Un progetto educativo non è, non può essere, un progetto tecnico; è un processo di generazione di una persona e quindi sempre esposto al rischio della libertà che ciascuno di noi è». Lo sostiene il prof. Sergio Belardinelli, ordinario di Sociologia del processi culturali nell’Università di Bologna, in questo intervento netto e appassionante. «È sbagliato trasformare l’educazione in un protocollo da seguire»: pertanto, non si può educare in assenza di un modello antropologico; ciò che conta, infatti, è una «relazione educativa» che non eluda la trasmissione di comportamenti e di valori che compongono una tradizione
Sergio Belardinelli
La debole società ipotetica
Viviamo, come è noto, in una società «ipotetica», orgogliosa della propria «debolezza» normativa e intellettuale. La libertà di ciascuno di orientare a piacimento la propria vita è diventata una sorta di dogma da far valere in ogni ambito della vita individuale e sociale, quindi anche nelle istituzioni educative, le quali, proprio per questo – si pensi alla famiglia e alla scuola -, sono finite per navigare a vista, senza una rotta precisa, né un obiettivo sociale da raggiungere.
La maggiore libertà di cui tutti godiamo, i grandi mezzi di comunicazione di cui disponiamo avrebbero richiesto soprattutto maggiore responsabilità da parte di tutti i soggetti coinvolti nei diversi processi educativi. Invece abbiamo abdicato proprio su questo punto, generando una situazione paradossale e drammatica. Mai come oggi l’educazione è stata tanto necessaria, visto che, essendo tutti più liberi e più bombardati da tante «informazioni», siamo anche più esposti, specialmente i ragazzi e i giovani, al rischio di non venire a capo della nostra vita; e mai come oggi l’educazione è stata un bene tanto scarso.
In questi anni abbiamo parlato molto di amicizia tra genitori e figli e tra maestri e allievi, molto di tecniche educative, ma troppo poco di educazione, ossia di responsabilità, serietà, doveri (anche da parte dei figli e degli allievi); abbiamo parlato troppo poco di bellezza, di passione, di questioni sostanziali collegate ai valori, alle convinzioni, alle tradizioni culturali dei popoli, senza accorgerci che in questo modo stavamo semplicemente fuggendo da noi stessi.
E oggi lo scontiamo in termini di spaesamento, sradicamento, disagio sempre più profondo sia da parte degli adulti sia dei giovani: i primi sempre più impauriti di fronte alle loro responsabilità, sempre più accondiscendenti e incapaci di testimoniare alcunché; i secondi sempre più esigenti, capricciosi e incapaci persine di mostrare esplicitamente la loro rabbia.
Ci siamo erroneamente illusi che l’educazione potesse essere una materia da «esperti», dimenticando così le poche e semplici evidenze elementari su cui, da sempre, si fondano tutte le vere relazioni educative: convinzioni profonde, amore, esempio e, soprattutto, nessuna pretesa di essere padroni della situazione. Un progetto educativo non è, non può essere, un progetto tecnico; è un processo di generazione di una persona e quindi sempre esposto al rischio della liberta che ciascuno di noi è.
«La vita è ciò che accade mentre stai facendo altro», cantava John Lennon. Non sono sicuro che avesse ragione. Ma certamente ci sono buone ragioni per pensare che la cosa valga per l’educazione. Davvero questa accade mentre stiamo facendo altro. Se ci pensiamo bene, le persone che hanno influito di più sulla nostra vita, lo hanno fatto grazie a ciò che, con l’esempio, con la parola, con uno sguardo, ci hanno insegnato implicitamente, non esplicitamente. Per questo è estremamente difficile e sbagliato trasformare l’educazione in un protocollo da seguire
La posta in gioco
Elusa la questione del significato vero dell’educare, di fatto abbiamo eluso anche la vera posta che è in gioco nell’educazione: un ideale di umanità, un ideale antropologico, tutta una tradizione, una storia, che ci interpellano e di cui dobbiamo farci carico, ognuno con la nostra libertà. Anziché puntare alla formazione della persona, ci siamo affidati alle metodologie, ai «saperi» da trasmettere, alla neutralità delle nozioni e dei valori insegnati, generando così disinteresse psicologico e relativismo ideologico, ma nessuna vera formazione.
Non è casuale che in questo processo siano andati in crisi sia la funzione educativa della famiglia sia il significato della tradizione, sia la figura del «maestro» chiamato ad attualizzarla con intelligenza, partecipazione e passione. Quanto ai nostri figli, essi non solo non sanno più nulla di storia, ma non conoscono più nemmeno il passato delle loro famiglie, il nome dei loro nonni. È venuto meno, insomma, il senso di appartenenza a una catena generazionale e, con esso, il carattere «generativo» dell’educazione, vera chiave di volta di ogni proposta educativa degna del nome.
Se fino a ieri sembrava quasi scontato che una generazione dovesse farsi carico dell’educazione dei «nuovi venuti», secondo la tradizione ereditata dai padri, oggi, chi più chi meno, tutti costatiamo la dissoluzione di questa sorta di automatismo. La parola «tradizione» è diventata non a caso sospetta, sinonimo quasi di vecchiezza e di incapacità di far fronte ai nuovi problemi; una parola di quelle che suscitano reazioni emotive sfavorevoli. Quanto alla scuola, dopo la sua fase di politicizzazione più estrema e più vandalica proprio nei riguardi della tradizione, essa sembra aver accantonato qualsiasi pretesa di essere un luogo educativo al servizio dei valori fondamentali della comunità e galleggia ormai affannosamente in un mare di incertezze.
Prive di riferimenti normativi e culturali forti, le nostre istituzioni educative si sono fatte sempre più autoreferenziali, sempre più invischiate in problemi che sono esse stesse a creare, in una sorta di continuo cortocircuito con la realtà. Vengono moltiplicate le discipline di studio e, contemporaneamente, si registra una diffusa perdita di senso dello studio stesso; si dice che i ragazzi, studiando, debbono soprattutto divertirsi, e poi ci si sorprende che essi, alla scuola, preferiscano altri divertimenti; si parla tanto, e giustamente, di una sorta di orgia dell’informazione nella quale tutti saremmo immersi, ma la scuola, anziché fornire gli strumenti adatti a districarsi in quest’orgia, sembra farsene semplice cassa di risonanza; in nome di un malinteso pluralismo si eludono le questioni sostanziali collegate ai valori, alle convinzioni, alle tradizioni culturali dei popoli e poi ci si sorprende che i giovani non diventano per questo più aperti all’«altro», ma semplicemente più spaesati, più sradicati e quindi più esposti al rischio di nuovi fanatismi.
La scuola, si dice, deve servire a introdurre i giovani nel mondo del lavoro; ma poi, almeno in Italia, dobbiamo registrare un’incomprensibile avversione per le cosiddette «scuole professionali»; l’introduzione delle nuove tecnologie multimediali viene presentata sovente come la nuova frontiera dell’educazione, ma in realtà sembra accentuare soltanto il disorientamento che pervade i nostri sistemi educativi, sempre più improntati a una preoccupante superficialità. Per farla breve, tutto sembra configurarsi come una sorta di alibi per eludere la questione cruciale: che cosa significa educare?
«Educare l’uomo», recita uno dei tanti aforismi di Nicolàs Gómes Davila, «è impedirgli la libera espressione della sua personalità». Ecco una bella provocazione per gran parte della pedagogia contemporanea. Non si tratta infatti di ribadire, magari contro Rousseau, il senso di una educazione autoritaria. Ormai credo che un salutare antiautoritarismo sia stato digerito pressoché da tutti. Si tratta piuttosto di non dimenticare la realtà, di non dimenticare che non rimarremo per sempre bambini e che la nostra riuscita nella vita, la nostra felicità dipenderanno soprattutto dalla «coscienza» che avremo acquisito della realtà e di noi stessi e dalla nostra capacità di vivere in armonia con entrambi, senza velleitarismi, abdicazioni o risentimenti.
Tradizione, fiducia nel futuro
Lasciati a loro stessi, come aveva ben intuito Durkheim, gli uomini sono destinati a cadere vittime dei loro desideri senza fine. Proprio per questo ci vuole l’educazione e ci vogliono maestri capaci di insegnare. Ma è difficile avere l’una e gli altri se non c’è un patrimonio di valori e di saperi, diciamo pure, una tradizione, ritenuta degna di essere tramandata, per la quale, essendo considerata appunto un «bene», è giusto esigere rigore, fatica, disciplina e, incredibile dictu, fiducia nel futuro.
Proprio così: fiducia nel futuro. Il principio vitale della tradizione, infatti, non è tanto e non è solo il passato, la memoria, ma la capacità di assicurare continuità alle nostre vite, predisponendole al futuro. Invece, disamorati come siamo della nostra tradizione, sempre più sfiduciati nel nostro futuro, ci siamo ormai assuefatti all’idea che a scuola non si debba mai chiedere a qualcuno di imparare qualcosa di difficile. Qualsiasi proposta educativa incentrata sulla «qualità» viene non a caso liquidata come intrinsecamente «elitaria». Ma in questo modo, come ha denunciato Christopher Lasch, ci allontaniamo sempre di più dal senso stesso dell’educazione.
Anziché indirizzare l’attenzione dello studente verso quello che all’inizio egli può forse faticare a capire, ma il cui fascino potrebbe anche afferrarlo, si preferisce ricorrere, tranne in rarissimi casi privilegiati, alla semplificazione, al livellamento, all’annacquamento, ossia ad atteggiamenti che George Steiner, in una pagina memorabile della sua autobiografia intellettuale, definisce non a caso «criminali» e dietro i quali vede nascondersi una «condiscendenza volgare» verso gli studenti stessi, giudicati a priori incapaci di migliorarsi.
Sembra, insomma, non esserci più posto per una vera e propria «formazione», cioè per quel processo attraverso il quale, con impegno e rigore, l’individuo assimila criticamente un determinato universo di valori, non soltanto direttamente in certe discipline specifiche, poniamo la filosofia o la religione, ma anche indirettamente in tutte le altre discipline: dall’aritmetica alla grammatica, dalla storia alla geografia e perfino in quelle che una volta si chiamavano «applicazioni tecniche». Per dirla ancora con le parole di Christopher Lasch, qualsiasi tentativo di avvicinare qualcuno a un determinato orizzonte di valori rischia oggi di venire considerato come un «attentato alla sua libertà di scelta».
Ma proprio se abbiamo a cuore questa libertà, checché ne dicano tanti postmoderni, occorre invertire la rotta. Essa non si conquista infatti con la «neutralità etica», né rinunciando alla formazione a vantaggio della semplice comunicazione di saperi. La Bildung è molto di più che un «sapere» o una semplice «competenza». Meno che mai essa può essere ridotta a informazione.
Direi, anzi, che oggi uno dei sui compiti principali sia proprio quello di salvarci dall’informazione, di aiutarci a resistere all’enorme flusso di informazioni dal quale siamo sopraffatti. Ma per far questo, per svolgere questa fondamentale funzione al servizio della libertà e della irripetibile unicità di ciascun individuo, la Bildung ha bisogno di tornare a radicarsi saldamente nella nostra tradizione; ha bisogno di tornare a essere veramente una «relazione educativa». E tutto ciò semplicemente per aiutare l’uomo a essere sé stesso.
Come disse Hannah Arendt, «la scuola deve essere conservatrice per preservare quanto c’è di rivoluzionario e di nuovo in ogni bambino». A differenza degli altri animali, gli uomini hanno bisogno di molto tempo per «trovarsi», per imparare a dire «io», per condurre una vita all’insegna dell’autonomia, della libertà e della responsabilità; hanno bisogno di relazioni significative con altre persone che li amino e, amandoli, sappiano schiudere loro la bellezza del mondo e della vita. Ciò che siamo, lo ripeto, dipende in primo luogo dalle persone che ci hanno amato e dall’educazione che abbiamo ricevuto. Ma proprio per questo mi sembra importante non dimenticare mai il significato di una vera relazione educativa.
Identità & convinzioni forti
Quando Hannah Arendt esorta la scuola a essere conservatrice, non vuoi dire che la scuola deve tornare alle chiusure, agli autoritarismi e agli schematismi del passato; ci mette semplicemente in guardia dal rischio che la scuola si faccia troppo «sperimentale» e che, in questo modo, essa possa contribuire a creare sradicamento, mancanza di senso di ciò che si insegna e si fa. Può sembrare banale, ma ciò che contraddistingue un qualsiasi «esperimento» è la possibilità che esso fallisca. Quando si fanno esperimenti bisogna sempre mettere in conto il fallimento.
La scienza, si sa, impara proprio dai suoi errori; cresce addirittura grazie a questi. Ma non è così quando si parla di educazione. Un esperimento educativo fallito è una catastrofe senza compensi. La scienza pedagogica potrebbe traine certo qualche insegnamento, ma per il bambino che ne ha fatto le spese è una perdita secca, una perdita irrimediabile, visto che non avrà più la possibilità di ripeterlo, di ritornare a scuola in un altro modo. È per preservare ciò che di «rivoluzionario» c’è in ogni bambino, diciamo pure la sua «novità», la sua capacità di trasformare il mondo nel quale arriva, che la scuola deve essere «conservatrice».
La nostra vita quotidiana, specialmente oggi, ci costringe a fare continuamente «esperimenti» d’ogni tipo. La maggiore libertà che ci siamo conquistati rende la vita individuale e sociale sempre più rischiose. Ma proprio per questo è diventata tanto importante l’educazione. Sono precisamente coloro che hanno avuto la fortuna di sperimentare autentiche relazioni educative ad avere maggiori possibilità di riuscita nelle nostre società complesse, trasformando gli «esperimenti» sociali quotidiani in opportunità di vita autonoma e libera; sono precisamente coloro che sentono di appartenere a una storia, a una trama generazionale, ad avere, non sembri paradossale, maggiori capacità di sfruttare al meglio le grandi opportunità del nostro tempo; sono coloro che hanno acquisito coscienza di sé, del proprio «io», a essere più capaci di incontrare e dialogare con gli altri.
A differenza di quanto sostiene un autore come Ulrich Beck, non credo che alla base della nostra capacità inclusiva nei confronti degli altri debba stare la «virtù della mancanza dell’orientamento». Che le nostre vite siano diventate sempre più «policentriche», che cioè si debba vivere perennemente «in viaggio in molti mondi (in senso proprio e figurato)», oppure che si debba sviluppare «una cultura della disponibilità al rischio e alla creatività»; tutto questo possiamo anche assumerlo come un dato di fatto incontestabile, e Beck fa senz’altro bene a rimarcarlo, purché non significhi, però, che le nostre identità debbono diventare sempre più labili, mobili, flessibili e, in ultimo, indifferenziate.
La flessibilità, la mobilità, la disponibilità al rischio e alla creatività sono infatti risorse di valore inestimabile per gli individui e per le società; ma, lo ripeto, solo chi ha un’identità, ossia convinzioni forti, riesce a sfruttarle a pieno senza disorientarsi; riesce a operare quelle «distinzioni inclusive» che per Beck sono il tratto di una capacità interculturale all’altezza dei tempi, senza scadere in uno sterile e vuoto indifferentismo.
Il disorientamento non produce apertura; può produrre tutt’al più timore, incapacità di comprendere veramente sia ciò che è «altro» sia ciò che ci è proprio e famigliare, preparando così il terreno ideale per la chiusura e l’intolleranza. Tanto più avremo invece consapevolezza della nostra identità, tanto più ci sarà facile dialogare autenticamente con tutti, praticare cioè quell’«universalismo-sensibile-alle-differenze» di cui parla Habermas, capace di includere l’altro, salvaguardandone contemporaneamente la diversità.
Se ci pensiamo bene, e concludo, anche questa nostra capacità inclusiva dipende dall’educazione. A conferma che questione educativa e questione antropologica sono quasi un tutt’uno.