(Edizioni Sugarco – 1999)
di Vittorio Messori
Non per virtù, ma per amore di vita tranquilla, per timore di altre responsabilità oltre a quelle, già pesanti, della scrittura, sempre ho evitato di sedermi su sgabelli o poltrone di potere e di autorità, in quel mio piccolo campo che è la carta stampata, di libri e giornali. (Manzoni, su quel don Ferrante cui va un poco della mia simpatia: «Non gli piaceva né obbedire né comandare»)
Eppure, talvolta mi diverto a far liste di «reati» cui, ne avessi per assurdo il potere, legherei sanzioni almeno pecuniarie. Una di quelle multe andrebbe a quei miei colleghi che indulgessero all’abitudine – che è solo italiana – dell’autodiffamazione nazionale.
Cadrebbero sotto la mannaia le parole di cui ogni giorno grondano i “media”, oltre che i bar: «all’italiana», per indicare cosa approssimativa se non truffaldina; «non c’è niente da fare, tanto siamo in Italia»; «solo in Italia può succedere che…»; “et similia”.
E le mie sanzioni scatterebbero non solo per amore dell’Italia (che pure non mi è per niente estraneo: tra le colpe più gravi del fascismo c’è l’averci derubati della possibilità di pronunciare senza sensi di colpa quel bel nome di ‘patria’, terra dei padri, che uno come il papa, che non ha i nostri complessi da Ventennio nazionalista, usa con libertà). Non comunque -almeno, non innanzitutto- per amore dell’Italia; ma di quell’altra patria i cui confini sono quelli stessi del mondo e che chiamiamo Chiesa.
E’ infatti cosa inoppugnabile: la polemica antitaliana è in realtà Polemica anticattolica nasce con Lutero e diventa poi -dilagando alla grande sino ai nostri giorni- uno dei capisaldi della propaganda protestante. E, al suo seguito e sul suo esempio, di ogni propaganda anticlericale, illuminista, massonica; e chi più ne ha più ne metta.
Il cattolico è, con sprezzo, il «papista»; ma il papa -che è l’Anticristo per la teologia dei «riformatori» ed è l’Oscurantista, il Repressore per ogni «progressista»-, il papa è quasi sempre italiano, sta comunque a Roma; e l’Italia, di cui è Primate, è la sua superdiocesi, da cui viene la maggioranza dei santi, dei fondatori, dei teologi. Denigrare cultura e costumi italiani, così profondamente forgiati dal cattolicesimo, diffamare questo Paese che da sempre dà il nerbo della classe dirigente della Chiesa, vuol dire polemizzare con il cattolicesimo.
Non si tratta, ripeto, di ipotesi, ma di realtà benissimo documentate: sino ai primi decenni del Cinquecento, il nostro prestigio è altissimo e senza discussioni, in Europa. «Italiano» è sinonimo di colto, di civile, di ammirevole (e ammirato fu anche il giovane Lutero, fraticello ancora timorato che, andando a Roma, disse di essere passato di meraviglia in meraviglia, strabiliato persino dalla efficienza degli ospedali…). Sino all’esplodere della furibonda propaganda di quel tedesco e degli altri riformatori contro «la Bestia romana», in nessuna lingua troverete mai espressioni come «all’italiana» in senso negativo. Al contrario!
E’ una diffamazione che ha fatto fortuna, sino al punto di convincere gli stessi diffamati. Scorrete i giornali di ogni tendenza e avrete quotidiana conferma che l’autodiffamazione nazionale (praticata, senza eccezioni né limiti, da quasi tutti, per una volta unanimi) sempre si accompagna all’esplicita o almeno implicita nostalgia di una Riforma mancata, al complesso di inferiorità verso una mitica Europa nordica e di tradizione protestante, considerata come modello cui tendere.
«Un Calvino, uno Zwingli, un Cromwell: ecco ciò che è mancato all’Italia per diventare un Paese civile»: questo il “leit-motiv” della pubblicistica laicista, sulle orme dei suoi “maîtres-à-penser”. Per restare al solo nostro secolo, un Croce, un Gobetti, un Gramsci, un Einaudi, un Mussolini stesso: tutti convinti che le nostre magagne fossero senza confronti nel mondo e derivassero tutte dal cattolicesimo, castratore e corruttore di popoli. E di quel popolo soprattutto che, il papa, ha la sventura di avercelo in casa.
Non ho nulla, è chiaro, contro il protestantesimo (anche se, pur fraternamente ossequiandolo, lo lascio volentieri ad altri; né sono affatto convinto che si identifichi con termini come «civile», «moderno», «progressista» e via magnificando). Ma neanche mi piace cadere nella trappola di un anticattolicesimo superficiale quando non faziosamente interessato.
Ecco perché ci andrei con mano pesante con chi in quella trappola ci si ficca volontariamente e, se credente, non si accorge del trucco che vi sta dietro. Paghi la multa e si renda conto che c’è un motivo preciso se gli italiani – e, si badi bene, essi soli, nel mondo, a conferma che c’è qui qualcosa che va ben al di là di difetti oggettivi – hanno fatto dell’autodiffamazione e della sfiducia in se stessi in quanto popolo lo sport nazionale.