Laogai Research Foundation Italia
26 gennaio 2016
La Laogai Research Italia ONLUS ha intervistato un sacerdote sopravvissuto ai laogai
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Per ovvi motivi di incolumità non citiamo le generalità del religioso e non forniamo qualsiasi altra informazione che in qualche modo possa far risalire alla sua identità
Un anziano sacerdote sopravvissuto ai laogai ci ha rilasciato una intervista, spiega come sono le carceri cinesi. Proponiamo ai nostri lettori questa testimonianza di prima mano: perdonerete qualche imprecisione stilistica a una persona che non ha piena padronanza della lingua. A noi sembrava un “sacrilegio” modificare o correggere qualche cosa nella forma.
Quando ero bambino, ogni attività religiosa in Cina era proibita. L’intera Cina era come avvolta dalla brutalità e dalla repressione che il governo esercitava verso ogni forma di religione. Tutte le chiese e i templi erano stati chiusi; i missionari stranieri erano stati espulsi; i sacerdoti, i monaci buddisti e gli imam erano sotto stretto controllo e molti capi religiosi furono condannati a morte con pretesti falsi di reati inventati ad arte per poterli accusare. La maggior parte degli esponenti religiosi del tempo fu incarcerata e mandata ai lavori forzati.
Appena cominciai ad avere l’uso della ragione, mia nonna di nascosto iniziò a insegnarmi le preghiere fondamentali del cristiano, come il Padre Nostro, l’Ave Maria ecc. Mio padre mi faceva imparare a memoria il catechismo “a domande e risposte”.
Vedevo che mia nonna tutte le sere usciva di casa portando con sé una lampada a cherosene. Allora io non comprendevo, anzi scherzando con lei dicevo: ”Nonna, la prossima volta che vai a divertirti la sera, porta anche me!”. Solo dopo ho saputo che per convincere i miei genitori e mia nonna a rinnegare la fede, il governo li costringeva a frequentare le sessioni di correzione del pensiero, il cosiddetto lavaggio del cervello, e se non rinunciavano a professarsi cattolici venivano anche sottoposti a pene corporali.
Nonostante ciò, noncuranti delle pressioni ricevute, quando tornavano a casa dalla scuola del governo, mia nonna e i miei genitori riprendevano a insegnarci le preghiere e a trasmetterci la fede.
Crescendo ho cominciato ad andare a scuola e a conoscere, a poco a poco, la società in cui vivevo, e a tale proposito mi torna in mente un altro episodio: quando conobbi il nostro parroco; ma non in chiesa, bensì in un bagno. Il governo aveva dato ordine al parroco di venire tutti i giorni nella nostra scuola per pulire i bagni; non pensate però ai bagni come sono in Occidente, erano latrine e bisognava spalare lo sterco, un lavoro che nessuno voleva svolgere perché era sia sporco, sia faticoso, ed era considerato umiliante.
Fu allora che tra i miei compagni di scuola cominciò a circolare la voce che quello era un “prete”. Da quel momento e non so per quanti anni, ho pensato che fare il prete significava spalare lo sterco.
Una sera mia nonna prima di addormentarsi, mi disse che sperava che io da grande potessi fare il prete; io immediatamente sobbalzai affermando che non avevo proprio nessuna intenzione di spalare lo sterco per tutta la vita!
In decenni di persecuzione, molti sacerdoti e fedeli per difendere la propria fede hanno pagato con il prezzo della vita; non si sa quanti vescovi, sacerdoti, suore e fedeli laici morirono per la fede; fino ad ora nessuno ha potuto fare statistiche e resoconti dettagliati. Però come dice Tertulliano, “il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani” e queste parole si sono avverate in Cina.
Nel 1979 la Cina cominciò ad aprirsi verso l’esterno e il governo alleggerì il suo controllo sulla Chiesa; sacerdoti che erano stati in carcere furono liberati e dichiarati innocenti; riaprirono le chiese che erano state chiuse per tanti anni. Ci fu un periodo di grande fioritura, di battesimi e di vocazioni.
Mi ricordo della prima Messa a cui assistetti, nel 1980. Nella Chiesa universale già da tempo si usavano le lingue locali per la celebrazione eucaristica, ma noi non lo sapevamo e comunque non esistevano messali in cinese. I nostri sacerdoti, anziani, avevano sempre detto la Messa in latino e così fecero anche nel 1980 e, benché noi non capivamo assolutamente nulla, una folla immensa partecipava alla Messa quotidiana; ci riunivamo in piazza ed eravamo così stipati l’uno all’atro che non potevamo neanche farci il segno della croce: se si alzava il braccio per tracciare il segno di croce, poi non c’era lo spazio per riportarlo giù!
Una volta il sacerdote nella predica sottolineò particolarmente la frase del Vangelo “La messe è molta, ma gli operai sono pochi” ed io mi sentii commosso. Una mia sorella stava entrando in una congregazione religiosa per farsi suora e mi consigliò di andare in seminario per diventare sacerdote. Però anche in quell’epoca essere prete voleva dire avere sicuramente molti problemi, come essere arrestato e messo in carcere, e sapevo chiaramente che in prigione avrei sofferto molto; dico la verità, avevo molta paura.
Ero preoccupato che, una volta arrivato il momento, non avrei saputo sopportare la durezza del carcere e sarei stato occasione di vergogna per la Chiesa. Fin da piccolo nella mia famiglia non avevo mai sofferto e non sapevo quanto avrei resistito. Alla fine comunque decisi di entrare in seminario e, dopo 6 anni, fui ordinato sacerdote. Poiché appartenevo alla Chiesa fedele al Papa, in pochi anni di servizio ministeriale fui imprigionato a più riprese per un totale di otto anni.
Condividerò con voi qualcosa della mia vita in prigione per farvi comprendere di più la grandezza di quei santi che hanno dato la vita per Cristo.
Forse potreste domandarvi: “Come saranno le carceri cinesi? Come viene trattato un prete in carcere?”
Vi descriverò l’ambiente del carcere e le mie impressioni a partire dalla vista, dall’udito, dal gusto e dall’olfatto.
Prima vi dico cosa ho visto. Ogni persona nuova che entrava in carcere, nei primi giorni veniva picchiata e oltraggiata dai prigionieri “più anziani”; inoltre, ogni giorno vedevo i prigionieri con il corpo martoriato dalle botte della polizia. Per un prete come me, che tutto il giorno era abituato a parlare di amore e di pace, assistere a queste azioni malvagie senza poterle fermare era una fonte di grande dolore. Tutto il giorno ero costretto a vedere poliziotti feroci, prigionieri come barbari, la cella lurida, e tutto questo generava una grande ansia.
Ogni giorno dovevamo sentire i canti patriottici che venivano sparati dagli altoparlanti. Non immaginate che fosse una bella musica, piacevole per le orecchie; era rumore assordante urlato con le trombe che non era possibile spegnere o sfuggire. Sentivo inoltre gli improperi, il rumore delle percosse, gli insulti, le parolacce, oltre alle notizie di tante ingiustizie che venivano compiute. Potete immaginare cosa provasse il mio cuore, io che ero abituato al rispetto e alla buona educazione.
Ancor più difficile descrivere il cibo. Anche gli alimenti di base erano del tutto insufficienti, per non parlare poi dell’igiene! La verdura non è mai stata lavata e nei cibi che ci portavano c’era terra e larve e insetti. La più forte sensazione che provavo ogni giorno era la fame.
La cosa più insopportabile però era la puzza. In una stanza di pochi metri quadrati erano sistemati 8 uomini; ci davano un breve momento “d’aria” e poi tutto il resto del tempo eravamo rinchiusi dentro alla cella dove tutti fumavano eccetto me.
Appena arrivato in prigione, poiché il mio fisico non riusciva a contrastare tutto questo improvviso fumo passivo, caddi privo di sensi per giorni. Mi ricordo che una volta, per un certo tempo, nella nostra cella di 8 persone ne vennero sistemate altre 15 tutte insieme: a questo punto l’aria non si muoveva più e ci fecero anche dormire a turno: a mezzanotte quando avevi cominciato a prendere sonno, venivi svegliato e dovevi lasciare il turno di sonno a un altro.
In questo tipo di ambiente io ero quasi impazzito.
Il mio spirito non trovava un equilibrio e questo non faceva altro che accrescere la sofferenza. Se avessi compiuto qualche delitto, come i miei compagni di prigionia, forse sarebbe stato più facile per me accettare questo ambiente, ma io non avevo fatto nulla contro la legge. In quel momento non riuscivo ad accettare la grande frustrazione e lo spaventoso ambiente di vita in cui mi trovavo (anche se molto spesso sognavo la Passione di Gesù). Pensavo alla morte e d’altra parte pregavo per avere la grazia di poter vivere. Suicidarmi era contrario al comandamento di Dio e neanche il governo mi dava occasione di morire. Veramente si compiva un detto cinese: “Implori la vita e non riesci a vivere, implori la morte e non la ottieni”.
Dopo un periodo di sofferenza e di lotta, mi offrii di nuovo interamente al Signore, senza serbare nulla. Con ancora più fermezza rispetto al giorno della mia ordinazione potei sentire nel mio spirito che “se muoio è per testimoniare il Vangelo, se vivo è per esaltare la gloria di Dio”. Dopo aver pregato profondamente, il mio cuore a poco a poco si pacificò; l’idea di morire sparì e lentamente cominciai a cercare occasioni per parlare ai compagni di cella della fede, di Gesù, del senso della vita e della morte.
Essi man mano furono impressionati da questo “narratore di storie” che ero diventato e dalla saggezza del Vangelo che non avevano mai ascoltato prima. Dopo pochi mesi il nostro ambiente di vita era cambiato; non si vedeva più che i prigionieri anziani picchiassero i nuovi arrivati e poiché i nuovi venivano rispettati, anche loro stessi iniziarono a rispettare quelli che erano arrivati da più tempo.
Cominciarono tutti ad avere cura l’uno dell’altro e a fare le pulizie della cella; i prigionieri fumatori, per quanto possibile fumavano solo all’aperto durante l’ora d’aria; il cambiamento stupiva anche le guardie che ci sorvegliavano.
Predicare il Vangelo nelle prigioni cinesi è contrario alle leggi del carcere e si prevedevano delle pene corporali. In questa situazione di pericolo, ogni giorno, mentre predicavo il Vangelo, c’era sempre uno dei carcerati di turno per osservare e ascoltare i movimenti, se ci fossero poliziotti che venivano a fare un controllo e, non appena sentiva qualche rumore, immediatamente faceva un segnale per farmi smettere.
Pur di ascoltare il Vangelo tutti cooperavano con un grande spirito di corpo. Dopo pochi mesi molti di loro chiesero di essere battezzati per entrare nella Chiesa e successivamente, secondo le circostanze, una volta usciti li indirizzavo a cercare il loro parroco per approfondire e proseguire il catecumenato.
Predicare il Vangelo in prigione mi ha dato una grande gioia e mi ha fatto anche trovare la missione che Dio mi aveva affidata: mi aveva inviato in carcere per lavorare per questi uomini che non avevano mai ascoltato il Vangelo di Gesù Cristo e che ne avevano estremo bisogno; essi con l’aiuto del Vangelo cambiarono profondamente la loro vita e anche io avevo ottenuto una forza straordinaria dal Cielo.
Quando l’uomo è profondamente disperato, nella sofferenza e senza nessun aiuto umano, naturalmente può rafforzare la propria fiducia in Dio. La mia esperienza mi ha dato un grande insegnamento e convinzione: se si confida in Dio nel momento della difficoltà, questa può attenuarsi moltissimo, consegnarsi completamente al Signore nel momento della difficoltà può ottenere la vera pace in Dio.
Posso anche dire che se non mi avesse sostenuto la fede, non sarei uscito vivo dal carcere. Invece così, non solo ho passato 8 anni in un carcere terrificante, ma con il sostegno della fede posso dire anche di aver trascorso felicemente 8 anni di “ritiro spirituale”.
Nella Chiesa cinese di oggi, abbiamo moltissimi santi che arrivano fino al sacrificio della vita; la sofferenza che essi sopportano è molto più forte della mia, ma quello che noi celebriamo è che, nella loro morte, essi hanno ottenuto una corona di gloria. Rimpiango di non aver avuto la grazia di morire per Cristo, ma spero che, attraverso la preghiera, il Signore me la conceda in futuro, a gloria del Suo nome.
Don Fabio (nome immaginario)