Perché destra e sinistra attaccano la celebre catena alimentare
di Alberto Mingardi
Le accuse rivolte alla catena di hamburgerie statunitense sono sintetizzabili proprio così, con il solito contorno cui siamo abituati: cheeseburger e patatine fritte sono ovviamente strumento dell’oppressione di classe, il ketchup serve soltanto ad affamare il Terzo mondo, l’happy meal potrebbe sancire la fine della nostra sovranità culinaria. Nulla di nuovo sotto il sole: l’ostilità verso McDonald’s è solo l’ultimo travestimento della nostalgia dell’Arcadia, il vagheggiamento di una realtà idillica e preindustriale che unisce da sempre la destra reazionaria e la sinistra utopista. Pur essendo realtà diverse e contrapposte, esse convergono nell’antipatia per un nemico comune: il capitalismo.
Da una parte, certa «destra» vagheggia il ritorno a un mondo che non c’era: rintracciarne le origini in De Maistre è azzardato, perché De Maistre era senz’altro un pensatore raffinato, difficile che scambiasse lucciole con lanterne. Identificarne i precursori con quelli del conservatorismo è assurdo, visto che – ad esempio – il pensiero conservatore di Edmund Burke (per prendere un autore generalmente ritenuto «retrogrado») era in buona parte una strenua difesa di un ordine liberale.
Invece, la «destra» anti-globale ha un retroterra culturale diverso. Generalmente viene fatto risalire all’avversione alla «modernità», ma questa stessa espressione non è granché significativa: la cifra della «modernità» non può essere, come alcuni l’intendono, il progresso tecnologico, scientifico, culturale, in quanto esso è una costante di tutta la storia umana, inclusa quella precedente il 1600.
Casomai, gli attributi della «modernità» sono altri, l’ossessione per il pensiero «parcellizzato», la politica come coercizione, ma sono discorsi che ci porterebbero troppo lontano. No, la «destra» anti-globalista e, in sostanza, anti-americana si caratterizza per l’odio verso il progresso in sé e per sé. Intendendo come progresso qualsiasi tipo di innovazione che comporti un cambiamento nello stile di vita della gente, e soprattutto quelle tecnologie che sono in qualche modo portatrici di «emancipazione» (in che termini lo sia McDonald’s, lo vedremo fra poco).
Ecco, le suggestioni di questa «destra» sono quelle del «ritorno a Oriente», spaziano da Schopenhauer a Nietzsche passando per Il tramonto dell’Occidente ma soprattutto l’Ascesa e declino della civiltà delle macchine di Spengler. dietro l’ombrello di un pensiero forte «di facciata», nascondono in realtà i semi di un nichilismo esistenziale, che sfocia in una non-proposta politica: cioè l’abbandono dei valori occidentali, non solo la libertà individuale ma pure quella «razionalità» che comunque contraddistingue la nostra civiltà a differenza delle altre.
Le ragioni della sinistra sono simili, e affondano in quella «mentalità anti-capitalistica» (così la definiva Ludwig von Mises) che caratterizza in parte la storia dei movimenti comunisti. Come giustamente sottolineato da Mises, il risentimento è diretto al fatto che, nella società liberale, «la ricchezza è un fenomeno di mercato», cioè è sul mercato che si stabilisce quanto ciascuno vale.
Certa «destra» non apprezza questo fatto e reagisce invocando il ritorno a un mondo in cui la ricchezza era legata allo status, non alla soggettività dei valori. La sinistra, allo stesso mondo, ha come obiettivo una società che sia «a ciascuno secondo i suoi bisogni, da ciascuno secondo le sue possibilità». Ovvero quanto di più radicalmente distante all’idea del «prezzo» e del «valore» che si crea nel mercato, per il mercato.
Crollato il Muro di Berlino, e con esso il socialismo reale, la mentalità anti-capitalistica resta un punto fermo delle nostre società non solo grazie a questi movimenti, che in realtà sono minoritari, ma soprattutto in virtù della massiccia penetrazione nel «senso comune» dell’ecologismo militante. I cosiddetti «verdi» sono l’epicentro di questo fenomeno: essi rappresentano una corrente di pensiero da un lato dichiaratamente «retrograda» (nella rivalutazione acritica del mondo preindustriale), dall’altro con evidenti ambizioni rivoluzionarie (lo scardinamento del sistema capitalista e «inquinatore»).
Non è un caso, del resto, che le esperienze da cui proviene la stragrande maggioranza degli ambientalisti siano quelle dell’extraparlamentarismo «rosso»: Daniel Cohn-Bendit, profeta del maggio francese, è giust’appunto il gran mogol degli ambientalisti europei. Il risultato è paradossale, soprattutto per il fatto che i «verdi» rifiutano il modello di società «liberale» ma non gli strumenti che essa produce per loro. Non solo perché quella del rispetto dell’ambiente è, evidentemente, un’istanza rivendicabile solo in una società ricca e matura.
Soprattutto perché – ed è questa la vera forza dell’ecologismo – essi riescono ad ammantare le loro battaglie di un alone «scientifico». Evidentemente sufficiente per entrare nelle scuole e nell’accademia, e plagiare le menti di non pochi giovani.
Le ragioni per cui questi diversi movimenti se la prendono con McDonald’s, sono varie. In primo luogo, McDonald’s è un simbolo: rappresenta la vittoria del modello capitalista sulle economie miste. Lo è per tanti motivi: anzitutto perché è il prototipo di impresa «globalizzata», con un punto vendita a ogni angolo del pianeta. In secondo luogo, la proliferazione dei McDonald’s è forse il fenomeno che più di ogni altro dimostra l’inconsistenza dei luoghi comuni della «mentalità anti-capitalistica».
Il principale, lo sappiamo, è che il liberismo manchi di socialità, che lasciare libero il mercato implichi dare spazio a una forma di «darwinismo sociale», alla legge della giungla. Lo espresse bene Raùl Alfonsìn, ex presidente dell’Argentina: «credo nella libertà politica, ma in economia la libertà di mercato è come la volpe sciolta in mezzo alle galline». L’esistenza stessa dei McDonald’s mina alla base questo pregiudizio: i vituperati fast-food svolgono una funzione sociale non da poco.
Nei «Mac» di tutto il mondo si mangia per cinque dollari, più o meno diecimila lire. Il prodotto viene servito a puntino in un ambiente così amichevole che più amichevole non si può, effervescente e coloratissimo, tant’è che i bambini fanno la fila. A certi benpasciuti intellettuali, questo dirà poco o niente. Però il mondo è fatto anche di gente che tira la carretta e arriva a sera col fiatone. Persone che vivono spesso in quartieri poveri, degradati, a rischio.
McDonald’s, ad Harlem, fa di più di quanto potranno mai fare i sussidi passati sotto banco a mamma e papà, perché dà loro la possibilità in una volta sola di uscire a cena e di far giocare i figli, che vuol dire tenerli lontano dalla strada. L’ambiente «famigliare» è una delle caratteristiche più evidente dei McDonald’s di tutto il mondo, la cui strategia commerciale, pur puntando a soddisfare il massimo numero possibile di clienti, è orientata specialmente verso i più giovani. Le ragioni che portano a scegliere un fast-food, intendiamoci, sono molte.
C’è sicuramente l’incentivo «famigliare» cui abbiamo accennato: da questo punto di vista, i «Mac» sono duplice strumento di emancipazione. Da un lato favoriscono la potenziale uscita da quei circoli di povertà cui molte famiglie sono condannate, creando un «ambiente sano» in cui i figli possano giocare e fare amicizie. Dall’altro, l’andare da McDonald’s diventa, nell’età della crescita, per i figli un modo per migliorare la propria vita sociale: per la nuova generazione, per i figli degli anni Ottanta, l’uscita dall’ambiente famigliare passa per i «Mac», che sono diventati un luogo di ritrovo e incontro. Con la tacita approvazione di mamma e babbo.
Un’altra motivazione, piuttosto evidente, sta nella stessa parola: fast-food. È qui che McDonald’s diventa uno straordinario strumento di emancipazione dei lavoratori, restituendo loro il «proprio tempo». Scegliere un «Mac» per la pausa pranzo significa non doversi sedere a un tavolo, aspettare la cameriera, fare l’ordinazione, aspettare da bere, bere, aspettare da mangiare, mangiare, chiedere il conto, aspettare il conto, pagare il conto e correre in ufficio perché fra cinque minuti c’è da timbrare il cartellino.
Paradossalmente, fast food significa, per molti lavoratori, slow life, cioè rientrare in una dimensione più umana e meno frenetica, riappropriarsi del tempo, poterlo utilizzare in maniera diversa. Magari per una passeggiata nel parco prima di tornare al lavoro, per una capatina in libreria. Insomma, per guadagnarci «psichicamente», citando sempre Mises.
Importantissimo è il fattore-prezzo. A dispetto dell’opinione comune, quando parliamo di «hamburger» parliamo comunque di un alimento complesso. Cheeseburger, BicMac, e compagnia sono composti da due fette di pane, formaggio, carne, vegetali diversi, creme e salse differenti. La produzione in serie di un «qualcosa» del genere non è un fatto semplice, eppure, sul mercato, il suo prezzo non supera che di pochi spiccioli il costo di tutti i suoi ingredienti. Perché?
Non è che la McDonald’s sia mossa da chissà quali intenti altruistici, o dalla compassione per i bisognosi: il fatto è che è impossibilitata ad alzare i prezzi, a causa della concorrenza. In Europa è meno evidente, in America è cristallino: chiunque abbia mai visitato un mall statunitense sa che in essi vi è sempre una specie di agorà, un’enorme piazza dove trovano spazio i fast-food più diversi. Eh, sì: non solo McDonald’s.
Le possibilità di scelta sono le più disparate, dal cibo tailandese a quello nord-americano, passando per l’immancabile ristorante italiano (non è forse, anche questo, «imperialismo culturale»?). E tutti questi fast-food, per mantenersi competitivi sul mercato, sono costretti ad abbassare i prezzi il più possibile. Proprio come McDonald’s fa quasi quotidianamente.
Questa competizione «selvaggia» in realtà è un gioco a somma positiva: ne beneficiano in prima istanza i consumatori, certo, che vedono costantemente aumentare il ventaglio di scelte a loro disposizione e diminuirne il costo. Ma ne traggono profitto anche i fornitori e gli stessi «lavoratori» dell’industria del fast-food, per cui aumentano gli incentivi man mano che la lotta per vendere di più del concorrente si fa più accesa.
A tal proposito, un’altra accusa mossa a McDonald’s è di costringere alla chiusura i ristoranti e le trattorie tradizionali, slow food. Peccato che non ci sia nessuna evidenza empirica a sostegno di queste congetture: anzi. Il Gambero rosso non ha dichiarato fallimento da che i «Mac» sono sulla piazza, semmai negli ultimi anni ha visto intensificarsi le proprie attività editoriali: segno che vi è un pubblico crescente, di lettori e ristoratori appassionati.
Allo stesso modo, un’occhiata sommaria alle vie centrali di città come Milano o Roma (in cui McDonald’s è sicuramente una realtà assai presente) conferma che la presenza di un certo numero di fast food non ha inficiato la sopravvivenza dei ristoranti di qualità. Proprio perché le due cose non si escludono a vicenda: chi a mezzogiorno sceglie il BigMac, magari è il primo a fiondarsi dal Savini per una cenetta romantica, e magari a casa può vantare una cantina di tutto rispetto.
Questo perché i «Mac» rappresentano una risposta diversa a problemi diversi, non il tentativo di soppiantare la trattoria vecchio stile: lo conferma, del resto, l’esperienza americana, dove la proliferazione capillare del fast-food non ha certo impedito a buoni locali «tradizionali» di nascere e crescere sul mercato.
Resta sul piatto un’altra imputazione mossa al BigMac: quella di rappresentare una forma di omologazione, in quanto è lo stesso in tutto il mondo. Il che indubbiamente è vero: gusto e aroma sono gli stessi a Hong Kong, Verona e Las Vegas. Tuttavia, parlare di omologazione è sbagliato: nessuno costringe nessuno a mangiare patate fritte mattino e sera.
Nessuno proibisce di starsene a casa e cucinarsi delle troffie al pesto, nessuno punta una pistola alla tempia del consumatore e gli intima di ordinare un McChicken. È vero che McDonald’s consente a chi lo vuole, di papparsi un piatto identico a tutte le latitudini. Il che è un vantaggio non da poco, per esempio, per chi viaggia per lavoro, e si trova in luoghi dove non sa bene cosa come e quanto mangiare. Il BigMac rappresenta una via di fuga perfetta, un approdo sicuro per tutelarsi da allergie e infezioni alimentari, il toccasana dell’ipocondriaco a tavola.
La presenza di McDonald’s in Paesi diversissimi ha poi qualche piacevole effetto collaterale: un analista americano, Thomas L. Friedman, ha estratto dal cilindro quella che chiama la «teoria McDonald’s della pace». In pratica, sostiene che i Paesi che hanno un McDonald’s non si fanno guerra fra di loro: si tratta ovviamente di una teoria un po’ approssimativa, già «falsificata» quando i diciannove Stati «mcdonaldizzati» della Nato si misero a bombardare la Serbia, altro Stato «mcdonaldizzato».
Però quello che Friedman vuole sostenere è semplicemente che una forma di «integrazione economica» è il metodo più affidabile per fare aumentare i «costi della guerra». Lo stesso concetto l’espresse «in negativo» l’economista francese Frédéric Bastiat, sostenendo che dove non passano le merci passano gli eserciti. Questa è la scommessa del mondo globalizzato: la creazione, cioè, di un ordine pacifico basato sul mercato. Far passare le merci, per non dover ricorrere agli eserciti.
McDonald’s di tutto questo è un simbolo, forse il simbolo: l’apertura di uno dei suoi fast-food, a Mosca, dieci anni fa ha significato la caduta del comunismo, e l’ingresso della Russia nel mondo occidentale. Lo stesso avviene ogni giorno, e continuerà ad avvenire. Ogni McDonald’s che apre è una piccola vittoria per la libertà economica. Proprio per questo non piace ai «socialisti di tutti i partiti»: perché rappresenta il trionfo del modello capitalista, proprio in quei frangenti sui quali i comunisti scommettevano per il suo fallimento.
Per i poveri, i deboli, ha fatto di più un BigMac che qualsiasi assegno di «sicurezza sociale». Ecco perché Bertinotti ce l’ha con McDonald’s: perché ha avuto successo, laddove il comunismo ha fallito.