23 Novembre 2020
Storia della cavia di un esperimento lesbico di donazione del seme. Fino a quando dovremo sopportare questi orrori?
di Giacomo Bertoni
Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? Forse il dipinto di Paul Gauguin (1848-1903), realizzato nel 1897 e oggi conservato al Museum of Fine Arts di Boston, è la migliore descrizione dello smarrimento che ha provato Eli Baden-Lasar il giorno del suo undicesimo compleanno.
Eli è un giovane di Oakland, in California. Lì oggi frequenta il secondo anno della Wesleyan University. Classe 1998, è cresciuto in una coppia di donne e fin da piccolo gli è stato comunicato che suo padre era un donatore di seme. Anonimo.
Quando compie 11 anni però le domande iniziano a diventare prepotenti e il bisogno di conoscere le proprie radici prende il sopravvento: chiede maggiori informazioni su suo padre e le donne che lo hanno cresciuto gli danno una copia del questionario che il donatore aveva compilato al momento della registrazione nella banca del seme.
Per Eli quel foglio freddo e precompilato ha un valore inestimabile, tanto che inizia a portarlo con sé nello zaino, a scuola, a toccarlo di tanto in tanto.
Un foglio pieno di domande
«C’era questo senso del tatto… Questa persona aveva usato la mano per rispondere a queste domande; potevo vedere dove aveva cancellato le cose. Non che fossi così disperato nell’immaginare chi fosse; bastava avere la prova che era reale, invischiato in quello che sono e tuttavia, come quel documento mostrava, totalmente separato.
La forma lo rendeva concreto, anche se imperscrutabile», confida Eli a Susan Dominus il 20 giugno del 2019, realizzando così un incredibile reportage per The New York Times. Gli anni passano, Eli trascorre un semestre in un college a New York e stringe amicizia con un ragazzo, Gus Lumb. Con il tempo, l’amicizia si fa più profonda e arriva la confidenza sulle proprie origini.
Con grande sorpresa Eli scopre che anche Gus ha un padre donatore di seme ed è cresciuto in una coppia di donne. Entrambi sono registrati alla California Cryobank, dunque si scambiano i codici dei donatori il cui seme li ha messi al mondo. Sono fratellastri. «È stato un momento di gioia, ma anche di orrore», racconta Eli.
«Nel nostro programma di apprendimento esperienziale, ci veniva costantemente chiesto di scrivere saggi personali per cercare di capire le nostre vite. Per quattro mesi lo abbiamo fatto leggendo il lavoro l’uno dell’altro e dormendo sullo stesso piano di un dormitorio, senza sapere che eravamo fratellastri».
Cavia in un esperimento
Eli inizia a sentirsi parte di un esperimento molto più grande di lui, anche se con Gus non si crea nessun legame indissolubile e i due si perdono presto di vista. La sorella di Gus però, Izzy, aveva fatto qualche ricerca per motivi medici dopo una brutta appendicite scoprendo che «ci sono tonnellate di fratelli». Lo riferisce così a Eli e per il giovane è uno shock.
Il trauma però non lo devasta completamente, anzi, lo spinge a reagire: si arma di una view camera e parte per scattare foto ai fratellastri. Con lui, inizialmente, viaggia anche Ruby, la sorella minore, concepita utilizzando un donatore diverso dal suo. Eli fa ricerche su ricerche e, appena scopre un fratellastro, lo raggiunge, se ne fa raccontare la storia e lo fotografa.
Ogni fotografia, impaginata in modo perfetto da The New York Times, sembra essere un ramo di quell’albero genealogico che la vita sembrava avergli negato. Il tentativo di riscattare il proprio diritto a sapere, a conoscersi, a chiamarsi per nome. «Ci sono alcune cose su una persona che non puoi capire senza vedere il luogo in cui è cresciuta», racconta Eli, per questo vuole raggiungere tutti di persona, per questo scatta con una macchina fotografica così antiquata, che richiede oltre un’ora di preparazione per scattare la foto.
Il risultato è sconvolgente: le foto sono reali, vere, vive. Sono tutto il contrario delle foto in serie, degli scatti fatti con lo smartphone, delle cartoline. Sono uniche. Ma trasmettono una drammaticità potente. Un senso di disperazione che rende la lettura di questo straordinario reportage un viaggio nella vita di Eli.
Il messaggio lanciato dalle grandi banche del seme è ben diverso, e a questo Eli si oppone: «Un messaggio chiaro, semplice e commerciale sull’aiutare le famiglie e annunci che presentano i donatori come supereroi, i loro futuri bambini come geni. Io invece volevo produrre qualcosa che fosse esaustivo e travolgente, che complicasse il messaggio dell’industria, che confutasse qualsiasi semplice narrativa».
«Prodotto in serie»
Eli viaggia per 10 mesi, attraversa 16 Stati e fotografa i 32 fratellastri: «Di tanto in tanto vedevo qualcosa di inquietante a proposito di me stesso in uno degli altri fratelli che poteva rimescolare completamente il mio senso del sé, il modo in cui il collo di una persona diventava chiazzato quando era a disagio o il modo in cui un altro si mordeva il labbro. Una volta ho sentito una risata tra fratelli ed era così tanto la mia risata che mi ha fatto rizzare i capelli sulla nuca».
Anche il lettore non può fare a meno di cercare queste somiglianze scorrendo le foto: quello sguardo, quell’espressione, il mento, il sorriso che tarda ad arrivare. Su questa ricerca aleggiava la presenza del donatore, che Eli definisce «quasi una figura spettrale che si libra sopra le nostre vite». Izzy riesce a ricuperare un audio del donatore, pagando un extra alle banche del seme è possibile ottenere questionari più estesi e file audio.
Al termine dell’intervista registrata prima della donazione l’uomo, parlando dei futuri possibili figli, dice: «Auguro loro ogni fortuna». Eli ha ritrovato 33 fratellastri, 32 hanno accettato di incontrarlo e di farsi fotografare. Ma dice che potrebbero essercene altri, e questo accresce un sentimento provato dai figli di donatori anonimi: «[…] la nostra paranoia per il fatto che potremmo camminare accanto a fratelli tutto il tempo senza saperlo».
L’idea continua e onnipresente che lo sconosciuto seduto di fronte sulla metropolitana possa essere un fratellastro. Eli e i suoi fratellastri stanno chiudendo nell’armadio i simboli della propria adolescenza, come i vestiti per la festa di fine anno o i giocattoli che ha voluto immortalare. Eppure sulle loro vite continuano ad aleggiare domande e speranze che forse non avranno mai ristoro.