Viaggio ad Assyut la capitale dell’Alto Egitto, dove il quaranta per cento degli abitanti è cristiano Le ostilità e la pressione dei fondamentalisti contribuiscono a tenere in piedi il muro della diffidenza tra i fedeli delle due religioni
Dal Cairo Francesca Fraccaroli
I più fortunati che stanno in seconda classe hanno la sicurezza di un posto riservato. La prima è esclusiva degli egiziani ricchi disposti a pagare tre o quattro volte di più. Il viaggio dal Cairo ad Assyut, lungo il Nilo, verso l’Alto Egitto, dura sei ore, un tragitto che costeggia il fiume più lungo del mondo che da migliaia di anni rende fertile le terre lungo le sue sponde.
Non è un percorso turistico: palmeti, campagne verdi, poveri villaggi agricoli contrastano con il deserto organizzato che tanti occidentali affrontano per ammirare l’Egitto dei Faraoni. Scendendo verso Assyut si scorge una vita rimasta sostanzialmente immutata negli ultimi decenni, fatta di tradizioni islamiche tramandate di padre in figlio, di regole contadine lontane dall’integralismo dei gruppi più radicali che per anni hanno operato in questa zona.
Qui islam e cristianesimo hanno convissuto per centinaia di anni, ma ora paiono avere smarrito la strada. Assyut, circa cinque milioni di abitanti per il 40 per cento cristiani copti, è l’espressione più evidente di questo dialogo interrotto. È la capitale dell’Alto Egitto, dove affluiscono i prodotti agricoli dai villaggi circostanti e si concentrano le attività economiche del sud del Paese. Appena usciti dalla stazione si scorgono minareti e campanili, l’uno accanto all’altro.
A prima vista la città è molto più moderna di quanto ci si potesse attendere. Accanto a un centro commerciale tipicamente arabo si sviluppano in modo ordinato quartieri con edifici di stile contemporaneo che mantengono una loro dignità anche nelle zone più popolari. L’università di Assyut è un esempio di questa politica, le sue facoltà e i suoi docenti ben preparati attirano studenti da tutto il paese anche dal Cairo.
«Ho scelto Assyut per il praticantato da avvocato – spiega Alaa Abdel Meguid, 26 anni, laureato in giurisprudenza – qui gli studi sono più formativi e i professori mi consentono di seguire per intero alcune cause, specie quelle penali». Alaa tuttavia non ha mai potuto assistere a un processo in una corte di massima sicurezza dove, in questi ultimi anni, si sono svolti procedimenti a carico di cittadini di Assyut e dei villaggi vicini, accusati di far parte di organizzazioni terroristiche, in particolare la Gamaa Islamiya.
Questa organizzazione negli anni ’90 mise a ferro e fuoco l’intero Egitto, lottando contro il regime del presidente Mubarak, accusato di tradire i principi islamici e di servire gli interessi occidentali. Fu qui che maturò il principio del takfir (scomunica), l’idea che anche i musulmani non praticanti vadano puniti assieme a cristiani ed ebrei.
Dieci anni fa, al culmine della guerra civile che travagliava il Paese, ad essere colpiti non furono solo i turisti occidentali (come a Luxor nel 1997) e le forze di polizia, ma anche gli egiziani cristiani. Furono un centinaio, in particolare ad Assyut e nelle zone circostanti, quelli uccisi dagli estremisti della Gamaa Islamiya. Oggi, se gli attacchi terroristici sono terminati, il muro della diffidenza tra cristiani e musulmani è ancora in piedi.
I fondamentalisti islamici continuano a vedere nei cristiani la quinta colonna del colonialismo militare e culturale dell’Occidente. Per questo motivo Assyut è ancora oggi una città presidiata da ingenti forze di polizia: la presenza di agenti è discreta ma diffusa, non mancano mai davanti agli alberghi frequentati da qualche straniero, per lo più uomini d’affari. «Viviamo chiusi nelle nostre case e chiese – dice Kristina, insegnante elementare – Dicono che ora qui è tutto tranquillo e che i gruppi armati islamici non ci siano più, ma noi copti ci sentiamo ancora in pericolo. In particolare dopo l’undici settembre i musulmani ci guardano con più diffidenza, ci considerano più occidentali che egiziani».
Gli attacchi alle Torri Gemelle hanno avuto un immediato impatto in una città dove l’appartenenza religiosa è il carattere fondante dei rapporti sociali. Nella chiesa copta di San Makarios e in quella cattolica di Sant’Antonio, diventate negli ultimi anni veri e propri centri di aggregazione per migliaia di cristiani, sovente si discute dei rapporti con gli islamici.
Eva, studentessa di lingue, teme che i sacrifici fatti per intraprendere una carriera brillante vengano vanificati dallo scarso peso della comunità cristiana sulla scena politica locale. «Qui il potere è in mano solo ai musulmani che si aiutano tra di loro e ci tengono ai margini – spiega la ragazza -. Certo le chiese ci danno una mano, ma non basta». Una sua amica, Maria, confessa di aver pensato di volersi convertire all’islam così da non essere più discriminata. «Lo ha fatto la mia vicina di casa, sposando un giovane musulmano, ma io non credo che la soluzione giusta sia rinnegare la propria fede».