Esodi, deportazioni e stermini.

Contemporanea Rivista di storia dell’800 e del ‘900 anno IX, n.3, luglio 2006  (ed Il Mulino)

La «guerra-rivoluzione» europea (1912-1939)

di Antonio Ferrara

armenian genocide 2

Questo saggio si propone dì offrire una panoramica della storia delle migrazioni forzate verificatesi nel continente europeo negli anni compresi tra il 1912 e il 1953 (1). È questa infatti la periodizzazione più appropriata (2), rispetto a quella «tradizionale» incentrata sul 1914 e il 1945, per un fenomeno apparso nel XX secolo con le guerre balcaniche e scomparso pressoché improvvisamente – e per i successivi quattro decenni – dalla scena europea con la morte di Stalin.

Per la sua vastità, l’argomento sarà affrontato in due parti: in questa sede tratteremo gli anni compresi tra il 1912 e lo scoppio della seconda guerra mondiale, mentre un prossimo articolo affronterà il periodo compreso tra il 1939 e il i 953, quando il fenomeno conobbe il suo apogeo sia quantitativo (per il numero di persone coinvolte) che qualitativo (per la violenza che accompagnò gli spostamenti in questione).

Nel XX secolo i cambiamenti della geografia politica europea furono solo indirettamente frutto della guerra, perché a spostarsi, più dei confini, furono gli individui, che vennero deportati o fuggirono a milioni, mettendo fine all’insediamento di comunità che, come gli italiani dell’Istria e della Dalmazia, i tedeschi della Prussia orientale e i polacchi dell’Ucraina occidentale, avevano ricoperto un ruolo predominante nella vita politica, economica e sociale delle terre che erano costretti ad abbandonare.

Processi avviati oltre un secolo prima, in seguito alla rivoluzione industriale e all’urbanizzazione, subirono una brutale accelerazione e furono portati a compimento nel giro di anni o addirittura mesi. Sembra dunque possibile concludere che proprio il trasferimento forzato di intere popolazioni sia stato uno dei principali elementi che hanno conferito alla grande guerra del XX secolo europeo un carattere «rivoluzionario», tale da renderla qualitativamente diversa dalle contese per l’egemonia continentale dei secoli precedenti (3).

A dispetto di ciò, non esistono moltissime pubblicazioni sull’argomento. Soltanto pochi lavori concentrano la propria attenzione sulle migrazioni forzate in quanto tali – mentre, il che è tutt’altro che sorprendente dato quanto detto sopra, innumerevoli riferimenti al fenomeno in questione possono essere rintracciati in opere dedicate ad altri argomenti (dal nazionalismo ai problemi dei rifugiati e dei confini) in qualche modo ad esso connessi. Scarseggiano in particolare le opere che tentano di dare una visione d’insieme del fenomeno nella sua interezza ed è appunto questo uno degli scopi di questo saggio (4).

Non esiste una definizione universalmente accettata di «migrazione forzata»: il concetto stesso è a dir poco problematico, ma è ragionevole affermare che spostamenti forzati di popolazione hanno luogo allorché le persone sono costrette ad abbandonare le loro case a causa della minaccia o dell’effettivo uso della forza, oppure dell’insicurezza causata da circostanze come guerre o rivoluzioni, oppure di una fondata paura di subire persecuzioni. Il grado e le forme della coercizione possono naturalmente variare, sicché alcuni tipi di spostamenti possono essere considerati una «via di mezzo» tra la migrazione volontaria e quella forzata.

In questo saggio saranno presi in considerazione solo gli spostamenti dettati dalla forza o dalla minaccia dell’uso della stessa. All’interno di questa categoria, il carattere più o meno organizzato dello spostamento segnerà il confine tra deportazioni in senso stretto ed «esodi».

Le une e gli altri, specie se frutto di una precisa volontà politica, implicano sovente il ricorso alla violenza – in assenza della quale è difficile che intere popolazioni abbandonino le proprie case per ricominciare la propria esistenza altrove. Gli spostamenti forzali di popolazioni sono perciò generalmente preceduti o accompagnati da omicidi e massacri, spesso su vasta scala, miranti a indurre la popolazione interessata a fuggire, o concepiti come ritorsioni contro quanti resistono alla deportazione o tentano di sottrarvisi. Inoltre lo stesso processo di migrazione forzata può facilmente avere conseguenze mortali (specialmente per i soggetti più deboli, come malati, anziani e bambini), anche nel caso in cui non degeneri in un vero e proprio tentativo di sterminare completamente la popolazione coinvolta (ad esempio perché non c’è modo di «reinsediarla»).

Le «contiguità» tra esodi, deportazioni e stermini rendono dunque possibile considerare tutti questi fenomeni come parti di un continuum caratterizzato dall’uso sempre crescente della violenza, ed analizzarli nel loro insieme sulla base di un’unica linea interpretativa. In questo contesto, pulizia etnica e genocidio si configurano come due casi – di particolare importanza giacché l’etnicità è stata assunta come discriminante nella maggior parte dei casi – delle più ampie categorie rappresentate dagli esodi e dalle deportazioni da un lato, e dagli stermini dall’altro (5)

Argomento del saggio saranno esodi, deportazioni e stermini collegati ai processi di costruzione statale in Europa, che grosso modo si possono suddividere in base al loro verificarsi in ambiti «nazionali» oppure «imperiali».

Quasi tutti ebbero luogo nella regione (definita da Lewis Namier «medio oriente europeo») ricoperta dai quattro imperi crollati a seguito della prima guerra mondiale e teatro della guerra nazi-sovietica durante la seconda. In quest’area i rapporti tra le nazionalità e le classi erano strettamente collegati, e le élite dominanti appartenevano ad alcuni gruppi nazionali che, pur essendo spesso minoritari e talvolta privi di potere politico, monopolizzavano gli strati sociali più elevati e avevano creato reticoli di centri urbani «alieni», «atolli» (tedeschi ma anche russi, polacchi, ungheresi, italiani ecc. spesso con una forte partecipazione ebraica) in un «oceano» contadino (ceco, ucraino, rumeno, sloveno ecc.) diverso dal punto di vista religioso, linguistico e culturale. In queste condizioni, facilmente – anche se non inevitabilmente – la lotta per l’emancipazione nazionale e sociale (spesso una cosa sola) sfociava nella «purificazione etnica». Perciò la progressiva affermazione del principio di nazionalità come base dell’organizzazione politica coincise con la cacciata delle cosiddette master nations (altra espressione di Namier).

Il «picco» di questo fenomeno si ebbe durante gli anni Quaranta e in questa prospettiva, la seconda guerra mondiale rappresenta il culmine i della nuova, e spesso forzosa, Volkerwanderung, iniziata coi sommovimenti sociali del XIX secolo […] accelerata e proseguita dal primo conflitto mondiale e fatta esplodere dopo il 1939 dalle deportazioni sovietiche e tedesche, dai feroci regolamenti di conti nazionali condotti all’ombra della guerra i maggiore […] e dalle dislocazioni direttamente prodotte dalle operazioni di questa guerra (7).

Il fatto che furono le deportazioni naziste e sovietiche a dare il segnale d’inizio della grande «Volkenvanderung coatta» degli anni Quaranta permette di intravedere il legame – tanto ideologico (il «socialismo nazionale» divenne l’ideologia ufficiale della «purificazione etnica» del medio oriente europeo) quanto pratico (senza l’applicazione di metodi «nazisti» o «sovietici», la cacciata dei «popoli signori» sarebbe probabilmente proseguita in forme diverse, lungo un arco i di tempo considerevolmente più lungo, e in ultima analisi senza che avesse luogo la Volkerwanderung) – tra la dimensione «nazionale» e quella «imperiale» del fenomeno.

Agli esodi, deportazioni e stermini subiti dalle master nations in ritirata si affiancarono infatti quelli; compiuti dalle stesse nella lotta per conservare la propria supremazia politica – che implicava il tentativo di tenere in vita, o restaurare, i le formazioni statali «imperiali», nel corso del quale si fece ricorso a «tecnologie coloniali» per la gestione della popolazione. Queste includevano la «categorizzazione» della stessa in base alla sua maggiore o minore affidabilità, e quindi un trattamento «adeguato» alla classificazione – che poteva giungere alla deportazione, e talvolta allo sterminio, per motivi «profilattici».

Queste pratiche erano tutt’altro che nuove e fanno parte della storia di tutti gli imperi, ma la guerra-rivoluzione europea del XX secolo fu testimone anche in questo campo di un «salto di qualità», dovuto senz’altro all’estrema violenza dei conflitti armati che avvenivano sullo sfondo. Di fatto, fra tutti i trasferimenti forzati di popolazione furono proprio alcuni di quelli verificatisi in ambiti imperiali a toccare punte estreme di violenza – come dimostrano il genocidio armeno del 1915-16, quello ucraino del 1932-35 e quello ebraico del 1941-44, tutti verificatisi in ambiti imperiali già esistenti o in via di formazione (8).

È di particolare interesse il fatto che la maggior parte degli spostamenti di popolazione verificatisi in contesti imperiali ebbero luogo in Unione Sovietica: tra il 1920 e il 1952 il regime sovietico incluse la deportazione in massa dei propri nemici interni fra le proprie «procedure operative correnti», anche in periodi di pace.

Di fatto, dal 1928 fino alla morte di Stalin non vi fu quasi anno in cui non si verificasse almeno una deportazione in massa, che era il modo in cui lo stato sovietico si sbarazzava di intere categorie di persone considerate «inaffidabili» o «pericolose», ma contro le quali non si riteneva necessario (o desiderabile) procedere caso per caso. Tale politica, che ebbe un’influenza perniciosa a livello europeo, influì molto sulla percezione dell’Urss come un impero e alla lunga contribuì al suo collasso (9).

DALLE GUERRE BALCANICHE AL GENOCIDIO ARMENO

L’ultima delle ondate di spostamenti forzati di popolazione connesse alla «ritirata» dell’Impero ottomano dal continente europeo ebbe inizio con le due guerre balcaniche del 1912-1913, che furono entrambe contrassegnate da atrocità su larga scala: stupri, massacri e saccheggi indussero la popolazione civile musulmana a fuggire in massa davanti agli eserciti della lega balcanica, e non mancarono episodi di conversione forzata al cristianesimo.

Il numero dei fuggiaschi è stimato, in mancanza di statistiche attendibili, a circa 100.000; nel 1915, in seguito alla seconda guerra balcanica, vi fu poi una serie di movimenti di popolazione fra gli stati cristiani che avevano sconfitto l’Impero ottomano, e nel 1913 15.000 bulgari lasciarono la Macedonia al seguito del proprio esercito mentre 80.000 greci abbandonavano le loro case nelle aree assegnate a Serbia e Bulgaria dal trattato di Bucarest.

Gli spostamenti, più o meno forzati, di popolazione continuarono nel 1914, anno in cui 250.000 musulmani emigrarono in Turchia dagli stati balcanici, mentre 200.000 greci della Tracia orientale venivano espulsi verso la Grecia o deportati verso l’interno dell’Asia minore. In seguito, durante la guerra, altri 36.000 greci sarebbero stati deportati dalla Macedonia occupata dai bulgari.

A rendere il 1913 una data storica per gli spostamenti forzati di popolazione fu il fatto che per la prima volta nell’età contemporanea venne firmato un accordo tra due stati (Impero ottomano e Bulgaria) per uno scambio di popolazioni a carattere involontario. Al trattato di pace siglato nel settembre 1913 a Costantinopoli infatti allegata una convenzione (firmata ad Adrianopoli/Edirne nel novembre dello stesso anno) secondo cui la popolazione che viveva all’interno di una fascia di 15 chilometri dalle due parti del confine che divideva i due stati doveva essere scambiata: 48.570 musulmani (turchi residenti nella Tracia occidentale) sarebbero stati trasferiti nell’Impero i ottomano e 46.764 cristiani (bulgari abitanti nella Tracia orientale) in Bulgaria.

Di fatto la maggior parte della popolazione si era già spostata quando questo accordo fu siglato, per cui lo scopo principale di questo documento, come di altri dello stesso tipo, era sancire  l’irreversibilità dell’evento (10).

La sconfitta militare subita nelle guerre balcaniche ebbe come conseguenza, all’interno dell’Impero ottomano, la sconfitta della fazione costituzionalista dell’Ittiahad e il trionfo dell’ala rivoluzionaria che, già a partire dal 1915, intraprese politiche miranti a «liberare» l’economia ottomana dal controllo dei sudditi cristiani dell’impero.

Un risvolto di tale politica fu una campagna terroristica che indusse un gran numero di industriali e commercianti greci a lasciare il paese: fu un primo tentativo, riuscito solo parzialmente, di liberarsi della minoranza greca. A partire dagli inizi del 1914, nel giro di pochi mesi 150.000 persone vennero espulse e costrette a rifugiarsi in Grecia, mentre altre 50.000 venivano deportate verso l’interno; le deportazioni – destinate a costare la vita a migliaia di greci – continuarono fin nel 1915-1916.

Senz’altro, le motivazioni legate alla sicurezza militare della zona strategicamente sensibile dell’Anatolia occidentale giocarono un ruolo nel procedere delle deportazioni, perlomeno a partire dallo scoppio della prima guerra mondiale, cui l’Impero ottomano prese parte dall’ottobre 1914 andando oltre la pratica – comune nel corso del conflitto – di internare gli «stranieri nemici» e perseguitando anche i propri cittadini considerati «inaffidabili», come nazionalisti arabi, sionisti e membri di varie minoranze nazionali.

La persecuzione più feroce fu quella subita dagli armeni: già nel dicembre 1914 l’avanzata ottomana verso Kars e Sarikamis, fu accompagnata da massacri di armeni e altri cristiani, perpetrati in genere dagli hamidiye (reparti irregolari di cavalleria curda, grosso modo paragonabili ai cosacchi zaristi), oltre che da saccheggi portati avanti col pretesto delle requisizioni per necessità militare.

Dopo la pesante sconfitta subita dall’esercito ottomano nei pressi di Sarikamis, nel gennaio 1915, i militari ottomani di nazionalità armena vennero disarmati, inquadrati in battaglioni del lavoro e occasionalmente giustiziati. Tale misura fu il preludio alla successiva deportazione dell’intera popolazione armena residente nelle retrovie del fronte, decisa nella primavera del 1915 ufficialmente sulla base di considerazioni di sicurezza militare legate alla presunta «inaffidabilità» degli armeni stessi, accusati di simpatizzare per i nemici dell’Impero ottomano.

L’ordine ufficiale venne impartito il 27 maggio 1915, con una legge che autorizzava le autorità militari a disporre a loro piacimento delle popolazioni civili sospette di spionaggio e tradimento; deportazioni e omicidi avevano già avuto inizio nel mese precedente – in particolare nelle località di Zeythun e Van, la cui insurrezione, addotta come giustificazione dei successivi massacri, costituì l’occasione per l’arresto dei principali esponenti della comunità armena di Costantinopoli il 24 aprile 1915, che di fatto diede il via al genocidio.

Tra la fine della primavera e l’inizio dell’estate del 1915, l’ordine di deportare gli armeni – dapprima ristretto a quelli residenti nell’Anatolia orientale, in seguito esteso anche a quelli che si trovavano negli altri vilayet dell’impero – fu trasmesso ai funzionali del governo ottomano: con ogni probabilità esistette un piano prestabilito, i come dimostrano le modalità della deportazione, effettuata ovunque in base a uno schema sostanzialmente fisso: disarmo della popolazione, arresto dei membri più rappresentativi della comunità, i quindi l’esilio sotto la scorta dei paramilitari dell’Organizzazione Sergreta (Teskilàt-i Djedida) – una branca dell’Organizzazione Speciale creata dal comitato centrale dell’Ittihad unicamente allo scopo di «risolvere» a forza di massacri la questione armena.

I suoi gendarmi erano stati reclutati fra criminali comuni appositamente amnistiati dal governo e la sua azione era coordinata da delegati esecutivi – i cosiddetti «segretari responsabili», uno per ogni vilayet – con poteri i illimitati, ai quali erano subordinate tutte le altre autorità civili e i militari.

L’esistenza di tale organizzazione è di per sé una prova dell’intento genocida delle deportazioni; il modo in cui gli armeni venivano trattati, inoltre, induce a pensare che le autorità non fossero interessate a che arrivassero vivi a destinazione. Ufficialmente, la distesa desertica tra Aleppo e Mosul venne destinata al «reinsediamento» dei deportati; i pochi sopravvissuti (probabilmente il 15 per cento del totale) vennero internati in campi di concentramento improvvisati, situati lungo il corso dell’Eufrate, all’interno dei quali le condizioni di vita erano spaventose e il numero dei decessi elevatissimo.

Molti deportati morirono poco dopo l’arrivo a destinazione, i molti altri quando, nell’estate 1916, i campi furono evacuati e nuove  «marce della morte» ebbero inizio nei deserti della Siria e della Mesopotamia.

Allorché nel 1916 il genocidio si avviava alla conclusione, le regioni dell’Anatolia orientale furono occupate dall’esercito zarista, che le trovò spopolate. Nella primavera del 1917 fu autorizzato il ritorno nelle regioni dell’Armenia orientale dei 150.000 profughi armeni presenti in Transcaucasia: un ritorno, questo, ancora più tragico in quanto venne seguito a breve  dall’ennesimo sradicamento quando, nell’inverno seguente, la ritirata dell’esercito zarista sprofondò il Caucaso nel caos più totale.

Massacri e vendette contro la popolazione musulmana furono compiuti dagli armeni, e le truppe che occuparono Van, Erzurum e Trebisonda si comportarono in maniera a dir poco deplorevole: al tempo stesso, guerre e insurrezioni mieterono un gran numero di vittime fra gli armeni del Caucaso (25.000 dei quali finirono sterminati nel settembre 1918 a Baku durante gli eventi che portarono alla creazione della repubblica dell’Azerbaigian) e i loro connazionali che negli anni precedenti si erano rifugiati oltre i confini dell’Impero ottomano: un gran numero di persone – forse 250.000 – perirono di fame e d’inedia nel 1918-1919.

Alla conferenza di pace i delegati armeni presentarono richieste territoriali comprendenti un territorio immenso, e i termini del trattato di Sèvres, firmato nell’agosto 1920, prevedevano in effetti la creazione di uno stato indipendente armeno che avrebbe compreso una parte delle province di Van, Bitiis, Erzurum e Trebisonda; ma i nazionalisti turchi guidati da Mustafà Remai ripudiarono il trattato di Sèvres e passarono alla controffensiva, che portò nel settembre 1920 alla riconquista di Rars e Ardahan.

Queste province vennero «etnicamente ripulite» da 230.000 armeni, e la sistematica distruzione delle città e dei villaggi causò all’incirca 60.000 vittime. Solo l’intervento dell’Armata Rossa fermò, alle porte di Erevan, l’esercito turco avanzante; ciò evitò la probabile estinzione della nazione armena, al prezzo della sua incorporazione nell’Unione Sovietica. Avvenimenti analoghi ebbero luogo nella Cilicia occupata dalle truppe francesi, dove gli scampati al genocidio avevano cominciato a rimpatriare dalla Siria e dalla Mesopotamia verso la fine del 1919.

Nel 1921, all’evacuazione della Cilicia da parte dei francesi fece seguito il definitivo esodo dei civili armeni: non vi fu un massacro generale, ma molte migliaia di persone rimasero uccise comunque, soprattutto nelle località di Marash e Mersin.

Date le sue dimensioni, e soprattutto le modalità con cui si svolse, non è facile valutare il numero delle vittime della tragedia che colpì gli armeni dell’Anatolia. La cifra oggi generalmente accettata è di circa 800.000 morti – che è verosimile se si accetta la premessa che gli armeni presenti sul territorio ottomano fossero 1.295.000 (come asserito dal censimento del 1914) e compatibile con la valutazione che vi fossero in tatto 408.000 armeni nel 1918, sparsi tra il Caucaso e il Medio Oriente.

In ogni caso, quasi tutte le stime più affidabili concordano sul fatto che le vittime siano state pari ai due terzi della popolazione armena; questo dato, insieme con gli indizi presi in considerazione in precedenza, prova al di là di ogni ragionevole dubbio l’intento genocida – tuttora pervicacemente negato da alcune fonti, in particolare da quelle ufficiali turche – delle deportazioni degli armeni.

Del resto, nei decenni precedenti si erano verificati pogrom antiarmeni estremamente efferati e cruenti: dapprima nel 1894-1896 – con un bilancio di vittime stimato in 200.000 unità, cui vanno aggiunti quasi altrettanti emigrati in Transcaucasia, Bulgaria, Europa occidentale e America – e di nuovo nell’aprile 1909 in Cilicia, quando le vittime erano state circa 25.000 (in un lasso di tempo molto più breve e in uno spazio geografico assai più concentrato).

Non è dunque sorprendente che, nell’ambito di una guerra totale, si verificasse quello che gli osservatori esterni definirono «un massacro peggiore di tutti gli altri massacri». In secondo luogo, la leadership ittihadita temeva (non senza ragione) che, in caso di sconfitta, le potenze dell’Intesa avrebbero concesso agli armeni una regione autonoma o addirittura uno stato indipendente nei vilayet dell’Anatolia orientale – premessa, questo, al definitivo smembramento dei possedimenti rimasti in mano ottomana dopo le disfatte del XIX secolo e delle guerre balcaniche.

Gli armeni erano insomma percepiti come una minaccia mortale alla stessa esistenza dello stato ottomano, oltre che come un elemento di disomogeneità etnica e un potenziale cavallo di Troia delle potenze straniere. Per queste ragioni la leadership ittihadita decise di risolvere «una volta per tutte», attraverso il genocidio, il problema costituito dalla loro presenza nella penisola anatolica.

Il vero obiettivo finale era probabilmente la completa «turchificazione» della stessa, in vista della quale a un certo punto i curdi stessi – che avevano avuto una parte non piccola nei massacri degli armeni – furono presi di mira. Non più tardi del 1917 ne venne ordinata la deportazione verso l’Anatolia occidentale e la dispersione in piccole comunità – preludio alla loro assimilazione. Circa 700.000 civili furono effettivamente «rimossi», ufficialmente allo scopo di fare terra bruciata di fronte all’esercito zarista, e forse la metà di essi perirono (11).

LA GUERRA GRECO-TURCA E LA NASCITA DELLA TURCHIA MODERNA

La situazione dei greci dell’Impero ottomano era per certi versi simile a quella degli armeni, con la differenza che i greci potevano far riferimento ad una «madrepatria esterna» le cui azioni, però, finirono col dare il via alla catena di eventi destinati a porre fine alla plurisecolare esistenza delle comunità elleniche dell’Asia Minore.

Nel maggio 1919, 20.000 soldati greci sbarcarono a Smirne (Izmir), la più grande città della costa mediterranea dell’Anatolia, abitata prevalentemente da greci; in seguito venne stabilita un’occupazione militare del litorale egeo della penisola anatolica e del suo immediato retroterra, il cui obiettivo era il perseguimento della cosiddetta Megali Idea, il sogno nazionalista di una Grande Grecia che incorporasse i tenitori abitati dai greci dell’Anatolia e l’antica capitale bizantina, Costantinopoli: in pratica una ulteriore espansione territoriale dopo quelle che avevano fatto seguito alle guerre balcaniche, che portasse all’inglobamento delle ricche comunità greche delle città costiere dell’Asia Minore.

L’amministrazione del territorio occupato, vessatoria nei confronti dei turchi, ne stimolò il nazionalismo rivelandosi uno degli elementi che spianarono la strada al trionfo del movimento rivoluzionario, guidato da Mustafà Kemal, che si stava organizzando nell’Anatolia centrale. Nell’estate 1919, al congresso di Erzurum, venne definito un Patto Nazionale, in cui si ribadiva che non sarebbe stata accettata nessuna spartizione territoriale a favore delle minoranze; quando la firma del trattato di Sèvres (1920) rivelò l’incapacità del governo del sultano di difendere i propri interessi, scattò immediatamente la reazione dei kemalisti, sostenuta dall’esercito, dalla popolazione musulmana e da tutti gli oppositori del sultano; le forze fedeli a quest’ultimo vennero battute, così come, in seguito, quelle francesi che occupavano la Cilicia.

Nel giugno 1921, i greci marciarono nell’interno dell’Anatolia nel tentativo di spodestare il governo kemalista; si fermarono in agosto sulle rive del fiume Sakarya e presero a consolidare il proprio controllo del territorio mettendo a ferro e fuoco i villaggi turchi occupati, in una sorta di vendetta per le atrocità subite durante le deportazioni precedenti alla Grande Guerra.

Allorché venne scatenata la controffensiva turca, la ritirata dell’esercito greco ebbe conseguenze ancor più devastanti per la popolazione civile: i villaggi furono dati alle fiamme e la popolazione fatta segno ad orribili atrocità. Seguirono quindi i turchi avanzanti: il loro contrattacco si trasformò rapidamente in una pulizia etnica delle comunità elleniche residenti nell’Anatolia occidentale, il cui ultimo atto fu il drammatico incendio di Smirne del settembre 1922, che causò tra 10 e 15 mila vittime – perite tra le fiamme, schiacciate dalla folla, uccise dai soldati turchi o dai saccheggiatori nell’intervallo tra la fuga dell’esercito greco e l’arrivo di quello turco.

Nei mesi successivi alla catastrofe di Smirne più di un milione di rifugiati raggiunse la Grecia, e questo prima ancora che avesse inizio la conferenza di pace. I decessi si contarono a decine di migliaia durante la fuga, sulle navi e nei campi di accoglienza – 70.000 profughi morirono di malattia e denutrizione tra il settembre 1922 e il luglio 1923, data della firma del trattato di Losanna.

Già il 30 gennaio 1923, peraltro, venne firmata la convenzione sullo scambio di popolazioni tra Grecia e Turchia, hi cui la religione fu il principale criterio impiegato per stabilire chi dovesse essere «scambiato», tanto che i musulmani cretesi di lingua greca vennero espulsi al pari dei seguaci circassi e curdi della chiesa greco-ortodossa. D’altro canto, come scrive Guido Franzinetti

L’ affiliazione religiosa era però l’unico criterio pensabile nel contesto storico ottomano. L’affermazione di un criterio «etnico» o «nazionale» ebbe luogo solo successivamente in Grecia e Turchia. Solo dopo la ridefinizione dei confini (e delle popolazioni) del 1923 fu gradualmente possibile creare uno stato con una popolazione turca per lingua e per cultura e musulmana per confessione, così come solo dopo quell’anno fu possibile raccogliere in un unico stato la maggior parte delle popolazioni greche della regione. La distruzione i dell’ellenismo dell’Asia minore e della presenza turca nei Balcani pose così le i basi per la creazione della Turchia e della Grecia moderne (12)

Fu questa la conseguenza più rilevante dello scambio di popolazione greco-turco, una cui valutazione deve tener presente quella che Renée Hirschon ha definito «asimmetria dell’esperienza», frutto del diversissimo significato storico e politico che gli eventi del 1922-1923 ebbero per greci e turchi – un’enorme sconfitta (la «Catastrofe dell’Asia Minore») per i primi; un grande trionfo, evento fondante dello stato-nazione, per i secondi – e del diverso impatto che i trasferimenti di popolazione ebbero sugli stati coinvolti.

Difatti, mentre «solo» circa 350.000 musulmani furono espulsi dal territorio greco e reinsediati in quello turco, circa 1,2 milioni di cristiani ortodossi fecero il percorso opposto. L’afflusso di tanti profughi rappresentò un trauma colossale per la Grecia, la cui popolazione si aggirava intorno ai 4,5 milioni nell’autunno del 1922: la necessità di sistemare un enorme numero di rifugiati ebbe un impatto grandissimo sulla società greca.

Vi furono forti tensioni tra «autoctoni» e profughi, e i secondi dovettero fronteggiare l’esclusione sociale e forti pregiudizi – per quanto anche tra di essi si sviluppassero fenomeni razzisti, come l’antisemitismo che si diffuse tra quanti vennero insediati nella Grecia settentrionale e in particolare a Salonicco.

Buona parte delle terre destinate ad accogliere i profughi vennero reperite nelle regioni settentrionali conquistate dalla Grecia nelle guerre balcaniche, alterandone la composizione nazionale e sancendone la «grecità»; altra terra venne dai latifondi, espropriati e divisi in piccoli appezzamenti in una delle più radicali riforme agrarie verificatesi in Europa tra le due guerre mondiali, fonte di tensioni politiche e sociali che non si placarono per lungo tempo e riesplosero durante la guerra civile del 1944-1949.

Le conseguenze dello scambio di popolazioni in Turchia furono ben diverse e in un certo senso minori, ma non trascurabili: la rimozione dall’Anatolia degli abitanti più socialmente ed economicamente avanzati fece sì che essi venissero rimpiazzati da operatori economici musulmani, assai più dipendenti dallo stato – al quale dovevano la propria promozione sociale, legata alle politiche di «turchificazione».

Le relazioni fra stato e società nella nuova repubblica turca furono caratterizzate da rapporti di forza relativi assai favorevoli al primo, e gli effetti economici dello scambio di popolazioni furono sostanzialmente negativi per la Turchia (13)

LA DISSOLUZIONE DELL’IMPERO ZARISTA (1914-1924)

L’importanza delle deportazioni zariste del 1914-1915 sta nel loro essere uno dei primissimi casi di migrazioni forzate organizzate da uno stato nel XX secolo, temporalmente precedente alla deportazione-genocidio degli armeni dell’impero ottomano, con cui hanno in effetti alcuni punti di contatto, benché le differenze siano molto più importanti.

In principio, il loro scopo fu l’internamento degli «stranieri nemici» in età di servizio militare, imprigionati e deportati su carri merci verso campi situati nell’interno dell’impero. Furono interessati in tutto circa 50.000 individui, ma ben presto gli ordini di deportazione vennero progressivamente estesi: il numero totale di persone colpite da queste misure è valutabile in 300.000 unità, ed è pari a quello dei civili stranieri deportati nell’interno della Russia dai tenitori occupati dall’esercito zarista.

Nel contesto dell’impero zarista, tali deportazioni ebbero un significato che va oltre quello legato a pure considerazioni di sicurezza militare: il ruolo sociale e l’importanza nella vita economica dell’impero zarista degli «stranieri nemici» era infatti notevole – assai superiore che in qualunque altro stato belligerante – per cui la loro deportazione si ricollegò ai programmi di nazionalizzazione delle loro proprietà e divenne parte di un più vasto progetto di trasformazioni economiche, sociali e demografiche, sostenuto da un ampio consenso popolare.

Alle deportazioni degli «stranieri nemici» si aggiunsero ben presto quelle dei cittadini dell’impero zarista di etnia tedesca, il cui sviluppo fu però diametralmente opposto, perché da principio colpirono indiscriminatamente tutti i residenti di determinati territori posti sotto amministrazione militare, ma in seguito furono limitate alla «rimozione» dei piccoli proprietari terrieri.

Il governo zarista desiderava infatti espropriarne le terre in via permanente e questo fece sì che la loro deportazione, concepita originariamente come misura di sicurezza temporanea, si trasformasse in un programma destinato ad alterare la composizione demografica e nazionale dei territori di confine dell’impero.

La legge che regolava le espropriazioni, approvata nel febbraio 1915, nel dicembre di quello stesso anno venne estesa non solo alla maggior parte della Russia europea, ma anche alla Finlandia, al Caucaso e alla regione dell’Amur: famiglie di origine tedesca residenti da generazioni in Volinia, in Podolia o addirittura nella regione ; del Volga vennero deportate in Siberia ed Asia centrale. Sul finire del |1916, poi, l’approvazione di una «legge di liquidazione» fece sì che la minaccia della deportazione pendesse su tutti i tedeschi etnici residenti nell’impero zarista: solo gli sconvolgimenti rivoluzionari del 1917 fecero sì che questa minaccia non si concretizzasse.

Da ultimo, vennero coinvolti anche gli ebrei residenti nella parte occidentale dell’impero zarista: uno dei primi casi di espulsione dell’intera popolazione ebraica di una località si verificò nel settembre 1914 a Pulawy, e a partire dalla primavera del 1915 vi furono deportazioni in massa di residenti ebrei di alcune zone, talvolta intere province; le deportazioni vennero accompagnate da una vera e propria ondata di violenze, saccheggi, ruberie e veri e propri pogrom iniziati quasi sempre dai cosacchi.

La partecipazione (diretta o indiretta) dei militari fu una caratteristica di queste violenze, antesignano di quelle assai più massicce e letali che avvennero nel 1918-1919 concentrandosi, non casualmente, nelle aree che avevano conosciuto la più massiccia immigrazione di ebrei (il numero complessivo delle persone coinvolte, tra deportati e semplici rifugiati, oscillò tra 500.000 e un milione) durante la guerra e all’indomani dell’abolizione, avvenuta nel 1915, della «regione degli insediamenti». Da ultimo, comunque, i militari – spinti anche dall’opposizione delle autorità civili – misero fine a queste misure sostituendole con la sistematica presa hi ostaggio di membri eminenti delle comunità ebraiche.

Oltre che nelle operazioni di massa contro stranieri nemici e cittadini dell’impero zarista di etnia ebraica o tedesca, le deportazioni furono impiegate su base individuale a danno di persone ritenute «indesiderabili» o in qualche modo pericolose per lo sforzo bellico. Nelle province baltiche vi fu una campagna di persecuzioni religiose contro i non aderenti all’ortodossia, con la deportazione di pastori protestanti tedeschi dalla Curlandia e di preti cattolici dalle province polacche; furono prese a bersaglio anche le leadership politiche nazionali, soprattutto nei territori occupati dall’esercito zarista.

Com’è facile comprendere, le conseguenze delle deportazioni furono contraddittorie e, in larga parte, non volute – anche se, forse, facili da prevedere. Esse scatenarono nuovi conflitti nazionali e sociali, innanzitutto nelle località dove i deportati si stabilivano (solo una piccola parte di essi venne effettivamente imprigionata o reclusa in campi); stimolarono la «coscienza nazionale- delle comunità prese a bersaglio, in particolare di quella tedesca allorché molti coloni provenienti dalla Polonia, dal Baltico, dall’Ucraina e da altre regioni di confine come la Volinia e la Bessarabia furono «reinsediati» tra i loro connazionali della regione del Volga (un processo in qualche modo analogo si verificò fra gli ebrei); da ultimo accrebbero il ruolo dei polacchi in Polonia, di lituani, lettoni ed estoni nel Baltico, degli ucraini in Ucraina e cosi via, aprendo la strada alle loro rivendicazioni nazionali e l’importanza di questo fatto può essere misurata in base al ruolo che tali questioni avrebbero svolto nelle rivoluzioni del 1917, e nei conflitti seguenti (14).

Per quanto numerosi, i deportati costituirono comunque solo una parte dell’alluvione di rifugiati che si riversò verso l’interno dell’impero zarista a partire dal 1915, risultato del fatto che il fronte orientale rimase relativamente mobile, e il succedersi di avanzate e ritirate causò esodi di vasta portata.

Questo fenomeno fu il risultato sia della reazione spontanea di civili impauriti dall’approssimarsi del nemico sia della tattica della «terra bruciata» praticata dall’esercito zarista in ritirata, che includeva talvolta l’evacuazione dei civili residenti nelle regioni vicine alla linea del fronte (un caso del genere si verificò a Varsavia, i cui abitanti vennero forzati ad abbandonare la città sul punto di cadere in mani nemiche).

La «grande ritirata» del 1915 provocò : quindi un enorme numero di rifugiati: si calcola che ve ne fossero 3,3 milioni a fine anno e addirittura 7,4 milioni a luglio 1917 Un abitante su venti dell’impero zarista era un rifugiato e nelle regioni di confine la percentuale era di gran lunga più elevata: non meno di 1,4 milioni di civili – pari al 20 per cento e più della popolazione – abbandonarono i soli tenitori facenti oggi parte della Bielorussia.

Non è facile stabilire la composizione nazionale di quella che era ormai divenuta una vera e propria popolazione, ma un’indagine condotta a metà del 1916 indica come la maggior parte dei rifugiati (due terzi) fossero slavi orientali, benché vi fosse un alto (in termini sia assoluti che relativi) numero di polacchi, ebrei e baltici. Affamati, infreddoliti e spesso ammalati di colera o di tifo, questi sventurati approdarono in destinazioni improbabili, ben lontane dai loro luoghi natii: nel maggio 1916 ve ne erano negli Urali, in Siberia, in Asia centrale e in Estremo Oriente.

È possibile sostenere che queste migrazioni abbiano svolto un ruolo non secondario nella «nazionalizzazione» di quanti vi furono coinvolti: ai rifugiati veniva richiesto di registrarsi in base alla propria nazionalità e al luogo di provenienza, in modo da stabilire quale comitato di assistenza dovesse prendersene cura.

Data la scarsità di risorse disponibili, lo stato zarista si affidò largamente a comitati per il soccorso ai rifugiati organizzati su base nazionale, in grado di poter mobilitare, a supporto della loro causa, i connazionali facenti parte delle «diaspore» residenti sia nell’impero stesso sia all’estero.

Quanti operavano nei comitati in questione s’impegnarono a sensibilizzare i loro assistiti ad un messaggio politico nazionalista – trovando terreno fertile tra persone la cui coscienza nazionale venne presumibilmente rafforzata dall’esperienza dello sradicamento, del contatto con popolazioni diverse e della condivisione con i propri connazionali delle sofferenze causate dalla guerra.

Quanto ciò fosse importante lo dimostra il fatto che, mentre le autorità zariste fecero il possibile per frustrare gli sforzi dell`intellighenzia ucraina e bielorussa per creare «comitati di soccorso» su base nazionale, i rifugiati russi pretesero ad un certo punto un’organizzazione a loro dedicala che fosse analoga a quelle di cui disponevano le altre nazionalità. Venne quindi creato un «comitato pan-russo per l’assistenza ai rifugiati», ma solamente nel settembre 1915 – e il fatto che (ad esempio) un suo omologo lituano esistesse fin dal luglio 1914 sembra confermare le ipotesi che sono state avanzate circa l’incompletezza (ancora a quell’epoca) del processo di «costruzione nazionale» russo (15).

Allorché nel marzo 1918 il trattato di Brest-Litovsk proclamò la cessazione delle ostilità, molti profughi respinti verso est dall’avanzata austro-tedesca cercarono di tornare alle proprie case: tra maggio e novembre 1918 400.000 persone abbandonarono la Russia sovietica per tornare in tenitori ancora occupati dai tedeschi. Questi furono poi obbligati dalla sconfitta militare subita in occidente a lasciare la presa sulle terre strappate all’impero zarista: a quel punto l’indipendenza puramente formale che avevano garantito alla Polonia ed ai paesi baltici divenne reale, e i processi di costruzione statale poterono avere luogo senza essere intralciati dagli occupanti.

ha quest’ambito si situa il rimpatrio dei profughi rimanenti, che erano la stragrande maggioranza, e ai quali se ne aggiunsero altri ancora in seguito. La maggior parte dei rifugiati lettoni rimpatriò nel 1920-22: entro il 1924 ne erano rientrati 225.000, mentre 186.000 rimasero in territorio sovietico. Alla stessa data, 350.000 rifugiati provenienti dalla Lituania erano rimpatriati, e costituivano un sesto della popolazione del nuovo stato lituano indipendente – che, pur proclamando di perseguire una politica di non discriminazione, di fatto assicurò un trattamento preferenziale ai rifugiati lituani e scoraggiò il rimpatrio degli appartenenti ad altre nazionalità.

Estonia e Lettonia incoraggiarono l’emigrazione dei Deutschbalten che, fino al 1914, avevano ricoperto un ruolo dominante nella vita di quelle regioni a dispetto della loro scarsa consistenza numerica – ponendosi alla testa dei tentativi tedeschi di annettere Livonia, Curlandia ed Estonia nel 1914-1918 e poi tentando di tenere comunque in vita un’egemonia tedesca nel Baltico nonostante la sconfitta militare, attraverso l’attività del generale von der Goltz e dei suoi Freikorps.

Non sorprendentemente, finirono nel mirino dei nazionalisti locali e divennero il bersaglio di riforme agrarie miranti a spezzare il predominio economico e sociale di quella che era ora divenuta una minoranza straniera. Il loro numero finì per declinare costantemente a causa dell’emigrazione e nel 1959 essi erano ormai poco più della metà che nel 1914.

Quanto alla Polonia, secondo le statistiche ufficiali il numero dei rimpatri ammontò a 1,2 milioni tra il 1918 e il 1922, di cui il 37 per cento dichiararono di essere polacchi; il 20 per cento si dichiararono russi o ucraini e ben il 40 bielorussi (fra costoro vi erano probabilmente molti ebrei).  Molti di questi ultimi s’insediarono nelle regioni di confine orientali, dove tali nazionalità costituivano la maggioranza; il comportamento di un’amministrazione che ammetteva in via preferenziale i polacchi, incoraggiandone lo stanziamento in aree abitate prevalentemente da ucraini e bielorussi, si rivelò in ultima analisi inutile a conseguire l’obiettivo della «polonizzazione» malgrado circa 100.000 bielorussi emigrassero (alcuni verso la Lettonia) a causa delle repressioni (16).

LA RIVOLUZIONE BOLSCEVICA E L’UNIONE SOVIETICA (1918-1939)

In Unione Sovietica, dove sotto Stalin gli spostamenti forzati di popolazione sarebbero divenuti un vero e proprio metodo di governo, i precedenti di tale pratica vennero stabiliti negli anni della cosiddetta «guerra civile russa»: è dunque molto importante esaminare le prime deportazioni organizzate dal potere bolscevico a danno di «segmenti» della popolazione considerati «inaffidabili» dai nuovi detentori del potere.

Il primo spostamento forzato di popolazione dell’era sovietica venne ordinato già nell’aprile-maggio 1918 a danno degli abitanti di quattro insediamenti cosacchi destinati ad essere rimossi con la forza in base ad un ordine del soviet dell’oblast di Terskaya. A livello del governo centrale, nel gennaio 1919 il comitato centrale del partito comunista decretò la «decosacchizzazione», ovverosia l’eliminazione dei cosacchi del Don e del Kuban’ come gruppo sociale; tale politica includeva gli spostamenti forzati di popolazione tra i mezzi per la sua attuazione e nel marzo 1919 il capo del partito nella regione del Don fece richiesta alla dirigenza di deportare ai lavori forzati tutti gli uomini cosacchi dai 18 ai 55 anni di età, e di insediare sul Don contadini delle regioni centrali della Russia.

Nell’immediato, venne attuato uno «spietato terrore di massa» che suscitò una insurrezione in piena regola, tale da scacciare l’Armata Rossa dalla regione del Don; seguì un mutamento di politica nei riguardi dei cosacchi, ma quando le sorti della guerra civile s’invertirono, la nuova occupazione fu spietata quasi quanto la precedente

Vittime di spostamenti forzati di popolazione furono soprattutto i cosacchi residenti nel Caucaso settentrionale, deportati a decine di migliaia nel 1920-1921. Le terre liberatesi in tal modo furono assegnate a cosacchi che avevano combattuto con i rossi o a contadini senza terra e pastori ingusci e ceceni, risospinti verso terreni meno fertili nei decenni precedenti, che ora poterono invece insediarsi su i terreni più produttivi, spesso andando a occupare i villaggi cosacchi i svuotati, cui assegnarono nuovi nomi.

Un’altra area dove la colonizzazione zarista aveva emarginato sulle terre peggiori i nativi – in questo caso nomadi kazaki e kirghisi, che utilizzavano i terreni loro sottratti come pascolo per le mandrie – era la regione del Semirech’e, in Asia centrale. Anche in questo caso la colonizzazione cosacca era stata significativa (alla vigilia della prima guerra mondiale nella regione vivevano circa 40.000 cosacchi), e ad essa si era aggiunto l’afflusso di centinaia di migliaia di contadini russi e ucraini nei primi anni del XX secolo; le tensioni sociali risultanti da questa politica esplosero in una sanguinosa rivolta scoppiata nel 1916 in seguito al tentativo di mobilitare i nomadi nell’esercito zarista, e repressa con tale spietatezza che la popolazione nativa si ridusse in media di più del 20 per cento (in certi distretti di due terzi) entro il gennaio 1917, a seguito di decessi – che si contarono a decine di migliaia – e spostamenti forzati di popolazione verso le montagne e oltre i confini.

Alla fine del 1916 i rifugiati kazaki e kirghisi nel Sinkiang cinese erano 300.000; solo la rivoluzione del 1917 impedì la messa in pratica di un piano che prevedeva l’espulsione di tutta la popolazione kirghisa dalle regioni della valle del Chu e dall’area che circondava il lago Issyk-Kul.

All’indomani di questi eventi, i soldati-contadini russi di ritorno dal fronte della prima guerra mondiale approfittarono del caos in cui versava la regione per impadronirsi di altre terre dei nomadi: queste appropriazioni furono particolarmente massicce nel Semirech’e, ma nel giugno 1920 venne decretata una riforma agraria da realizzarsi attraverso la sistematica deportazione degli «elementi russi» e, secondo cifre ufficiali, alla fine del 1922 circa 15.000 abitanti di una sessantina di insediamenti erano stati espropriati, e la maggior parte delle loro terre assegnate ai nativi.

Quello che accadde, in pratica, fu che le autorità sovietiche cercarono di ottenere l’appoggio della  popolazione nativa promettendo a quest’ultima non solo di mettere fine alla colonizzazione slava, ma anche di restituire le molte terre di cui i coloni si erano appropriati i tra il 1916 e il 1920.

Il  risultato fu che la riforma agraria, che ebbe luogo (non solo nel Semirech’e) tra il gennaio 1921 e il dicembre i 1922, portò ad espulsioni massicce di coloni slavi e cosacchi, a seguito delle quali il numero di russi residenti in Kazakhstan decrebbe – tra il 1920 e il 1922 – di quasi il 20 per cento, passando da 2,7 a 2,2 milioni di persone.

Sempre nel 1921, gli spostamenti forzati di popolazione furono inclusi fra i mezzi da impiegare per la repressione del «banditismo», termine ufficialmente impiegato dal governo sovietico per indicare le rivolte contadine scatenate dalle requisizioni di generi alimentari. Per schiacciare la più grave di queste rivolte – scoppiata a metà del 1920 nella provincia di Tambov ed estesasi poi nelle regioni del basso Volga e nella Siberia occidentale – 100.000 persone vennero imprigionate o deportate e quindicimila uccise: molte migliaia di detenuti sarebbero stati spediti nei campi di concentramento di Arcangelo e Holmogory, nella Russia settentrionale (17).

La guerra contro i contadini riprese in grande stile nell’inverno 1929-1930, quando Stalin lanciò la collettivizzazione totale delle campagne – essenzialmente allo scopo di facilitare l’estrazione di risorse agricole che fino ad allora lo stato aveva dovuto strappare ogni volta a milioni di nuclei famigliari. Alla collettivizzazione si accompagnò, a partire dal gennaio 1930, la «dekulakizzazione», che si risolse nella deportazione di milioni di veri o presunti kulaki – di fatto di chiunque si opponesse attivamente alla collettivizzazione, anche se in teoria il kulak era un ricco contadino sfruttatore di manodopera salariata.

Il vero obiettivo era neutralizzare i contadini attraverso l’annientamento della loro élite – una generalizzazione della formula applicata contro i cosacchi all’inizio del 1919 e raffinata negli anni successivi nel Kuban e a Tambov. La popolazione fu «categorizzata» in base alla sua «affidabilità» e gli «attivisti controrivoluzionari» destinati all’arresto o all’esecuzione – entro il 1930 la polizia politica ne giustiziò oltre 20.000, inviandone 114.000 altri nei campi di lavoro (tanti quanti nei nove anni precedenti).

Le loro famiglie vennero completamente espropriate ed esiliate in zone remote del paese (Siberia, regione settentrionale della Russia, Kazachstan, Urali), insieme ad una seconda categoria di persone considerate meno ostili, che comprendeva indicativamente 150.000 famiglie. E destino di tutti costoro fu tragico: molti morirono di freddo o di malattie, durante gli interminabili trasferimenti in treno oppure una volta giunti nei «luoghi di colonizzazione», situati nel bel mezzo della steppa o della taiga siberiana, a debita distanza dalle vie di comunicazione.

Entro la fine del 1930 erano già state deportate circa 550.000 persone: a tale cifra va aggiunta quella degli appartenenti alla «terza categoria», circa 250.000 persone trasferite in aree marginali, dal punto di vista geografico e/o della qualità del suolo, delle regioni in cui risiedevano. In seguito il loro numero arrivò ad eguagliare quello dei deportati in zone remote, ai quali da ultimo furono assimilati.

L’anno seguente, a partire dal mese di marzo, una nuova ondata di deportazioni colpì anche i tenitori che fino ad allora erano stati risparmiati, come l’Asia centrale. In totale, secondo i dati ufficiali tra il 1930 e il 1931 furono deportate più di 380.000 famiglie, per un totale di 1,8 milioni di persone: di queste, circa mezzo milione mancava all’appello il 1° gennaio 1932, e anche se molti di costoro erano indubbiamente fuggiti il numero dei decessi dovette essere ugualmente elevato, per cui centinaia di migliaia di contadini e di nomadi morirono prima della grande carestia che tra il 1931 e il 1933 colpì tutta l’Unione Sovietica, infierendo particolarmente sull’Asia centrale e soprattutto sull’Ucraina, dove assunse connotati genocidi.

In Asia centrale, su ordine delle autorità sovietiche quanti vivevano su terreni adatti alla coltivazione furono trasferiti forzatamente allo scopo di trasformare i pascoli in terreni agricoli; tali misure si risolsero nella deportazione dei nomadi su terre marginali e poco produttive, ed ebbero il solo effetto di far morire di fame il bestiame – provocando una catastrofe nel settore dell’allevamento – e far scappare i nomadi, che si trovarono di fronte alla prospettiva della morte per fame a causa dell’interruzione degli scambi con le popolazioni sedentarie, da cui dipendevano per la sussistenza, e delle requisizioni del bestiame.

La carestia si generalizzò già nell’autunno 1931, causando fughe di massa della popolazione verso altre zone dell’Urss e verso l’estero. Tale processo coinvolse probabilmente 1.030.000 persone, delle quali 414.000 sarebbero poi rientrate in Kazakhstan, mentre altrettante s’insediarono in Russia e nelle altre repubbliche centrasiatiche e i rimanenti 200.000 si rifugiarono all’estero.

In generale, la collettivizzazione si risolse ovunque in un disastro economico: non solo i contadini uccisero il bestiame piuttosto che consegnarlo alle fattorie collettive, provocando al patrimonio zootecnico sovietico più danni di quanti ne avrebbe fatti l’invasione tedesca, ma il raccolto dei cereali diminuì nonostante la superficie coltivata fosse stata estesa; in combinazione con le requisizioni statali (la cui incidenza percentuale sul raccolto aumentò anziché diminuire, visto che in termini assoluti le «quote» richieste rimanevano costanti) ciò provocò sin dal 1931-1932 un gran numero di morti per inedia, soprattutto nelle regioni cerealicole – Kazakhstan, Ucraina, Caucaso settentrionale e bacino del Volga.

A partire dall’autunno 1932, Stalin infatti decise di «usare» questa carestia «pan-sovietica» (risultato indiretto, e indesiderato, della collettivizzazione delle campagne) al fine di punire, lasciandoli morire di fame, i contadini che si erano opposti alla collettivizzazione.

La punizione fu particolarmente severa nelle aree in cui la questione contadina s’intrecciava con quella nazionale: non a caso, perciò, colpì con durezza estrema l’Ucraina (dove alla carestia «punitiva» contro i contadini si accompagnò una repressione delle élite politiche e culturali che anticipò la Grande Purga del 1937-38 e segnò la fine del «comunismo nazionale») e il Ruban (dove i residenti furono privati dei diritti loro garantiti dalla politica sovietica delle nazionalità e sottoposti a un processo di assimilazione forzata).

In queste regioni – e solo in queste, a causa di precise scelte politiche della dirigenza sovietica – la carestia pan-sovietica si trasformò nell’Holodomor, la «fame sterminatrice», con tratti autenticamente genocidi, che causò milioni di morti in pochi mesi, oltre quelli già verificatisi nel 1931-1932.

I decessi furono 3,5-3,8 milioni in Ucraina, alcune centinaia di migliaia nelle regioni del Volga (dove le aree abitate da tedeschi furono le più duramente colpite) e del Caucaso settentrionale, e 1,3-1,5 milioni in Kazakhstan; in questa regione le perdite percentuali tra le popolazione di etnia kazaca furono le più alte in assoluto, in quanto equivalsero a circa un terzo della stessa. Inoltre, la crisi scatenata dalla carestia portò, com’era prevedibile, ad una nuova ondata di repressioni: 268.000 contadini furono deportati nel solo 1953, portando il totale delle persone «reinsediate» a forza in regioni remote a 2,3 milioni.

Nella storia degli spostamenti forzati di popolazione in Unione Sovietica, il 1933 è poi un anno particolarmente importante perché segna il passaggio dalle deportazioni su basi «classiste», che avevano caratterizzato la collettivizzazione e la dekulakizzazione, a quelle su base etnica che si ripeterono quasi ad ogni pie sospinto nei due decenni successivi.

Il punto di svolta fu probabilmente la deportazione di 60.000 cosacchi del Kuban in base a un decreto emanato il 14 dicembre 1932 e attuato nel mese successivo. Sotto certi aspetti si trattò di un ritorno alle pratiche della «decosacchizzazione» del 1918-1921, e sotto altri di una delle tante repressioni portate avanti in collegamento con la collettivizzazione e la dekulakizzazione. Mai però prima di allora erano stati coinvolti interi villaggi, né erano state mosse accuse di nazionalismo (ucraino, in quel caso).

Questa componente «etnica» distingue dunque la deportazione dei cosacchi del Kuban da quelle precedenti e sarebbe divenuta prevalente nelle deportazioni dell’epoca successiva (18).

Il 1° dicembre 1934 l’assassinio di Kirov diede a Stalin il pretesto per lanciare la più spietata campagna repressiva della storia sovietica, nonché l’unica che colpì anche le élite. In realtà, le violenze contro i vertici politici, militari e sociali sovietici costituirono solo una piccola (benché significativa) parte della «Grande Purga», che fece lòa stragrande maggioranza delle sue vittime nel corso delle «operazioni di massa» portate a termine a partire dalla seconda metà del 1937 e organizzate in base  a precise categorie nazionali e sociali che comprendevano gli ex kulaki, i condannati a pene detentive di una certa rilevanza e gli appartenenti a un certo numero di gruppi etnici considerati «inaffidabili».

La Grande Purga seguì insomma il modello «profilattico» e «categoriale» delle precedenti repressioni, distinguendosi unicamente per la sua particolare durezza, che comportò centinaia di migliaia di esecuzioni. Il desiderio di «ripulire» la società da potenziali quinte colonne, in previsione di una guerra ormai considerata imminente, sembra esserne stato il principale catalizzatore: la purga prese di mira chiunque avesse un qualche legame con l’estero suscettibile di essere considerato una minaccia per la sicurezza dello stato sovietico (in base a considerazioni la cui razionalità non esclude una componente paranoica).

Benché in questa categoria rientrassero perfino filatelici ed esperantisti, i principali componenti della stessa erano gli appartenenti a minoranze nazionali facenti riferimento a una «madrepatria esterna» ai confini sovietici, le cosiddette «nazionalità della diaspora».

Deportazioni su base etnica avevano già avuto luogo durante la collettivizzazione e la dekulakizzazione: nel marzo 1930 era stato ordinato che le deportazioni di kulaki dall’Ucraina e dalla Bielorussia coinvolgessero in primo luogo i contadini di nazionalità polacca, per ragioni cui non era estranea l’ostilità popolare nei loro confronti.

Una sistematica «ripulitura» delle regioni di confine, mirante a sbarazzarle degli elementi «inaffidabili», cominciò solo nel 1935; in un certo senso si trattava di una replica delle politiche attuate dal regime zarista nel 1914-1915, con la differenza che, per la prima volta in Europa, un provvedimento del genere veniva preso in tempo di pace come misura preventiva.

Nel mirino erano kulaki e appartenenti alle «nazionalità della diaspora» (tedeschi, polacchi, finlandesi, estoni e lettoni): nel solo 1935 ne furono deportati 41.000 dalle regioni di confine dell’Ucraina sovietica, 23.000 dalla Carelia e dalla provincia di Leningrado e 22.000 dal Caucaso settentrionale.

Questi ultimi due contingenti furono inviati in Siberia, Asia centrale e Kazakistan, dove, nel 1936, giunsero 70.000 altri polacchi e tedeschi dall’Ucraina. Fu tuttavia in Estremo Oriente che la «ripulitura» delle zone di confine dagli «elementi inaffidabili» diede luogo per la prima volta a una vera e propria pulizia etnica.

Ne furono vittime i cittadini sovietici di nazionalità coreana che risiedevano nelle zone di confine con la Manciuria e la Corea e conservavano legami familiari con queste regioni all’epoca controllate dal Giappone, che, nel 1937, aveva iniziato la conquista della Cina e nel 1939 si sarebbe scontrato con la stessa Unione Sovietica in una breve campagna militare.

Tanto bastava per renderli sospetti e ordinarne la deportazione in massa: entro la fine di ottobre 1937, 172.000 persone vennero stipate su 124 convogli ferroviari e spedite in Asia centrale, dove giunsero dopo un viaggio di un mese in condizioni disumane.

Con loro furono esiliati 11.000 cinesi, mentre furono arrestati centinaia di polacchi, tedeschi, lettoni e lituani (oltre a circa 9.000 membri del partito comunista e dell’Armata Rossa considerati «inaffidabili»).

Secondo dati ufficiati, malnutrizione e malattie uccisero 40.000 esiliati (il 22 per cento del totale) entro la fine del 1938, soprattutto vecchi e bambini. Negli anni successivi la mortalità calò bruscamente, anche grazie all’inserimento dei deportati nella struttura economica delle regioni d’arrivo.

La maggior parte di loro venne avviata ai lavori agricoli (soprattutto la risicoltura, loro attività tradizionale) nelle zone fluviali dell’Uzbekistan e del Kazakhstan. Più della metà delle famiglie fu sistemata in fattorie collettive di soli coreani: paradossalmente, la politica sovietica delle nazionalità restava in vigore anche per le vittime della pulizia etnica

La deportazione di massa dei coreani coincise con il lancio di una massiccia campagna repressiva contro le nazionalità «inaffidabili», che prese di mira gli appartenenti a queste ultime in quanto tali e non solo i residenti nelle regioni di confine (benché la «ripulitura» di queste ultime continuasse con deportazioni che colpirono curdi, iraniani e di nuovo i tedeschi dell’Ucraina).

Già nel 1936 la Nkvd aveva cominciato una «purga» degli emigrati politici presenti in territorio sovietico, che portò nelle carceri, nel Gulag e non di rado alla morte molti comunisti stranieri rifugiatisi in territorio sovietico (tedeschi e polacchi per primi). Ben presto cominciò però una campagna di arresti su larga scala che, con l’inizio delle «operazioni di massa» nell’estate del 1937, portò a una vera e propria campagna di repressione specificamente diretta contro le nazionalità della diaspora. Il primo bersaglio furono i polacchi, ma ben presto si aggiunsero lettoni, tedeschi, estoni, finlandesi, greci, iraniani, cinesi, romeni, macedoni e bulgari.

Furono anche perseguitati gruppi non-nazionali ugualmente sospetti per i loro legami con l’estero, dagli immigrati clandestini agli ex prigionieri di guerra, fino agli ex dipendenti della ferrovia della Cina orientale i quali avevano vissuto nella città cinese di Harbin, centro dell’emigrazione antibolscevica durante e dopo la i guerra civile, ed erano dunque particolarmente «sospetti» agli occhi del Nkvd nonostante fossero perlopiù russi.

Il vero obiettivo della «purga» delle nazionalità era insomma la soppressione preventiva di ogni potenziale «quinta colonna» esistente all’interno dell’Unione Sovietica e infatti le nazionalità della diaspora prive di una «madrepatria esterna» cui fare riferimento, come gli ebrei o gli assiri, non furono prese di mira.

Anche se non è facile fare un bilancio di queste repressioni, si può affermare senza ombra di dubbio che esse costituirono una parte sostanziale della purga – su 1,5 milioni arresti per motivi politici tra il 1° ottobre 1936 e il 1° novembre 1938, 335.000 avvennero nell’ambito delle «operazioni nazionali» – e furono particolarmente cruente: circa i due terzi dei casi sfociarono in  esecuzioni capitali, la cui percentuale in alcuni casi sfiorò o superò l’80 per cento.

D’altro canto, nel 1939 i cittadini sovietici rinchiusi nei campi di lavoro forzato erano meno dell’1 per cento della popolazione complessiva; tale percentuale era perlomeno doppia (e talvolta più che quadrupla) per alcune nazionalità, come i polacchi, i lettoni, i lituani e i tedeschi (19).

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