Intervista a Miriam Zoll, che dopo aver tentato più volte, invano, di concepire un figlio attraverso la tecnica, ha deciso di raccontare in un libro la terribile verità sulle cliniche (e sul business) della fertilità.
di Benedetta Frigerio
Miriam Zoll si è sottoposta a numerosi cicli di fecondazione assistita, provando diverse tecniche, ma tutti i suoi tentativi sono falliti, compreso quello, estremo, dell’eterologa. La sua vana e dolorosa ricerca di un figlio attraverso la tecnica è durata anni, nel corso dei quali la donna è diventata un’esperta di un mondo. Un mondo del quale era diventata «dipendente, drogata». Ora che l’incubo è finito, Zoll ha deciso di raccontare in un libro (Cracked Open: Liberty, Fertility, and the Pursuit of High-Tech Babies) la verità su queste moderne “fabbriche” dei figli (o delle illusioni).
Nel volume ricorda l’ostinazione con cui ha percorso un sentiero disumano, ossessionata dalla volontà di avere un bambino. Svela i numeri sui trattamenti che «falliscono quasi sempre». Racconta le angosce nascoste dietro «la vendita di false speranze» da parte di un’industria miliardaria che ha gettato sul lastrico diverse famiglie e che «ha fini eugenetici». Infine racconta la scoperta che la maternità non è la «produzione di un essere secondo le tue idee» ma «qualcuno da amare», fino alla presa di coscienza che «il mistero del concepimento non deve essere manipolabile». Oggi Zoll è finalmente mamma. Grazie all’adozione.
Le pubblicità descrivono spesso le cliniche della fertilità come luoghi felici in grado di realizzare sogni. Qual è la realtà?
Posso parlare della mia esperienza personale e delle informazioni che mi hanno dato le donne e gli uomini che si sono sottoposti allo stesso processo. Era un ambiente asettico, nelle sale d’attesa nessuno parlava, c’era tensione. Ho sentito che alcune cliniche stanno trasformando il loro ambiente facendolo assomigliare a quello dei centri benessere, offrendo “pacchetti weekend della fertilità”: massaggi, agopuntura, “vieni e goditi la tua esperienza di fecondazione”.
Questo tipo di marketing crea l’illusione che i servizi medici saranno gradevoli e tollerabili. Ogni paziente ha una diversa soglia del dolore e nella mia esperienza i trattamenti sono stati invasivi, hanno trasformato la mia vita, fisicamente, emotivamente, sessualmente e spiritualmente. Per molti pazienti la fecondazione assistita è traumatica anche per il fatto che nella grande maggioranza dei casi fallisce: la Società europea della riproduzione e dell’embriologia presenta un tasso percentuale di fallimento globale del 77 per cento.
Perché, allora, l’American Society for Reproductive Medicine (Asrm) ha affermato che il 60 per cento delle donne sotto trattamento riesce ad avere un bambino?
Ho visto le dichiarazioni rilasciate dall’Asrm. Sono molto vaghe, fuorvianti e confuse. I dati citati dall’Asrm sono tratti da uno studio pubblicato nel 2012 sul New England Journal of Medicine, intitolato “Cumulative Birth Rates with Linked Assisted Reproductive Technology (ART) Cycles”. Lo studio conferma un tasso di fallimento dei cicli del 70 per cento: il 60 per cento è lo scenario migliore di riuscita su 247 mila donne che non si sono sottoposte a più di sette cicli successivi. In realtà molte donne che scelgono la fecondazione in vitro non riescono neppure a raggiungere la fase della fecondazione vera e propria.
Inoltre, un bambino nato vivo non significa necessariamente che le coppie porteranno a casa un figlio sano: più trasferimenti di embrioni possono spesso portare a nascite premature e costose, a soggiorni prolungati nelle unità di terapia intensiva neonatale e in alcuni casi alla morte del bambino. I risultati dello studio parlano anche dei costi crescenti per i clienti, che vanno dai 40 mila dollari per due cicli fino ai 200 mila per dieci o più. Lo studio dimostra poi che le donne più anziane che usano i propri ovuli, registrando il minor successo con la fecondazione in vitro, stanno facendo aumentare la richiesta della pratica controversa della donazione di ovuli. Attraverso cui gli specialisti del campo ottengono ovuli da terzi, iniettando nelle cosiddette “donatrici” farmaci potenti che possono causare gravi effetti collaterali: si va dal gonfiore delle ovaie, molto pericoloso, alla sterilità, agli ictus e in certi casi alla morte.
Perché i media e le autorità non parlano dell’alto tasso di fallimento dei trattamenti? Qual è il loro interesse?
L’industria della fecondazione assistita racconta solo una parte di ciò che avviene al suo interno, mette in evidenza le storie andate a buon fine e non rivela le alte percentuali di insuccesso. Oggi l’industria conta 5 milioni di bambini nati grazie a questi trattamenti medici. Dato che dal 1978 i fallimenti sono cresciuti del 70-80 per cento, significa che negli ultimi trent’anni circa 15 milioni di coppie hanno subito trattamenti senza successo. Prima che Robert Edwards e Patrick Steptoe (pionieri della fecondazione assistita, ndr) perfezionassero le procedure di fecondazione in vitro che hanno portato alla nascita di Louise Brown, la prima bambina in provetta nata in Gran Bretagna nel 1978, centinaia di donne povere della classe operaia della contea inglese di Lincolnshire avevano subito procedure sperimentali fallite. Ma anche questo non viene mai detto.
Il silenzio sull’alto tasso di fallimenti ha a che fare con il business di questa industria?
Credo che le cliniche e l’intera industria traggano profitto dalla falsa percezione e dall’illusione che in molti casi questi servizi abbiano successo. In particolare questa industria mette insieme due aspetti incompatibili: uno economico e uno medico. È valutata globalmente miliardi di dollari e i suoi ricavi stanno crescendo, e i suoi farmaci e le sue innovazioni sono sponsorizzate senza sperimentazioni appropriate e sicure. È il caso del congelamento degli ovuli.
Per le donne di 30 anni che vogliono un figlio, il tasso di fallimento della tecnica del congelamento lento di un ovulo da impiantare in utero è del 91 per cento; quello della vitrificazione (congelamento veloce, ndr) è del 77. Per le donne di 40 anni i tassi di insuccesso salgono rispettivamente al 96 per cento e al 91. Ancora una volta si ripete lo stesso schema: un tasso di fallimenti di cui nessuno parla. Un altro aspetto dell’espansione globale dell’industria riproduttiva è il business della compravendita di ovuli in paesi dove le donne povere sono reclutate per affittare i loro uteri e vendere i loro ovuli. In prima linea ci sono l’India, la Tailandia e il Messico.
Perché i governi non si impegnano per migliorare il processo delle adozioni, invece che incrementare l’accesso a queste tecniche?
Anche l’adozione spesso non è un percorso semplice. Quello che so è che molte coppie che affrontano il dolore delle diagnosi di infertilità si rivolgono prima all’industria della fecondazione perché credono che supereranno i loro problemi. Credono a tutti i titoli letti sui giornali per anni e anni, che parlano delle gravidanze e dei successi di queste tecniche. So anche che molte coppie non cercano più l’adozione perché ormai sono troppo povere per sopportare altri costi dopo che hanno già speso tutti loro soldi nei trattamenti di fecondazione.
Anche se la fecondazione in vitro avesse successo e non fosse dolorosa, non pensa che ci sia comunque qualcosa di sbagliato in questa volontà ossessiva di avere figli?
Nel mio libro parlo di come, dopo essermi sottoposta ai trattamenti, ho cominciato a sentirmi sempre di più ossessionata dall’avere un bambino. Mi autodefinivo una drogata della fecondazione. Questa ossessione e dipendenza dalla speranza offerta dalla scienza cresceva sempre di più davanti ad ogni tentativo fallito. Ho lottato praticamente ogni giorno con la mia ossessione crescente. Mi sono domandata come mai mio marito e io fossimo così fissati con la procreazione come cammino verso la genitorialità, anche se significava sottoporsi a trattamenti sempre più invasivi e rischiosi.
Mi chiedevo se volevo essere un genitore che “crea” un altro essere umano secondo la sua immagine. Mi interrogavo se essere madri non significa invece amare un bambino con tutto il mio cuore e tutta la mia anima, come amo il figlio che poi ho adottato e che ora ha quattro anni. Queste sono le domande esistenziali e spirituali che mi facevo durante quegli anni terribili e dolorosi. Mi sentivo davvero in colpa anche per aver aspettato i quarant’anni di età prima di avere un figlio. Ero arrabbiata con me stessa per aver creduto a tutto quello che avevo letto e sentito sul fatto che rimandare la maternità fosse una pratica innocua per le donne.
Per essere chiari, alcune donne rimandano la maternità fino ai quarant’anni, ma si prendono un bel rischio perché la fertilità diminuisce. Io mi credevo una super donna, convinta che avrei potuto superare i limiti delle probabilità perché ero sana e mia madre mi aveva concepita a 39 anni. Ero arrabbiata con me stessa per aver privato mio marito della possibilità di fare esperienza della paternità. Quando ero giovane credevo che avrei potuto sconfiggere ogni statistica. L’esperienza della mia infertilità è stata la più umiliante della mia vita e sono piombata nella depressione, finché sfinita mi arresi.
Attraverso questa esperienza è cambiato il suo modo di guardare alla maternità?
Diventare una madre attraverso l’adozione mi ha confermato che si diventa madri per amare, ascoltare, proteggere, guidare, insegnare. Ci tengo a sottolineare che la maternità non è una questione di connessioni genetiche o di sangue. Nel momento in cui ho preso in braccio mio figlio, quando aveva quattro giorni di vita, un’esplosione di amore e di istinto protettivo è emersa dal profondo del mio essere. L’amore che ho provato per lui è stato spontaneo. Un’esperienza mai fatta prima.
È vero che un bambino nato in laboratorio si sentirà un prodotto della volontà dei genitori?
Non c’è dubbio che l’uso di queste tecnologie e servizi medici trasformano il mistero del concepimento in qualcosa di manipolabile, progettato e realizzato come una macchina. O come la produzione di un certo tipo di uomo: oggi ci sono alcune cliniche specializzate in selezione del sesso, del colore degli occhi e dei capelli del nascituro. Ci sono cause legali in corso in cui coppie di persone sorde hanno chiesto ai medici di manipolare i propri geni
Essere in grado di manipolare il concepimento umano al di fuori del grembo materno è una piattaforma tecnologia necessaria a qualsiasi scopo eugenetico moderno. Robert Edwards aveva implicitamente riconosciuto questo legame nel 1999, quando disse: «Presto diventerà peccato per i genitori avere un figlio che porta il fardello pesante di una malattia genetica. Stiamo entrando in un mondo in cui dobbiamo preoccuparci della qualità dei nostri figli».
Edwards ha accennato al legame tra fecondazione in vitro e eugenetica quando, riflettendo sul venticinquesimo anniversario della nascita di Louise Brown, nel 1993 disse: «È più che combattere l’infertilità (…) volevo sapere esattamente chi era a guidare, se Dio stesso, oppure gli scienziati in laboratorio». La conclusione di Edwards fu: «Siamo stati noi». Edwards supportò pienamente l’uso di tecniche di selezione del sesso per ragioni sociali e non solo mediche.
Esistono dati sui problemi fisici o psicologici dei bambini nati tramite fecondazione assistita?
Queste tecniche sono relativamente recenti e gli studi di lungo periodo sono pochi. Fra questi nel 2012 ne sono stati pubblicati due importanti. Uno proveniente dall’università di Adelaide in Australia e uno dall’Ucla negli Stati Uniti. A maggio del 2012, la rivista New England Journal of Medicine ha pubblicato lo studio più completo del mondo da cui è emerso un altro rischio di malattie fra i bambini nati dalle tecnologie riproduttive assistite. Mettendo insieme tutti gli studi si vede che i bambini nati tramite fecondazione in vitro hanno il del 28 per cento di probabilità in più di contrarre malattie cardiache, muscolari, urogenitali, gastrointestinali e paralisi cerebrali.