico sono innumerevoli i fattori che possono intervenire ad inficiare la bontà del gesto, mentre ci vuole integrità per preservare il bene
di Andrea Artegiani
«In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse: “Sia la luce!”. E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre e chiamò la luce giorno e le tenebre notte. E fu sera e fu mattina: primo giorno».
Il testo della Genesi mi ha sempre affascinato. In particolare mi colpisce quel “Dio vide che era cosa buona” che per sette volte viene citato nel Primo Libro quale premessa alla continuazione dell’opera creatrice da parte del Creatore.
Credo che mi piaccia perché rimanda ad una opera creatrice che viene riconosciuta buona nel mentre viene compiuta e questa bontà è scelta ed è presupposto per continuare a creare e c’è alternanza fra azione e riflessione.
Insomma la Creazione non sembra un processo “pensato a tavolino” e poi realizzato come immaginato e punto. Assomiglia piuttosto ad un gioco di bambino, di quelli in evoluzione, che non sai come vanno a finire perché si sviluppano a partire da un’idea ma evolvono in modo imprevisto, poiché sono continuamente soggetti al flusso della passione e dell’impegno che il bambino ci mette, tale che il gioco prende direzioni sempre nuove ed entusiasmanti.
Il tutto sembra molto “umano” o forse dovremmo dire “divino”, ché se Dio opera così, questa è una caratteristica del Suo agire ed il nostro essere fatti a Sua immagine ci rende possibile agire nel medesimo modo.
Dove voglio andare a parare con questa pappardella iniziale?
All’insostituibile valore che ha l’impegno e la passione che possiamo mettere in quello che facciamo rispetto all’ottenimento di un risultato buono.
Si è portati spesso a pensare che una cosa si rivela buona perché frutto di una buona decisione iniziale. Ecco a me pare più probabile che una cosa buona derivi da un buon processo di creazione piuttosto che da una buona idea iniziale.
Non che l’idea di partenza non abbia importanza, intendiamoci, ma credo che con un buon processo si riesca ad ottenere una buona cosa anche a partire da una idea niente di ché, mentre con un cattivo processo si rovina anche una buona idea iniziale.
Perché mi è venuta questa riflessione?
Perché avverto una certa tendenza nella società a conferire maggiore importanza all’idea rispetto al processo e credo che questo sia un errore.
Un esempio? Le relazioni matrimoniali.
Si tende a considerare il trovare “l’anima gemella” come la principale fonte di una qualche sicurezza per un matrimonio felice. I dati ci dicono esattamente il contrario: l’evoluzione dei costumi sociali nei paesi economicamente sviluppati ha prodotto la possibilità di avere un gran numero di esperienze sentimentali prematrimoniali ma questo non ha affatto prodotto un maggior numero di matrimoni felici, anzi.
Un esempio contrario: il lavoro.
Pochi, pochissimi, sono quelli che riescono a fare, felicemente, il lavoro che fin da bambini avevano sognato di fare. La gran parte fa il lavoro che gli è capitato, più o meno fortuitamente, in seguito ai casi della vita. Questo non impedisce però che lo si faccia alla fine in modo “felice”, in quanto l’impegno che vi si profonde produce, di per sé, la soddisfazione per continuare a farlo oltre che un’opera di santificazione personale non indifferente.
Infine un esempio paradigmatico: l’amicizia.
Tutti notiamo come l’amicizia salda si costruisca nel tempo. Alcune complementarietà caratteriali sono sicuramente un buon punto di partenza per una amicizia ma molto più importanti, ai fini della solidità del rapporto, sono il tempo e la dedizione che a quel rapporto si sono dedicati.
Dunque è abbastanza evidente che sono l’impegno, l’entusiasmo e la dedizione ad essere i migliori presupposti dell’ottenimento di qualcosa di buono piuttosto che una pretesa correttezza della scelta iniziale.
Mi ritrovavo a fare questo discorso, in questi giorni, ad una figlia in preda ai dubbi su cosa fare avendo terminato gli studi liceali. Dirle “fai questo” o “fai quest’altro” mi pareva un grande azzardo. Un caricare d’importanza questa scelta iniziale come se da essa dipendesse la luminosità del suo futuro. E di lì i suoi giusti dubbi angosciosi: “… e se sbaglio scelta?”
Allora mi è sembrato più giusto, rassicurante e pieno di speranza puntare sul “come” piuttosto che sul “cosa” si farà. Per darle fiducia, per non metterla davanti ad una scelta dalle conseguenze irreparabili.
È forse più il cammino, a renderci gioiosa la vita, piuttosto che l’arrivo.