Dal blog di Robi Ronza 2 Febbraio 2018
di Robi Ronza
La questione fiscale comincia a salire più spesso alla ribalta nella campagna in corso per le elezioni del 4 marzo prossimo: è una novità positiva tenuto conto del peso schiacciante, tale da deprimere in modo insostenibile tanto i consumi quanto gli investimenti, che le imposte hanno nel nostro Paese.
Continua invece a restarne del tutto fuori l’altra grande questione di fondo, la crisi demografica, che è peraltro il caso italiano di una situazione ormai planetaria (si veda in questo stesso sito “La crisi demografica è ormai planetaria, ma cercano di non farcelo sapere”, 17 luglio 2017). Forse però la politica qui tace perché sa di non avere risposte.
Per motivi che vanno ben oltre la politica, la prima cosa è esistere, esserci. Ciò fermo restando, mai è accaduto nella storia che si uscisse da una crisi economica in una fase di crisi demografica. Anche sul piano strettamente economico la ripresa della natalità è perciò una specifica conditio sine qua non. Non è vero le nascite potranno tornare a crescere quando migliorerà la situazione economica; è vero piuttosto il contrario.
In tal senso dunque la ripresa delle nascite è una priorità assoluta. Paradossalmente però le chiavi della soluzione di questo primario e fondamentale problema politico non stanno nelle mani della politica. Una fiscalità più favorevole alla famiglia e alla fecondità nonchè migliori servizi per l’infanzia possono essere di aiuto, ma non risultano decisivi. Bene lo dimostra il caso delle due Province Autonome di Bolzano-SüdTirol e di Trento-Trentino. Entrambe, avvalendosi della loro speciale autonomia, hanno sviluppato politiche per la famiglia e per l’infanzia altrettanto generose. Solo la prima ha però un tasso di natalità ben più alto della media nazionale, mentre la seconda non se ne discosta in modo rilevante. Ciò significa che la maggiore fecondità di Bolzano rispetto a Trento ha radici che vanno oltre la sfera del fisco e dei servizi sociali.
D’altra parte basti pensare che nel 1944, nel pieno della guerra, in un’Italia che aveva 15 milioni di abitanti in meno di quelli di adesso, nacquero 815 mila bambini, mentre nel 2016 ne sono nati soltanto 473.438. E non sembra che nell’Italia del 1943-44 la situazione fosse più facile, più pacifica e più tranquilla che nell’Italia del 2015-2016.
Questo non toglie beninteso che si debba premere per una fiscalità più favorevole alla famiglia, per migliori servizi all’infanzia, e così via. Deve però essere chiaro che tutto ciò non basterà a cambiare le cose. Centomila nuovi nati in meno tra il 2008 e il 2016, e 12 mila in meno nel 2016 rispetto all’anno precedente non si spiegano solo politicamente. Dobbiamo fare tutti quanti tutto il possibile perché dalle elezioni del prossimo 4 marzo esca il meglio, ma già sappiamo che sarà solo il meglio del peggio.
Per lasciarsi davvero alle spalle la crisi occorrono dei “beni comuni” che la politica non può né produrre, né amministrare. Si tratta della fiducia nel futuro e dello spirito di sacrificio, ossia della disponibilità a non vivere solo per sé stessi e per l’immediato, ma pure per gli altri e pensando anche al domani.
Al di là e a prescindere dall’esito delle elezioni ciò che sostanzialmente occorre sono quei beni comuni di cui si diceva: dei beni che non l’autorità politica ma soltanto delle autorità morali possono suscitare e diffondere. Chi dunque? Nel nostro Paese in primo luogo la Chiesa, Mater et Magistra, quindi i cristiani. Urge che la Chiesa in Italia prenda il largo riassumendo con fermezza e con coraggio questo suo storico compito troppo a lungo trascurato. Senza lasciarsi più ingabbiare, se non ingabbiandosi da sé, in dialettiche di breve periodo con l’ordine costituito politico e civile.
A quando finalmente una lettera collettiva dei vescovi italiani che dia il segnale d’inizio a questa svolta?