Per governare la globalizzazione non servono ideologia e invettive apocalittiche, ma amore per la realtà ed educazione dell’umano. Fame, biotecnologie, numeri dello sviluppo e storie esemplari alla vigilia del Vertice Fao di Roma
di Rodolfo Casadei
L’appuntamento romano avrebbe le carte in regola per essere gestito come un’occasione propizia: il tema all’ordine del giorno è la verifica dello stato d’attuazione degli impegni assunti dalla comunità internazionale al vertice Fao del 1996, il principale dei quali era il dimezzamento del numero degli affamati nel mondo entro il 2015 (cioè passare da 800 e a 400 milioni).Le cose non stanno andando come si era auspicato: anziché diminuire di 20 milioni all’anno (ritmo necessario per centrare l’obiettivo fissato al summit del ’96), gli affamati stanno calando al più blando ritmo di 6 milioni all’anno.
Si tratta dunque di mettere a punto nuove strategie per accelerare il trend attuale, e a questo riguardo gli organizzatori dimostrano di non avere preclusioni: dagli aiuti alimentari di emergenza alle biotecnologie, dalla razionalizzazione della gestione delle risorse idriche alla valorizzazione degli orti di città, ecc., si parlerà di tutto.
Tre errori di impostazione
Ma volete scommettere che la ribalta delle giornate romane sarà occupata da altre “notizie”? Da uno show di José Bové contro il complotto delle multinazionali che vogliono costringere gli agricoltori di tutto il mondo a comprare i loro semi Ogm, dannosi per la salute e per l’ambiente? Dalle invettive di padre Zanotelli contro “la globalizzazione che uccide”? Dal duo Casarini & Agnoletto che denuncerà la repressione poliziesca contro i No Global? E che il summit ufficiale reagirà a queste pressioni producendo documenti ricchi di equilibrismi politici (e politicamente corretti) e poveri di contenuti?
Dove sta l’errore? Se ne possono sottolineare almeno tre. Il primo è la mancanza di considerazione -talvolta fino alla negazione pura e semplice- per la realtà. Chi ha annunciato la morte delle ideologie ha preso un abbaglio: la questione globalizzazione oggi è un grande festival dell’ideologia e della sua caratteristica principale, quella di estrarre dalla ricchezza e dalla complessità della realtà un particolare e assolutizzarlo.
Nessuno tenta di portare lo sguardo sulla realtà nella totalità dei suoi fattori, ma ciascuno preleva il singolo fattore che, isolato dalla totalità, serve ad avvalorare il pregiudizio da cui egli parte e attorno a cui intende organizzare consenso e potere. è evidente che non si dà alcuna comprensione dei processi di globalizzazione senza dietro un’idea di globalità, ma oggi il problema è proprio questo: la globalità che filo-Global e No Global danno per sottintesa non coincide per nulla con la realtà intesa come totalità, è un’astrazione che è il risultato dell’approccio ideologico alla realtà.
Meccanismi contrapposti
Il secondo errore è parente del primo, e si chiama meccanicismo: settant’anni dopo i versi dei Cori della Rocca di Eliot, i nostri contemporanei continuano a sognare «sistemi talmente perfetti che più nessuno avrebbe bisogno d’essere buono». Gli uni pensano che la “mano invisibile” del mercato sia in grado di fare tutto da sé: produzione e distribuzione ottimale dei beni; gli altri, sostanzialmente fermi all’errore social-comunista, credono ancora che il benessere si possa creare e distribuire per decreto, e si attendono la salvezza dalle “regole”, dirigisticamente imposte dall’alto a Stati e operatori economici e finanziari.
Abbiamo sentito con le nostre orecchie il dott. Vittorio Agnoletto teorizzare un mondo in cui l’Assemblea delle Nazioni Unite dovrebbe essere la sede di un potere legislativo mondiale sulla base del principio “uno Stato, un voto” (pensate: quel consesso di grandi democratici che ha preferito il Sudan agli Stati Uniti come membro della Commissione per i diritti umani, e per sovrappiù dando lo stesso peso al voto di paesi piccolissimi e di Stati-continente come la Cina, l’India, gli Usa o il Brasile).
Intendiamoci bene: i due modelli economici, quello del libero mercato e quello dirigista, non sono nemmeno lontanamente paragonabili. L’economia centrata sulla competizione e sul profitto è enormemente più abile nel rispondere alla domanda di beni e servizi di quanto non sia mai stata quella imperniata sulla pianificazione centrale e la proprietà statale dei mezzi di produzione. Alla vigilia della Seconda Guerra mondiale, un cittadino tedesco e un cittadino cecoslovacco avevano lo stesso Prodotto interno lordo (Pil) pro capite.
Cinquant’anni dopo, al momento della caduta del Muro di Berlino, un cittadino di Monaco usufruiva di un reddito che era esattamente il doppio di quello di un cittadino di Praga, che nel frattempo aveva dovuto fare i conti con mezzo secolo di comunismo. Non c’è dubbio però che la “fede” nei due differenti sistemi ha in comune lo stesso presupposto erroneo: che la libertà e la coscienza dell’uomo contino poco di fronte al carattere di necessità dei meccanismi economici (liberismo), ovvero che contino solo in negativo, per cui la “giustizia economica” si può ottenere solo azzerando la libertà umana (comunismo). Tutti i discorsi, allora, si centrano sulle riforme da apportare al sistema, o sulla necessità di rivoluzionarlo, anziché sull’educazione e sulla valorizzazione della libertà umana.
E qui entra il terzo errore, che di fatto sta a monte degli altri due: la visione riduttiva che dell’educazione hanno soprattutto i No Global. Avremmo bisogno di maestri che ci introducano alla realtà totale e alla responsabilità che essa ci chiede; e invece ci ritroviamo circondati di maestri narcisisti che introducono i discepoli non alla realtà totale, ma ad un senso di colpa opprimente e al culto della personalità (cioè dell’immagine) del maestro.
L’educazione viene pertanto programmaticamente esclusa per quanto riguarda i popoli poveri (il loro problema è solo e sempre quello di essere sfruttati dai popoli ricchi, non c’è nessun bisogno di aiutarli a cambiare gli aspetti retrogradi e anti-umani delle loro culture), mentre per quanto riguarda il Nord del mondo è ridotta al farisaismo del “consumo critico”: si “boicottano” per motivi etici determinati prodotti provenienti dal Terzo mondo, senza chiedersi se questo non farà che peggiorare le condizioni dei poveri di laggiù, privati di un’occasione di reddito senza alternative; si chiama “commercio equo” quella che rischia di essere una forma di assistenzialismo paternalista (pensate al potere discrezionale di chi decide chi sono i poveri che “meritano” di entrare nel circuito, o alla mortificazione di energie imprenditoriali locali che sarebbero capaci di confrontarsi col mercato); si disperdono risorse finanziarie nei mille rivoli della “finanza etica” anziché concentrarle in strumenti istituzionali di finanza per lo sviluppo che farebbero massa critica per gli investimenti di cui i poveri avrebbero bisogno.
Sono le scelte di un’educazione che privilegia l’apparire giusti (cioè l’immagine di sé narcisisticamente coltivata) sull’essere giusti, che umanamente in altro non può consistere che nell’assumersi la responsabilità degli effetti ultimi, intenzionali o non intenzionali, delle proprie azioni.
La realtà della globalizzazione
La realtà della globalizzazione è fatta, come ogni realtà umana, di luci ed ombre, ma le luci sono molto più numerose e intense di quanto il catastrofismo ideologico e apocalittico dei No Global riescano a far credere a tanti. Non è vero che la globalizzazione ha aumentato il numero degli affamati: lo ha abbassato, anche se più lentamente di quanto desiderato. Non è vero che la globalizzazione ha aumentato il numero dei poveri: l’ha fatto diminuire.
Non è vero che la globalizzazione ha peggiorato la qualità della vita nei paesi più poveri: l’ha migliorata. Non è vero che l’apertura dei mercati al commercio internazionale è svantaggiosa per i Paesi in via di sviluppo (Pvs): quelli di loro che hanno intensificato il commercio con l’estero stanno meglio di quelli che non l’hanno fatto.
Non è vero che la presenza delle multinazionali aumenta lo sfruttamento dei lavoratori nel Terzo mondo: al contrario, migliora le loro retribuzioni. Non è vero che la globalizzazione sta deforestando il pianeta: la percentuale di terre boscose sta aumentando.
Non è vero che l’aria e l’acqua sono più inquinate: lo sono meno di vent’anni fa. Non è vero che il debito estero del Terzo mondo sta esplodendo: quello relativo sta, seppur lentamente, diminuendo.
E’ invece vero che la diseguaglianza globale fra i più ricchi e i più poveri è andata accentuandosi (ma con un interessante riaggiustamento proprio negli anni Novanta). è vero che le crisi finanziarie si ripercuotono facilmente da un capo all’altro del pianeta a causa della globalizzazione dei mercati finanziari. è vero che ci sono settori (la mortalità materna, il lavoro minorile) o regioni del mondo (l’Africa sub-sahariana, i paesi ex sovietici) dove non si registrano miglioramenti o addirittura arrivano dati peggiori. Ma non sono certo le ricette dei No Global (Tobin Tax, clausole sociali, pianificazione della produzione e del commercio agricolo, cancellazione incondizionata del debito estero, scoraggiamento degli investimenti delle multinazionali nel Terzo mondo) che miglioreranno la situazione: la peggiorerebbero senza dubbio alcuno.
La verità dei numeri
Quanto sopra asserito può essere dimostrato attraverso la semplice lettura delle statistiche più aggiornate e autorevoli sulle varie materie. Cominciamo dai dati sulla fame e la malnutrizione, di cui si discuterà a Roma. Il numero degli affamati è sceso dagli 840 milioni del 1990 a 777 in un momento imprecisato del triennio 1997-99, e secondo le stime dell’Onu dovrebbe ridursi di altri 200 milioni entro il 2015. In termini percentuali, i malnutriti erano il 50% della popolazione del Terzo mondo nel 1950, erano il 37% nel 1969-71 e sono scesi al 17% nel triennio 1997-99. La denutrizione infantile è ugualmente arretrata: riguardava il 46,5% dei bambini sotto i 5 anni nel 1970, riguarda il 27% di loro nel 2000. E si tenga presente che nel frattempo la popolazione mondiale è passata dai 3 miliardi di abitanti del 1960 ai 6,3 di oggi.
Ma la produzione ha saputo tenere testa all’incremento della popolazione: nonostante gli abitanti del mondo siano più che raddoppiati fra il 1960 e il 2000, la disponibilità alimentare è aumentata anziché diminuire, tanto che oggi gli abitanti dei Pvs assumono in media quasi 2.700 calorie al giorno contro le appena 1.900 del 1960 (negli ultimi dieci anni l’incremento è stato per l’esattezza da 2.463 a 2.663 calorie al giorno). Tali miglioramenti sono avvenuti benché l’estensione delle terre coltivate sia aumentata di poco: dagli 1,4 miliardi di ettari del 1960 agli 1,5 miliardi di oggi.
Il miracolo è stato reso possibile dalla “Rivoluzione verde” degli anni Settanta, che ha introdotto nel Terzo mondo varietà selezionate di semi ad alto rendimento, fertilizzanti sintetici e pesticidi. In un quarto di secolo indiani e cinesi hanno potuto così aumentare la produttività delle loro risaie dei due terzi. Per il futuro, però, serve una nuova rivoluzione: la popolazione mondiale crescerà di altri 2 miliardi di unità entro il 2025, e la pressione ambientale della Rivoluzione verde (leggi: l’inquinamento da pesticidi e fertilizzanti) non sarà più sostenibile.
I mezzi per farla esistono già, e si chiamano biotecnologie, ma i No Global si oppongono furiosamente sostenendo che gli Ogm sono pericolosi per la salute e per l’ambiente, e che creerebbero una dipendenza dei contadini dalle multinazionali. La prima asserzione è priva di riscontri, la seconda è puramente ideologica. Dal 1996 prodotti Ogm sono venduti sugli scaffali di Usa, Canada e Argentina senza grossi problemi (si è manifestata unicamente la necessità di avvertire chi è allergico ad alcuni frutti tropicali circa la presenza dei geni relativi in taluni alimenti) e la Cina ha incrementato la sua produzione di cotone grazie a una varietà transgenica (i danni del cotone transgenico alle larve di farfalla sono segnalati solo in laboratorio).
L’acquisto di sementi Ogm da parte dei contadini non è in nulla diverso dall’acquisto di fertilizzanti e pesticidi da mezzo secolo a questa parte: si tratta di mezzi di produzione che vengono dall’esterno del podere: e allora?
In realtà, al di là delle giuste precauzioni da prendere in questa fase primordiale dell’agricoltura biotecnologica, balza agli occhi che l’opposizione dei No Global ha ragioni tutte politiche: le nuove tecniche rischiano di sottrarre loro il monopolio della rappresentanza dei diritti dei contadini poveri, allo stesso modo in cui il cristianesimo sociale e la socialdemocrazia da una parte, il progresso tecnologico dall’altra, strapparono ai comunisti il monopolio della rappresentanza degli interessi della classe operaia.
Le biotecnologie ci regaleranno il riso arricchito di vitamina A, che salverà dalla cecità per avitaminosi mezzo milione di bambini all’anno; la possibilità di vaccinare a costi bassissimi milioni di bambini attualmente esclusi dai cicli vaccinali semplicemente facendo loro mangiare banane Ogm; cibi che preverranno l’insorgere del cancro perché arricchiti di appositi geni. Se non prevarrà l’oscurantismo politicamente motivato.
Segnali incoraggianti
Anche altri settori mostrano dati almeno moderatamente incoraggianti: nel corso degli anni Novanta il numero dei poveri assoluti (reddito inferiore ad 1 dollaro ppa – parità di potere d’acqiuisto – al giorno) nel mondo è diminuito di 125 milioni di unità, e in percentuale è sceso dal 29% al 23% della popolazione dei Pvs, che intanto è cresciuta di oltre mezzo miliardo di unità.
La qualità della vita è nettamente migliorata: in 50 anni i paesi poveri hanno fatto più progressi che nei 500 anni precedenti. La speranza di vita alla nascita, che nel 1900 era di 26 anni (46 nei paesi industrializzati nello stesso anno), ed era diventata di 46 nel 1960 (64 nei paesi ricchi), oggi, nonostante la piaga dell’Aids in Africa, ha raggiunto i 64,5 anni (contro i 78 dei paesi industrializzati).
La mortalità infantile sotto i 5 anni è stata più che dimezzata fra il 1960 ed oggi, passando dal 222 per mille al 90 per mille (nell’ultimo decennio è scesa dal 102 al 90 per mille). Come risultato di questo, oggi muoiono 3 milioni di bambini in meno all’anno rispetto all’inizio degli anni Novanta. Anche nei 40 paesi più poveri del mondo la mortalità infantile è diminuita di un terzo negli ultimi trent’anni. Tutto ciò grazie all’aumento della produzione alimentare, agli antibiotici, alle soluzioni reidratanti e alle vaccinazioni: la copertura vaccinale delle sei principali malattie infettive è passata dal 5% del 1974 al 74% del 1998.
Anche i redditi sono nettamente aumentati, benché non ovunque: fra il 1975 e il 1998 il reddito medio pro capite nei Pvs è quasi raddoppiato, passando da 1.300 a 2.500 dollari ppa. Mentre due secoli fa il primo paese industrializzato, cioè il Regno Unito, ci mise 58 anni a raddoppiare per la prima volta il suo reddito pro capite, gli Stati Uniti ce ne misero 47 e la Germania 43, nel corso del XX secolo la Corea del Sud ha fatto la stessa cosa in appena 11 anni, il Cile in 10 e la Cina popolare lo raddoppia ogni 9.
Contrariamente a quanto afferma la vulgata No Global, i paesi che hanno registrato i maggiori progressi sono quelli che hanno aperto le loro economie agli scambi. Lasciando da parte i paesi esportatori di petrolio, i maggiori tassi di crescita media annua del Pil nel decennio 1990-2000 li hanno registrati la Cina popolare (+10,3%), Singapore e il Vietnam (+7,9%), l’Irlanda (+7,3%), la Malaysia e l’Uganda (+7%), il Cile (+6,8%), ecc., cioè i paesi che più si sono integrati nell’economia mondiale. Paul Collier e David Dollar hanno fotografato la realtà del rapporto fra andamento del Pil e partecipazione al mercato globale nel loro studio Globalization, Growth and Poverty:
Building an Inclusive World Economy. In esso il mondo risulta diviso in tre regioni: quella dei paesi di consolidata industrializzazione (1 miliardo di persone), il cui Pil è aumentato mediamente del 2% nel periodo 1980-1998; quella dei paesi poveri globalizzati (3 miliardi di persone), che hanno registrato un tasso di crescita del 5% nello stesso periodo e quella dei paesi poveri “meno globalizzati” (2 miliardi di persone), che hanno invece conosciuto una crescita media annua negativa dell’1%.
Questi miglioramenti si trovano tutti riflessi nell’Isu, l’Indice dello sviluppo umano creato dal sociologo delle Nazioni Unite Mahbub ul Haq per misurare il progresso in termini di benessere sociale e non soltanto di reddito. L’Isu risulta dalla media ponderata di tre indici: reddito pro capite, speranza di vita alla nascita, tasso di alfabetizzazione degli adulti. Fra 0,8 e 1 si parla di sviluppo umano alto, fra 0,799 e 0,5 si parla di sviluppo umano medio, sotto 0,5 si parla di sviluppo umano basso. Nel 1999 i paesi a Isu basso erano 36, nel 1994 erano stati 45. L’Isu medio dei Pvs è cresciuto dallo 0,576 del 1994 allo 0,647 del 1999. Nei dieci anni fra il 1990 e il 1999 la Cina ha guadagnato 94 millesimi di Isu, il Vietnam 78, la Corea del Sud e l’India 61.
I progressi suddetti sono anche merito degli investimenti esteri diretti (che nei Pvs sono complessivamente passati da 2,2 miliardi di dollari nel 1970 a 185,4 miliardi nel 1999) e dell’arrivo delle multinazionali. Se raffrontiamo gli stipendi medi pagati dalle aziende locali nel Terzo mondo con quelli pagati dalle multinazionali, notiamo subito che è più conveniente lavorare per le seconde: uno studio dell’Institute for International Economics ci informa che nel 1994 nei paesi ricchi lo stipendio medio del dipendente di una multinazionale era 1 volta e mezzo quello del dipendente di una ditta nazionale (32.400 dollari contro 22.600 all’anno), mentre nei paesi a basso reddito era esattamente il doppio (3.400 dollari contro 1.700).
Il debito estero è un problema serio per i paesi più poveri (dove però un leggero miglioramento è in corso, il rapporto debito/esportazioni è passato dal 144% del 1984 al 137% del 1999), ma va notato che non tutti i paesi indebitati hanno usato i soldi nello stesso modo: la Malaysia ha un debito estero per abitante pari a 2.000 dollari, e un reddito pro capite di 7.640; lo Zambia ha un debito estero pro capite di 600 dollari e un reddito pro capite di 770. Morale: c’è chi sa far fruttare i suoi debiti, e c’è chi li spreca.
La questione diseguaglianza
Ma, si dice, la diseguaglianza fra i più ricchi e i più poveri sta aumentando: il rapporto fra il reddito del 20% di umanità più povera e il 20% di umanità più ricca era 1 a 30 nel 1960, è salito a 1 a 72 nel 1973 e a 1 a 82 nel 1995. E’ verissimo, ma non è un effetto della globalizzazione: è una tendenza in atto da quando è nata la moderna economia capitalista nel XVIII secolo.
Da allora il divario è andato sempre aumentando, e anche la diseguaglianza nella distribuzione generale del reddito, misurata scientificamente dall’indice Gini. La globalizzazione degli anni Novanta semmai ha un po’ chiuso la forbice: per la prima volta in oltre due secoli l’indice Gini è sceso di valore, passando da 0,55 a 0,50. Il merito è soprattutto della Cina, dove centinaia di milioni di persone hanno visto aumentare i loro prima bassissimi redditi.
Anche su questo argomento, però, bisogna sfuggire alle trappole ideologiche: nei paesi poveri l’avvento della diseguaglianza reddituale è in realtà una buona notizia, perché segnala un miglioramento complessivo della situazione. Nelle società pre-capitaliste, infatti, c’è poca diseguaglianza perché quasi tutti sono poverissimi, nelle società in via di modernizzazione invece c’è maggiore diseguaglianza perché la nuova ricchezza non è spalmata omogeneamente, ma beneficia alcuni più e altri meno.
Però è una ricchezza molto maggiore di quella che veniva creata in precedenza, perciò le condizioni di quasi tutti finiscono per migliorare, benché in modo diseguale. Basti pensare che fra l’anno 1000 e l’anno 1700 il Pil mondiale pro capite è cresciuto appena da 130 a 160 dollari di oggi; poi in 300 anni è balzato da 160 a 6.500: ovvio che tutti stanno meglio, anche se alcuni stanno molto meglio di altri.
La redistribuzione della ricchezza è certamente un problema per qualunque società che non voglia andare incontro ad aspri conflitti sociali o a rivoluzioni. Il prelievo fiscale, le forme mutualistiche e cooperative della solidarietà, le donazioni liberali, gli aiuti fra Stati, gli accordi commerciali preferenziali sono altrettante forme, interne e internazionali, di redistribuzione. Ma non c’è dubbio che il modo principale per avere meno povertà nel mondo è educare i poveri a produrre di più e meglio: insegnare a pescare anziché regalare il pesce.
Con un vantaggio aggiuntivo: chi si libera dell’ignoranza difficilmente può essere sfruttato (mentre convincere o costringere tutti gli esseri umani del mondo a non sfruttare il prossimo è irrealistico, non fa i conti coi limiti della condizione umana), e così anche la questione della giustizia fra ricchi e poveri esce dalle secche dei richiami moralistici e delle velleità millenaristiche (la pretesa eretica di costituire il Regno di Dio qui sulla terra).
Esempi di sviluppo
Mille esempi tratti dall’esperienza dei missionari cristiani e dei volontari avvalorano questo punto: è l’educazione dell’umano che rende possibile lo sviluppo. Racconta per esempio padre Giuseppe Fumagalli, missionario Pime fra i felupe della Guinea Bissau: «Il cristianesimo dà sicurezza, serenità di spirito, perché il cristiano sa che Dio è Padre e ci vuole bene. Per svilupparsi, l’uomo ha bisogno di sentirsi amato, protetto e perdonato da Dio.
Il felupe che non conosce così Dio, è circondato dal mistero, vive nel terrore delle forze misteriose che lo circondano, di cui ignora la natura e le intenzioni… Alcuni anni fa è venuta qui fra i felupe una équipe di studiosi universitari francesi e sono tornati per due mesi quattro anni di seguito. Studiavano i bambini, le loro malattie e la mortalità infantile. Hanno visitato e studiato i villaggi felupe, facendo inchieste approfondite.
Alla fine sono venuti a dirmi: “Abbiamo constatato una cosa bellissima e vogliamo dire grazie alla missione cattolica: nei villaggi pagani muoiono due bambini su tre, nei villaggi cristiani o influenzati dalla scuola e dalle idee cristiane ne muore meno di uno su tre. Voi avete fatto, con scarsi mezzi, una educazione allo sviluppo che vi fa onore”».
Al recente Summit mondiale per i bambini organizzato dall’Onu un rappresentante della Ong italiana Avsi ha così parlato: «Per guardare un bambino in modo non parziale bisogna guardarlo come una persona e quindi come un essere unico e irripetibile, con i suoi legami fondamentali, in primo luogo la famiglia, quindi irriducibile a qualunque potere, a qualunque schema anche se prodotto da un’autorevole organizzazione internazionale. è evidente in Messico, a Oaxaca, dove con un accompagnamento costante dei ragazzi al significato dello studio siamo riusciti a ridurre l’abbandono scolastico. è evidente in Albania, dove il governo ha sospeso la scuola di formazione degli insegnanti, e allora Avsi ha coinvolto 200 educatori in corsi di formazione ridando loro una dignità professionale e una passione a sé e ai ragazzi. è evidente nel nord Uganda, dove bambini rapiti e costretti a uccidere tornano azzerati nella propria identità nelle comunità di origine, ma si reinseriscono se trovano un educatore che li aiuti a dare senso alle esperienze fatte».
«Dimenticando la persona, le “buone azioni” come la remissione del debito, l’aumento dei fondi per lo sviluppo, gli obiettivi di sradicamento della povertà, l’istituzione dei fondi globali, ecc. rischiano di andare incontro a grandi fallimenti perché si limitano a elaborare e a imporre ai Pvs linee guida perfette ma disumane, proprio come i piani quinquennali di sovietica memoria.
Ci siamo così resi conto che ciò a cui ci ha educato il nostro carisma ha un valore universale e che noi siamo chiamati a portarlo in tutto il mondo, soprattutto in quei luoghi in cui si pianifica la felicità dell’uomo del terzo millennio. In questa nuova terra di missione è più che mai urgente dare battaglia per la libertà di educazione, che sottende il rispetto della persona e la valorizzazione dei suoi talenti.
Non si tratta di una contrapposizione ideologica, ma di proporre la ricchezza della nostre esperienze come esempi praticabili, con il metodo più semplice, il “vieni e vedi”».