La conversione inaspettata di Rosaria Butterfield, uno scontro frontale con Dio che non le ha fatto semplicemente cambiare opinione o cambiare identità sessuale. L’ha messa da capo e senza schemi ideologici di fronte alla domanda: chi sono?
di Annalisa Teggi
«La parola Gesù era come una zanna di elefante piantata in gola. Per quanto soffocassi, non potevo tirarla via» – Rosaria Butterfield I titoli devono attirare l’attenzione e gridare la parte «succosa» di un contenuto. Oggi mi trovo a dover subito puntare il dito contro il titolo che ho scelto.
Non è scorretto, perché mette sul tavolo i dati reali della faccenda; eppure la storia di Rosaria Butterfield parla di una donna che ha capito che la via peggiore per la conoscenza di sé sia identificarsi in etichette come «atea» e «lesbica».
Lei stessa se le appuntava al petto con fierezza, finché un treno in corsa – chiamato conversione – non le ha spalancato l’ipotesi che l’io sia qualcosa di così grande che solo Dio può abbracciarlo senza ridurlo.
Quando il tema sul tavolo tocca le questioni dell’identità sessuale, sappiamo bene che ci si arrocca in fazioni contrapposte: la religione cristiana è contro gli omosessuali, il mondo LGBT è contro i cristiani. Questo è lo schema falso e fin troppo ripetuto; sia che stiamo da una parte o dall’altra della barricata, spesso vogliamo proprio chiuderci nel nostro recinto e gettare invettive al nemico.
L’unica alternativa alle barricate è la categoria dell’incontro: si può essere autentici fin nel midollo, contestare fieramente le idee altrui, testimoniare il proprio vissuto senza censure … e farlo senza considerarsi nemici. Questa non è la storia di una persona che da una trincea è passata a quella opposta, non è una pedina vinta da un giocatore e persa dall’avversario: è una donna che si è scrollata di dosso la zavorra di un pregiudizio e sta prendendo sul serio la domanda profonda sulla propria felicità e sul proprio destino.
Dovremmo riconoscere, onestamente, che questo è il campo da gioco su cui siamo tutti. “Non puoi mai sapere quale viaggio irto di pericoli abbia portato accanto a te la persona che ti siede vicino”.
Sei convinto o sei convertito?
L’americana Rosaria Butterfield ha fatto resistenza con le unghie e coi denti all’incontro con Gesù, ne racconteremo i fatti salienti. Mettiamo, però, subito a fuoco la materia scottante che l’ha dapprima bruciata e poi infuocata di bene: affidarsi a Cristo significa liberarsi delle proprie catene, mollare la presa sulla presunzione di essere padroni della conoscenza di sé.
Non puoi essere unito a Cristo se non sei convertito. Può sembrare ovvio, ma ci sono tante persone che si sentono molto convinte eppure non sono convertite. Non puoi essere unito a Cristo se non sei sinceramente convertito. E non puoi essere unito a Cristo se hai costruito la tua identità su qualcos’altro che non sia Lui, inclusa la tua sessualità.
L’unione con Cristo esige che Lui rivendichi per sé il Suo popolo e il Suo Sangue non si è mescolato coi peccati che ha sconfitto sulla croce. Questi due modi di autodefinirsi – la propria identità sessuale e l’appartenenza a Cristo – si contendono lo stesso scopo: la tua fedeltà, il tuo cuore, la tua percezione di te stesso, la tua fede.
Ridurre se stessi alla propria identità sessuale è incompatibile con Cristo. Per chi segue Cristo non esiste doppia cittadinanza: o sei Suo oppure sei il tuo orientamento sessuale. (da Caffeinated Thoughts) Non c’è dubbio che sia una voce che ci provoca a fondo. Va anche dritta al punto: la vera libertà è appartenere a Chi non riduce il mio io a tutte le etichette che ci formuliamo da soli («madre», «single», «omosessuale», «eterosessuale», eccetera).
Ripercorrere la storia di Rosaria Butterfield, che era un’attivista del mondo gay fino al momento di quello che definisce lo scontro frontale con Gesù, può aiutarci a fare un salto oltre gli steccati che ci costruiamo e che hanno come origine un fraintendimento radicale: Le persone non sono il nostro nemico, il peccato è il nostro nemico (da Crossway)
Un incontro inclassificabile
Negli anni ’90 Rosaria Butterfield era una professoressa della Syracuse University ed era una lesbica attivista per i diritti gay nella grande New York; conviveva con una compagna ed era appagata di una vita di studi, amicizie sincere e passioni anche rivolte a cause umanitarie.
Di se stessa dice: «Avevo delle domande profonde sulla vita a cui la mia formazione femminista e marxista era capace di rispondere». La religione cristiana diventò in quel periodo oggetto delle sue critiche, la riteneva responsabile del clima di odio contro le persone omosessuali come lei; si rimboccò le maniche per scrivere un libro contro la religione e per farlo si mise a leggere la Bibbia.
L’avversione nei confronti di Dio crebbe e anche la visibilità della Butterfield: le sue citazioni contro i cristiani campeggiavano sugli striscioni dei Gay Pride americani, lei ne era fiera. Cominciò a ricevere tantissime mail, da parte di chi la osannava e da parte di chi la contestava.
La mole delle lettere era così grande che decise di creare due cartelle sul suo computer per suddividere la posta a cui rispondere: da una parte i fan, dall’altra gli oppositori. Il bello arrivò leggendo una mail che non poteva essere classificata.
Questo è l’attimo in cui la categoria dell’incontro entra nella vita di Rosaria, e manda all’aria il castello dell’ideologia e la bramosia di incasellare tutto … anche se stessa. La lettera in questione arrivava da un pastore presbiteriano, Ken Smith, che le poneva delle semplici domande invitandola a parlarne assieme.
La Butterfield decise di accettare un invito a pranzo del pastore e sua moglie, in occasione del quale – con sua sorpresa – si parlò in libertà di tutto senza nessuna mira a fare proselitismo. Gli incontri conviviali si ripeterono con la stessa trama: lei andava e si sentiva accolta come da nessun’altra parte, poi tornava dagli amici della comunità gay per parlare male del pastore e di sua moglie.
Eppure nell’ospitalità ricevuta cominciò a farsi spazio la voce di Dio, in modo più forte di quello che lei si aspettava: Quando mangiavamo assieme, Ken pregava in un modo che non avevo mai sentito prima. La sua preghiera era intima. Vulnerabile. Si pentiva dei suoi peccati di fronte a me. (da Christianity Today)
Nessuna maschera, nessuna forzatura ideologica; attorno a quel tavolo l’incontro era essere se stessi fino in fondo. Nell’ospitalità reciproca accade che, al di là dei piani di ciascuno, arrivi in silenzio l’ospite inatteso: Dio.
Senza averlo messo in mezzo come imputato o come idolo, Dio si siede tra i commensali e parla in silenzio a chi vuole ascoltarlo. Il contraccolpo che la Butterfield sente si trasforma in una conversione che nessuno ha imposto e a cui lei stessa ha resistito con tutte le sue forze: Gesù è diventato reale per me, anche se non corrispondeva al mio pensiero. Quando sono arrivata a Gesù non ho smesso di sentirmi lesbica, ma ho capito che, comodo o scomodo per che fosse per me, il peccato originale ci segna e questo è stato il fulcro più profondo riguardo alla mia conversione. (Ibid)
Da quel momento in poi tutto salta per aria. Comincia per Rosaria Butterfield un confronto serrato con se stessa alla luce della presenza di Dio. E quello che accade non è un cambio di squadra o di opinione, la categoria della conversione fa piazza pulita di etichette e schemi.
E l’aspetto assai paradossale della faccenda è la scoperta di sentirsi finalmente libera grazie all’obbedienza: Ero assolutamente convinta che in ogni ambito della vita la comprensione venisse prima dell’obbedienza. E perciò esigevo che Dio mi mostrasse, seguendo i miei ragionamenti, perché l’omossessualità era un peccato. Volevo essere il giudice, non chi viene giudicato. Ma la Bibbia mi prometteva la comprensione dopo l’obbedienza.
Ho combattuto a lungo con la domanda: voglio davvero capire l’omosessualità dal punto di vista di Dio o voglio solo discutere con lui? Una notte pregai che Dio mi desse la volontà di obbedirgli prima di capire. Pregai a lungo fino allo spuntare del giorno. Quando mi guardai allo specchio ero la stessa.
Ma quando mi guardai nel cuore attraverso la lente della Bibbia cominciai a chiedermi: sono lesbica oppure ho frainteso la mia identità fino ad ora? Se la parola di Dio è più tagliente di ogni spada a doppio taglio e penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito (citazione dalla Lettera agli Ebrei – NdR), potrà anche mostrarmi la mia vera identità? Chi sono io? Chi Dio ha in mente che io sia? (Ibid)
L’individualismo contemporaneo è nemico della parola obbedienza, ritenuta una parente strettissima della schiavitù. E se, invece, la gabbia più claustrofobica ce la costruissimo da soli quando vogliamo mettere al nostro io le catene di una comprensione che tiene conto solo dei nostri idoli personali? La libertà vera è lì dove ciascuno può stare sempre spalancato di fronte alla domanda: chi sono?
Il Vangelo arriva aprendo la porta di casa
L’ospitalità è il ground zero della fede cristiana. Questo è il motto di Rosaria Butterfield, oggi. Si è sposata con un pastore presbiteriano e ha quattro figli. Il credo presbiteriano nasce in seno al calvinismo e ha posizioni molto discordanti dal cattolicesimo sui dogmi e sui sacramenti.
Al di là di ciò, resta una consonanza profonda con l’impegno che porta quotidianamente questa donna a ripetere il gesto che ha cambiato la sua vita: aprire la porta di casa a chi è in cerca di un incontro sincero. Viviamo in un mondo in cui viene detto che la Bibbia fomenta l’odio. E’ ridicolo. Non è che puoi fare piccole e infide incursioni nella vita altrui armato di perbenismo moralista e poi aspettarti di essere ringraziato.
Se vuoi fare conversazioni profonde e serie, devi aver costruito relazioni profonde e serie. Devi essere sicuro di aver instaurato una relazione autentica, prima di fare una conversazione forte. Vale coi tuoi figli, coi tuoi vicini e con chiunque altro. […] Mettiamoci in testa che quelli che abbiamo vicino stanno lottando con le faccende della loro vita.
Cosa importa che la cantina sia perfettamente a posto se lascio la porta chiusa? Nessuno se la cava alla grande, io non me la cavo alla grande. Siamo stanchi, siamo di cattivo umore e abbiamo bisogno di aiuto. Se questo è vero per noi che abbiamo il dono della compagnia dello Spirito Santo, quanto più lo è per chi non lo ha? […] Dio ci ha cercati, ci ha riuniti a tavola, ci ha avvolti nel suo manto di giustizia; si è preoccupato di noi, ci ha nutrito e ci ha dato un nome.
Questi sono i gesti che dobbiamo ripetere nella nostra vita carnale. Non è giusto lasciare la gente in una solitudine dolorosa. (Ibid)