Grande intervista a Fabrice Hadjadj. Che qui espone le sue tesi “ultrasessiste” sull’unione fra l’uomo e la donna, il senso divino della nascita, l’essere padri, madri e figli
di Rodolfo Casadei
Il secondo tempo del Sinodo straordinario sulla famiglia si giocherà fra il 4 e il 25 ottobre dell’anno prossimo, quando l’argomento sarà ripreso dal Sinodo ordinario sotto il titolo “La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo”. E visto come è andata la prima metà della partita, sarà meglio allenarsi di più e prepararsi a dare ciascuno il proprio contributo al gioco di squadra. Molto utile a questo proposito può rivelarsi la lettura approfondita di Qu’est-ce qu’une famille?, l’ultimo libro scritto da Fabrice Hadjadj (foto a destra, Meeting Rimini), il pensatore cattolico francese direttore della Fondazione Anthropos a Losanna.
Autore sempre geniale, sorprendente e provocatorio, come anche stavolta si evince sin dal sottotitolo, che suona così: suivi de La Transcendance en culottes et autres propos ultra-sexistes. Cioè “risultato de La Trascendenza nelle mutande e altre proposizioni ultrasessiste”.
La famiglia per Hadjadj è a livello umano quello che a livello cosmico è l’acqua per Talete o l’aria per Anassimandro: il principio anteriore a tutto il resto, il fondamento che non può essere spiegato proprio perché è un fondamento. Solo se ne può prendere atto, constatando che a dargli forma è la differenza sessuale che si manifesta come attrazione fra l’uomo e la donna.
La famiglia è anzitutto natura, ma sempre ordinata e presa in mano dalla cultura. Perché il nascere, proprio di ogni forma naturale, presso gli umani è sempre circondato da un “far nascere”. E dal far nascere della levatrice alla maieutica di Socrate (non a caso figlio di una levatrice), che aiuta a far nascere la verità che è dentro ad ogni uomo, il passo è breve e necessario.
Nel libro, di cui si attende presto una traduzione in lingua italiana, Hadjadj individua principalmente tre nemici della famiglia nelle società occidentali: le ultime tecnologie elettroniche, la trasformazione della procreazione in produzione ingegneristica di esseri umani, e le derive fallocentriche (proprio così) della maggior parte dei femminismi odierni. Su questi argomenti Tempi lo ha intervistato.
Il suo libro è apparso alla vigilia del Sinodo dei vescovi sulla famiglia. Le pare che i lavori e il documento finale del Sinodo riflettano alcune delle sue preoccupazioni?
Il problema di un Sinodo è che deve parlare per la Chiesa universale, mentre le situazioni che la famiglia vive possono essere molto differenti da un paese all’altro, addirittura radicalmente opposte. Per quello che mi riguarda, si tratta di pensare quello che succede alla famiglia nelle società post-industriali, contrassegnate dall’economia liberale.
La Relatio Synodi, nella sua diagnosi si accontenta di evocare una volta di più l’«individualismo» e l’«edonismo», mentre i dibattiti si sono cristallizzati attorno alla questione dei «divorziati risposati» o alla benedizione delle persone omosessuali. In questo modo mi sembra si manchi completamente ciò che è assolutamente proprio della nostra epoca, intendo dire la rivoluzione antropologica che si sta operando: il passaggio dalla famiglia all’azienda, e dalla nascita alla fabbricazione – o se preferite dal concepimento oscuro nel ventre di una madre, al concepimento trasparente nello spirito dell’ingegnere…
La famiglia è attaccata sul piano ideologico fin dagli inizi del cristianesimo. Per esempio dagli gnostici. Ma oggi l’attacco è più radicale: esso non proviene tanto dall’ideologia, quanto dal dispositivo tecnologico. Non è più questione di teoria, ma di pratica, di mezzi efficaci per produrre al di fuori dei rapporti sessuali degli individui più adatti, più performanti.
Lei oppone la tavola in legno, attorno alla quale si riunisce la famiglia, al tablet elettronico, che ne separa e isola i membri, e la sua conclusione è che la tecnologia ha fatto collassare la famiglia e che assistiamo alla sua «distruzione tecnologica». Siamo davanti al più grande nemico della famiglia?
Qual è il luogo dove si tesse il tessuto familiare? Qual è il luogo dove le generazioni si incontrano, conversano, talvolta litigano e tuttavia, attraverso l’atto molto primitivo di mangiare insieme, continuano a condividere e ad essere in comunione? Questo luogo è tradizionalmente la tavola. Oggi invece sempre di più ciascuno mangia davanti alla porta del frigorifero per tornare più rapidamente al proprio schermo individuale.
Non si tratta nemmeno più di individualismo, ma di «dividualismo», perché su quello schermo ciascuno apre più finestre e si divide, si frammenta, si disperde, perde il suo volto per diventare una moltitudine di «profili», perde la sua filiazione per avere un «prefisso». La tavola implica il raggrupparsi, entro una trasmissione genealogica e carnale. Il tablet implica la disgregazione, entro un divertimento tecnologico e disincarnato.
D’altra parte l’innovazione tecnologica fa sì che ciò che è più recente sia migliore di ciò che è antico, e dunque distrugge il carattere venerabile di ciò che è antico e dell’esperienza. Se la tavola scompare, è anche perché l’adolescente diventa capofamiglia: è lui che sa maneggiare meglio gli ultimi gadget elettronici, e né il nonno né il papà hanno niente da insegnargli.
Lei scrive, molto provocatoriamente, che se davvero pensiamo che tutto ciò di cui hanno bisogno i figli siano l’amore e l’educazione, allora non soltanto una coppia di persone dello stesso sesso può assolvere alla bisogna, ma pure un orfanotrofio di qualità. Se l’essenziale sono l’amore e l’educazione, non è detto che una famiglia sia necessariamente il posto migliore per un bambino. Allora perché la famiglia padre-madre merita di essere privilegiata?
È la questione posta nel Mondo nuovo di Aldous Huxley: se avete un figlio per la via sessuale, è semplicemente perché siete andati a letto con una donna. Ciò non offre garanzie sulle vostre qualità riproduttive né sulle vostre competenze di educatore. Ecco perché sarebbe meglio, per il benessere del nuovo essere creato, che sia messo a punto dentro a un’incubatrice ed educato da degli specialisti. Questa argomentazione è molto forte.
Fino a quando i cristiani continueranno a definire la famiglia come il luogo dell’educazione e dell’amore, essi non la contraddiranno, daranno anzi delle armi ai loro avversari, che potranno concludere che due uomini capaci di affetto e specializzati in pedagogia sono molto più adatti di un padre e di una madre. Ma il problema è che è ancora il primato del tecnologico sul genealogico che presiede a questa idea e ci spinge a sostituire la madre con la matrice e il padre con l’esperto.
Dietro a tutto questo c’è l’errore di cercare il bene del bambino e di non considerare più il suo essere. Ora, l’essere del bambino è di essere il figlio o la figlia di un uomo e di una donna, attraverso l’unione sessuale. Attraverso questa unione, il bambino arriva come un sovrappiù dell’amore: non è il prodotto di un fantasma né il risultato di un progetto, ma un’altra persona che sorge, singolare, incalcolabile, che supera i nostri piani.
Quanto al padre, dal semplice fatto che ha trasmesso la vita riceve un’autorità senza competenza, e ciò è molto meglio di qualunque competenza professionale. Perché il padre è anzitutto là per manifestare al bambino il fatto che esistere è cosa buona, mentre gli esperti sono là per mostrare che è cosa buona riuscire. E poi la sua autorità senza competenza lo spinge a riconoscere davanti al bambino che lui non è il Padre assoluto, e dunque a rivolgersi insieme al suo bambino verso questo Padre dal quale ogni paternità trae il suo nome.
L’altra causa di distruzione della famiglia che lei cita è il rifiuto della nascita come nascita, cioè come qualcosa di naturale e imprevisto. Chi è favorevole alla tecnologizzazione della nascita dice che bisogna vigilare per un’utilizzazione delle biotecnologie vantaggiosa per il bambino che deve nascere, ma che comunque queste tecniche sono buone. Che cosa risponderebbe loro?
Se le biotecnologie vengono utilizzate per accompagnare o restaurare una fertilità naturale, sono favorevole ad esse: è il senso stesso della medicina. Ma se consistono nel farci entrare in una produzione artificiale, non si tratta più di medicina, ma di ingegneria. Quel che allora succede, è che il bambino diventa un diritto che viene rivendicato, e non più un dono di cui ci si sente indegni.
A partire da ciò, voi potete immaginare le influenze che subirà. Ma la cosa più grave sta in un altro fatto, in quella che chiamerei la confusione fra novità e innovazione. Se il nuovo nato rinnova il mondo, è perché egli in qualche modo viene fuori preistorico: non ci sono differenze fondamentali fra il bebè dell’italiano di oggi e quello dell’uomo delle caverne. È sempre un piccolo primitivo, un piccolo selvaggio che sbarca nella famiglia, e che porta con sé un inizio assoluto, la promessa rinnovata dell’aurora.
Se in futuro la nascita sarà misurata sul metro dell’innovazione, se si fabbricheranno principalmente dei bebè transumani, essi saranno vecchi già prima di nascere, perché riproporranno la logica del progresso e quindi anche della fatale obsolescenza degli oggetti tecnici. Corrisponderanno agli obiettivi di chi li commissiona, alle attese della loro società. Ci ritroviamo di fronte a un’inversione delle formule del Credo: si vuole un essere che sia «nato dal secolo prima di tutti i padri, creato e non generato».
Lei scrive: «Grazie alla tecnologia, la dominazione fallica è assicurata principalmente da donne isteriche prodotto di uomini castrati». Cosa intendete dire?
Il proprio del femminile, nella maternità, è di accogliere dentro di sé un processo oscuro, quello della vita che si dona da sé. Creare degli uteri artificiali può apparire come un’emancipazione della donna, ma in realtà è una confisca dei poteri che le sono più propri. Da una parte per far sì che la donna, non essendo più madre, diventi un’impiegata o una padrona (come se fosse una liberazione); dall’altra perché il processo vitale oscuro diventi una procedura tecnica trasparente, quella di un lavoro esterno e controllato, che è ciò a cui si limita l’operazione dell’uomo, che non ha un utero e fabbrica con le proprie mani.
Ed eccoci di fronte al paradosso della maggior parte dei femminismi: essi non sono che un machismo della donna, un rivendicare l’eguaglianza ma sulla scala dei valori maschili, un volere una promozione in pieno accordo con la visione fallica del mondo. Perché la fecondazione e la gestazione in vitro sono quanto di più prossimo ci sia a un dominio fallico sulla fecondità: non avere più bisogno del femminile, fare entrare la procreazione nel gioco della fabbricazione, della trasparenza e della concorrenza.
Come ho già parlato di un’inversione del Credo, potrei parlare in questo caso di una Contro-Annunciazione. Nell’Annunciazione evangelica, Maria accetta una gravidanza che la supera due volte, dal punto di vista naturale e da quello sovrannaturale. Nella Contro-Annunciazione tecnologica, la donna rifiuta ogni gravidanza, ed esige che la procreazione sia una pianificazione integrale, che non la supera più, ma s’inserisce nel suo progetto di carriera.
Lei è d’accordo con Chesterton che la famiglia è «l’istituzione anarchica per eccellenza». Che cosa significa? La famiglia ancora oggi è accusata di autoritarismo, o di essere un residuo dell’epoca del potere patriarcale.
La famiglia è un’istituzione anarchica nel senso che è anteriore allo Stato, al diritto e al mercato. Dipende dalla natura prima di essere ordinata dalla cultura, poichè naturalmente l’uomo nasce dall’unione di un uomo e di una donna. In poche parole, ha il suo fondamento nelle nostre mutande.
È qualcosa di animale – il maschio e la femmina – e nello stesso tempo noi crediamo che questa animalità sia molto spirituale, di una spiritualità divina, iscritta nella carne: «Dio creò l’uomo a sua immagine, maschio e femmina li creò». C’è qualcosa che è donato, e non costruito. Tanto che anche il patriarca, come si vede nella Bibbia, è sempre sorpreso e pure esasperato dai suoi figli.
Pensate alla storia di Giacobbe. Pensate a Giuseppe, il padre di Gesù. Non si può certo dire che tengono sotto controllo la situazione. L’autorità del padre si trasforma in autoritarismo quando finge di avere tutto sotto controllo e di essere perfettamente competente. Ma come ho detto prima, la sua vera e più profonda autorità sta nel riconoscere che non è all’altezza, e che è obbligato a volgersi verso il Padre eterno.