Il Timone n. 138 Dicembre 2014
L’inquinamento aumenta? È il contrario. Ci sono sempre più poveri? Non ce ne sono mai stati meno. Contrariamente a quanto viene detto e percepito, le condizioni umane e ambientali sono in costante miglioramento. Disponibilità economiche e conoscenze scientifiche la chiave del successo
di Francesco Ramella
Nell’ormai lontano 1983, l’ONU incaricò la Commissione Mondiale per l’Ambiente e lo Sviluppo di stendere un rapporto sulle tematiche ambientali. La Commissione completò i suoi lavori nel 1987 con la presentazione del “Rapporto Bruntland” (“Our common future”, il nostro futuro comune), dal nome dell’ex primo ministro norvegese che presiedeva la Commissione.
Al rapporto Bruntland si deve una delle prime, e forse la più nota, definizione di sviluppo sostenibile ossia quello che «soddisfa i bisogni del presente senza compromettere le capacità delle generazioni future di soddisfare i propri e i cui obiettivi devono essere definiti in termini di sostenibilità in tutti i Paesi, sviluppati o in via di sviluppo che siano, a economia di mercato o a pianificazione centralizzata».
Tale principio in sé non desta particolari perplessità (anche se molto ci sarebbe da dire sulle teorie che l’accompagnano). E non sarebbe stata I una cattiva idea se coloro che hanno avuto la responsabilità di governo i nel nostro Paese negli ultimi cinquanta anni, lo avessero adottato come riferimento.
Così, purtroppo, non è stato e i “bisogni del presente” sono stati spesso soddisfatti senza che fosse tenuta in alcuna considerazione “la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri”: abbiamo via via accumulato un debito pubblico (e ancor più pensionistico) crescente che già oggi compromette in misura non trascurabile le prospettive di crescita dell’Italia e quelle di occupazione per i più giovani. Un ottimo esempio di crescita non sostenibile.
Ma, se dall’Italia allarghiamo lo sguardo al mondo quale giudizio possiamo dare? Lasceremo ai nostri figli un mondo migliore di quello che abbiamo preso in prestito oppure no?
Un pessimismo ingiustificato
La visione largamente maggioritaria è improntata ad un radicale pessimismo, in particolare con riferimento alle ricadute negative sull’ambiente che la crescita economica avrebbe già avuto fino ad oggi e che sarebbero destinate ad aggravarsi ulteriormente in futuro, a meno che non si apportino fin da subito radicali modifiche al funzionamento dell’attuale modello di sviluppo. La nota attivista americana Naomi Klein ha da poco pubblicato un volume nel quale sostiene che l’unica strada per salvare la Terra è quella di abbandonare il capitalismo.
A ben guardare, però, sia la diagnosi che la terapia proposta non sembrano essere per nulla convincenti. Innanzitutto uno sguardo al passato. Durante i centocinquanta anni che abbiamo alle spalle, si è verificato un miglioramento delle condizioni di benessere senza precedenti nella storia dell’umanità: la speranza di vita media è passata da poco meno di ventotto anni a quasi settanta, la mortalità infantile si è ridotta del 75% circa (da più di 200 a 50 morti per 1000 nati, con miglioramenti ancor più marcati nei Paesi più ricchi), la ricchezza procapite è cresciuta di più di 10 volte, da circa 600 a più di 7000 dollari in termini reali. E da 800 milioni che eravamo ci siamo “moltiplicati” fino a oltre 7 miliardi di abitanti.
In base ai dati forniti dalla Banca Mondiale, la percentuale di persone che vive in condizioni di povertà assoluta, ossia con un reddito giornaliero inferiore a 1,25 dollari, è diminuita dal 52% nel 1980 al 43% nel 1990, al 34% nel 1999 ed al 21% nel 2010. La situazione è migliorata anche nell’Africa subsahariana, dove negli ultimi dieci anni le persone che vivono in condizioni di deprivazione assoluta sono diminuite dal 58% al 49%. Evidentemente ancora troppe, ma molte meno rispetto al passato.
Nel 2014 le riserve di cereali raggiungeranno il livello mai raggiunto finora di quasi 630 milioni di tonnellate, e la produzione complessiva si attesterà a 2.300 milioni di tonnellate, in crescita di quasi il 10% rispetto al 2004.
Una errata percezione della realtà
E si potrebbe continuare a lungo, menzionando la percentuale crescente di persone che dispongono di acqua potabile o quella, in calo, del ricorso al lavoro minorile. Ma fermiamoci qui e chiediamoci: potrà questo miglioramento proseguire nei prossimi decenni oppure l’ambiente nel quale viviamo ci farà pagare prezzi sempre più alti per averlo “maltrattato”?
È necessario al riguardo fare alcune precisazioni. La prima riguarda la relazione che sussiste fra crescita economica e impatto ambientale: più sviluppo comporta necessariamente un degrado del Creato? No. Vi è abitualmente una fase iniziale di industrializzazione, quella che noi abbiamo vissuto indicativamente a cavallo tra l’800 ed il ‘900 e che è ora in atto in Cina, India ed altri Paesi dell’emisfero meridionale, nel corso della quale si assiste ad un peggioramento di molti parametri ambientali. Il più evidente è la qualità dell’aria che, in particolare in ambito urbano, si deteriora a causa delle emissioni delle industrie e degli impianti di riscaldamento.
È però esperienza comune a tutti i Paesi che, raggiunto un certo livello di benessere, vengano attuati provvedimenti volti a limitare le conseguenze negative delle attività umane; di conseguenza la tendenza al peggioramento si inverte. In molti casi non vi è però consapevolezza di tale miglioramento.
Qualche anno addietro è stato condotto un sondaggio in quattro Paesi europei: Francia, Gran Bretagna, Olanda e Germania. Si è chiesto agli intervistati quale opinione avessero in merito all’evoluzione dell’inquinamento atmosferico. Oltre la metà del campione in Germania e in Olanda ha risposto di ritenere che l’inquinamento atmosferico stia peggiorando; la stessa opinione è risultata essere condivisa dal 90% dei cittadini francesi e di quelli britannici; tra di questi, poi, ben il 60% si è detto convinto che l’inquinamento atmosferico “aumenta molto”.
Informazione distorta
I risultati del sondaggio non stupiscono se si considera il tipo di informazione che viene abitualmente diffusa sul tema. La realtà è però assai diversa. Grazie agli sforzi compiuti in tutti i settori, dall’industria agli impianti di riscaldamento, al traffico, la qualità dell’aria nelle nostre città è oggi assai migliore rispetto al passato. In una città come Milano, ad esempio, la concentrazione delle famigerate polveri sottili è diminuita di quasi i 2/3 dal 1970 in poi.
E la situazione è destinata a migliorare ulteriormente in futuro grazie all’ulteriore innovazione tecnologica di veicoli ed impianti. Il secondo aspetto da tenere in considerazione è che la protezione della natura non può essere disgiunta dalla protezione dalla natura che, a differenza di quanto molti sembrano pensare, non è affatto benevola nei nostri confronti.
Pensiamo all’effetto serra e ai cambiamenti climatici, lo spauracchio più grande per il futuro. Una delle conseguenze più temute dell’aumento di temperatura della Terra è un intensificarsi dei fenomeni estremi: alluvioni, trombe d’aria, cicloni, tornado e uragani. Ora, stando ai dati ufficiali, fino ad oggi a livello mondiale tale maggiore frequenza non si è verificata.
Non è escluso che questo possa accadere nei prossimi decenni. Il punto fondamentale è però un altro, ossia come si evolve la capacità degli uomini di prevedere e di difendersi da tali fenomeni. A questo riguardo, non vi è dubbio che nel corso degli ultimi cento anni si sia assistito a un progresso che ha comportato una graduale diminuzione del numero totale di vittime.
Analogamente a quanto accade nel caso di un terremoto che, a parità di intensità, comporta un numero di vittime assai superiore in India piuttosto che in Giappone, così un identico uragano miete molte più vittime ad Haiti che negli Stati Uniti. O ancora: l’effetto di un’ondata eccezionale di calore che può essere letale soprattutto per persone che già si trovino in precarie condizioni di salute può essere molto attenuato, se non annullato, laddove vi sia la possibilità di utilizzare impianti di condizionamento.
Energie rinnovabili, che abbaglio
Disponibilità di risorse economiche e maggiori conoscenze scientifiche sono fattori di gran lunga più importanti per il benessere delle persone che non un aumento limitato della temperatura, un più elevato numero di piogge intense o, al contrario, maggiore siccità: Norvegia e Israele sono Paesi caratterizzati da climi assai diversi ma godono di analoghi livelli di benessere; viceversa, in Israele il tenore di vita e la possibilità di far fronte alle avversità meteorologiche sono molto maggiori rispetto ai Paesi arabi circostanti.
È questo il motivo per cui gli interventi volti alla riduzione delle emissioni di anidride carbonica (il principale gas serra) dovrebbero essere attuati solo a seguito di una attenta valutazione dei relativi costi e benefici. Se i primi eccedono i secondi, come avviene ad esempio nel caso dei sussidi alle energie rinnovabili, tali politiche risultano essere controproducenti non diversamente dall’assunzione di un farmaco i cui effetti collaterali siano più importanti rispetto ai benefici attesi.
A livello mondiale l’energia solare e quella eolica ricevono attualmente risorse pubbliche pari a circa 60 miliardi di dollari a fronte di benefici dell’ordine di soli 1,4 miliardi. Complessivamente, il sussidio alle rinnovabili determina un impoverimento di oltre 58 miliardi. Con quei soldi si sarebbero potuti costruire strade, ospedali, scuole apportando quindi un miglioramento delle condizioni di vita assai più significativo rispetto a quello che deriverà da un minuscolo impatto sul clima. La prudenza, a volte, può essere troppa.