di Antonio Socci
Nei giorni scorsi – con il Paese colpito da alluvioni, frane e inondazioni – qualche arguto buontempone ha esposto in un’osteria un cartello con questa vecchia battuta: “i danni che ha fatto l’acqua, il vino non li ha mai fatti”. Non sarà vera (lo ammetto subito, per i puritani), ma è ben trovata. E’ una comprensibile difesa di un tesoro – scusate il gioco di parole – di vino.
Del resto quello che i salutisti e i moralisti non vogliono capire (anche quando scrivono le leggi) è che il vino non è un “superalcolico”, non è un vizio da esorcizzare, limitare o magari proibire, non è un equivalente popolare della droga. Il vino è civiltà. E imparare a degustarlo per capirne le delizie (anziché a tracannarlo per stordirsi) fa parte della sua raffinata cultura.
Se lo comprendessimo sarebbe facile riconoscere – ad esempio – che la “notizia” culturale del momento in Italia è il vino novello della recente vendemmia. Come la prima della Scala, ma molto più importante. Solo a una mentalità urbanocentrica – com’è quella dei media – sfugge un simile evento popolare dell’Italia profonda.
Ci sono altre verità da portare alla luce, in una eventuale difesa apologetica del vino. Per esempio questa: il vino non è una bevanda. La Coca Cola è una bevanda, il vino no. Il vino – dicevo – è civiltà, come il diritto romano, come la nostra letteratura e la nostra musica. Come la poesia stilnovista, come Caravaggio e come Vivaldi.
E’ civiltà anche il maiale, certo, infatti – e non a caso – è stato accostato alla musica di Verdi nella celebre – e sagacissima – battuta parmigiana secondo cui “il Rigoletto è c’me ‘l gozen (come il maiale): non si butta via niente”. Ma il vino è molto di più. Il vino che era di casa nella Roma, oggi fatta di ruderi, che visitiamo ai Fori imperiali o al Palatino e al Colosseo ed è di casa nella nostre cattedrali, come nelle feste paesane dei bellissimi borghi italiani.
Ieri – in rete – dappertutto si citava la poesia “San Martino” del Carducci: “Ma per le vie del borgo/ Dal ribollir dei tini/ Va l’aspro odor dei vini/ L’anime a rallegrar”.
Dunque è da secoli che il vino è un grande evento culturale del popolo. Ma non solo perché è celebrato in tante sagre italiane di questi giorni, perché è cantato nelle poesie che da bambini ci hanno fatto affacciare alla letteratura o in quelle – penso a Baudelaire – che, da grandicelli, ci hanno sedotto. Per non dire della cultura latina che è intrisa tutta di vino, da Ovidio a Lucrezio, da Catullo e Orazio a Plinio e Petronio (memorabili le parole di Orazio: “Nessuna poesia scritta da bevitori d’acqua può piacere o vivere a lungo”).
Il vino è ancora oggi un grande evento culturale non solo perché è una delle “eccellenze” del Made in Italy o perché – ad esempio in Toscana – le cantine sono diventate capolavori di architettura che, insieme alla degustazione, ospitano eventi artistici.
Ma anzitutto perché il vino è veramente uno dei più bei connotati della nostra identità. Lo aveva capito con straordinaria preveggenza Gilbert K. Chesterton che in un suo romanzo distopico del 1914, “L’osteria volante”, immaginava una futura Inghilterra in cui un’alleanza tra Islam e grossi poteri economici avrebbe messo fuorilegge gli alcolici (una metafora per dire la liquidazione della civiltà giudaico-cristiana). Vista la recente massiccia emigrazione islamica nel Regno Unito potrebbe perfino verificarsi.
Memorabile questa battuta di Chesterton: “E Noè diceva spesso a sua moglie, quando si sedeva a pranzo: ‘Poco m’importa dove vada l’acqua, purché non vada nel vino!’ ”. Il vino è il gusto e il piacere, è la fatica del lavoro dei campi che dà forma alle nostre campagne, è la festa e l’ebbrezza, infine è il centro del sacro perché, nel cristianesimo, Dio stesso lo ha scelto – insieme al pane – per restare misteriosamente presente fra gli uomini, con il suo stesso sangue e il suo corpo.
Oltre alla meraviglia del gusto e del profumo, affascina il colore del vino perché evoca l’essenza della vita: rosso rubino come il sangue, che sembra sgorgare dalle viscere della terra, oppure dorato come la luce del sole che lo fa maturare e – appunto – come l’oro. In effetti è concepito nel felice matrimonio fra la fertile terra e la luce calda del sole, unione celebrata dal lavoro umano.
Il vino è, per i suoi significati simbolici, qualcosa di unico. Non c’è nulla che gli sia paragonabile dal punto di vista culturale.
C’è una teologia del vino (ebraica e cristiana), una letteratura del vino, una storia del vino (e come vedremo ha Roma al centro) e una geografia del vino che ancora una volta rimanda all’Italia.
La cultura del vino unisce la storia ebraica, quella greca e quella romana: Gerusalemme, Atene e Roma. Unisce la Bibbia ebraica, Omero (o Esiodo), il Vangelo e la cultura latina. Si può immaginare qualcosa di più identitario? Non a caso proprio il vino si trova al centro della liturgia cattolica e la Chiesa cattolica, apostolica romana è il punto di confluenza di queste tre grandi tradizioni: l’Antica Alleanza biblica, il pensiero greco e il mondo (giuridico, storico e politico) di Roma.
Per tutte queste ragioni Roma e l’Italia sono diventate di fatto il centro da cui si è irradiata la civiltà del vino. E’ appena uscito un libro di Romano Benini, “Lo stile italiano” (Donzelli), che ha il limite di riproporre di continuo (anche a sproposito) la retorica ideologica del multiculturalismo, ma che ha pure moltissimi pregi.
Per esempio spiega la centralità di Roma nel diffondere la “civiltà del vino” dovunque. La Roma antica esportava vino fino all’altro capo del mondo e per secoli l’Italia ha avuto l’esclusiva nell’Impero di questa preziosa produzione.
Poi, nel 291 d.C., l’imperatore Probo fece selezionare un vitigno perché i soldati romani lo impiantassero in tutta Europa “ed è oggi” scrive Benini “l’antenato di quasi tutti i vitigni usati in Europa”.
I Galli, amanti del vino, si gettarono subito nella produzione e, grazie ai vitigni portati dai legionari, impiantarono “nella Garonna, nella zona di Bordeaux, il vitigno Biturica, antenato del Cabernet Bordeaux, e nella zona di Lione il vitigno Allobrogica, antenato del Pinot Nero di Borgogna”.
Anzi, “i Galli, per esprimere la propria riconoscenza (verso Probo), regalarono all’imperatore una vigna nella zona denominata Côte-d’Or, che ancora oggi produce un vino straordinario, chiamato Romanée, in omaggio all’imperatore”.
Anche così Roma ha “fatto” l’Europa. Non solo edificando città (come Parigi, Londra, Francoforte o Toledo), non solo costruendo migliaia di chilometri di strade, acquedotti, fognature, terme, bagni pubblici, teatri, non solo portando cultura, giochi, moneta e commercio, non solo insegnando il diritto e costruendo l’organizzazione civile e militare. Ma anche con la civiltà del vino.
Per questo il vino oggi è molto di più del “Made in Italy”, molto di più dell’elenco delle “eccellenze”, come si usa dire. E’ – ripeto – civiltà e identità. Identità nazionale, storica e anche religiosa. Ha a che fare con il sacro.
Come ha scritto il grande Benedetto XVI: “Il vino esprime la squisitezza della creazione, ci dona la festa nella quale oltrepassiamo i limiti del quotidiano: il vino ‘allieta il cuore’. Così il vino e con esso la vite sono diventate immagini anche del dono dell’amore, nel quale possiamo fare qualche esperienza del sapore del divino”.