Le militanti contestano l’inserimento dell’identità di genere nella norma: «Danneggia le donne». E i «buoni» le insultano
di Francesco Borgonovo
Chissà, magari lo sciagurato disegno di legge Zan-Scalfarotto contro l’omofobia potrebbe persino rivelare un risvolto positivo. Certo, rimane una delle norme peggiori mai proposte da quando esiste la Repubblica; è un testo liberticida che prevede pene assurde e vergognose per chiunque osi esprimere un pensiero diverso da quello imposto dal Cervello Unico Progressista.
Eppure -guarda un po’ la provvidenza -da questo scempio è germogliata una cosa buona. Il fatto è che il ddl in questione è talmente ottuso e ideologico da aver irritato anche una bella fetta di chi inizialmente lo aveva sostenuto. Non solo: grazie alle assurdità contenute nel testo, pure a sinistra, qualcuno comincia a rendersi conto che le teorie gender sono una iattura.
A insorgere sono soprattutto attiviste femministe e militanti lesbiche, le quali hanno colto un punto fondamentale: le istanze del fanatismo gender non portano più diritti ma, in compenso, distruggono l’essere umano, colpendo soprattutto le donne. Nei giorni scorsi, una rete di associazioni femministe (tra cui spicca «Se non ora, quando») ha diffuso un comunicato piuttosto ruvido rivolto al relatore del ddl, Alessandro Zan (Pd).
«La legge contro l’omo-lesbo-transfobia che si discute in Commissione giustizia alla Camera dei deputati», scrivono le attiviste, «vuole prevenire violenze e discriminazioni basate su “sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere”. Chiediamo al relatore onorevole Zan: perché vuole usare l’espressione identità di genere invece che transessualità? Scrivere identità di genere infatti, permette a chiunque di autocertificarsi con un sesso diverso da quello con cui è nato. Un uomo può dichiararsi donna, una donna può dichiararsi uomo, a prescindere dalla realtà del corpo. L’inafferrabile concetto di identità di genere ha creato scontri e ingiustizie ai danni delle donne in Inghilterra e negli Usa (i casi più noti quelli di J. K. Rowling e Martina Navratilova) e non vogliamo che accada anche qui».
Il ragionamento è chiarissimo e anche particolarmente condivisibile. Introdurre in una legge italiana il concetto di «identità di genere» è molto pericoloso, perché significa minare alla base l’identità femminile. Il pensiero femminista contemporaneo, che è estremamente variegato, sull’argomento ha sviluppato negli ultimi anni posizioni interessanti.
Sono sempre di più, infatti, le militanti radicali che si oppongono alle teorie gender basate sulla decostruzione del sesso. Costoro contestano l’idea che basti «voler essere» o «sentirsi» donna per diventarlo. Giusto ieri Repubblica ha riportato l’opinione di Fabrizia Giuliani, filosofa del linguaggio ed ex deputata del Pd, che è stata una grande sostenitrice della legge antiomofobia. Ebbene, la Giuliani appare piuttosto critica verso il ddl Zan.
«Noi femministe ci siamo sempre battute per liberare il corpo, non per cancellarlo», dice la filosofa. «C’è un nocciolo biologico che ha costruito la storia dei due generi».Certo, la Giuliani è tra le prime a vedere «omofobi» e «misogini» dappertutto. Però le sue parole dimostrano che, quando si arriva al cuore del discorso sul gender, i nodi vengono al pettine. Sono gli stessi nodi che fa emergere Cristina Gramolini, presidente di Arcilesbica.
Anche lei ha sempre chiesto a gran voce una legge contro l’omofobia, e ora dichiara: «Noi vogliamo fortemente una legge ma usarla per introdurre nell’ordinamento il concetto di autodeterminazione di genere, avallando come identità giuridica anche la sola autopercezione, è improprio». Solo che il relatore del ddl, Alessandro Zan, non vuoi sentire ragioni. Secondo lui, togliere la dicitura «identità di genere» e sostituirla con «identità transessuale» causerebbe una discriminazione: sarebbero esclusi «i trans non operati».
Ed ecco che tutte le contraddizioni del pensiero Lgbt esplodono. Con questa risposta, Zan svela il grande inganno. Il martellamento gender non serve a proteggere una minoranza (i transessuali) che peraltro è già tutelata dalla legge attuale. Serve piuttosto a imporre l’idea che chiunque possa dichiararsi uomo, donna o altro esclusivamente in base a un desiderio.
Sostenere che anche un trans non operato -cioè, biologicamente, un uomo- può dichiararsi donna, significa distruggere la differenza femminile. Significa ammettere che la femmina non esiste, che è solo una costruzione sociale, una «F» scritta su un documento. Ma c’è di più. Lo scontro in corso a sinistra non si limita a svelare la pericolosità di certa ideologia Lgbt.
Mostra pure che i primi spargitori di intolleranza e odio sono proprio i sostenitori della legge bavaglio anti omofobia. Le lesbiche, per le sacrosante critiche rivolte ai trans in nome delle donne, vengono da tempo insultate, maltrattate e osteggiate persino dall’Arci-gay.
Le militanti femministe subiscono la stessa sorte. Ne sa qualcosa Monica Ricci Sargentini, firma del Corriere della Sera, da sempre schierata in difesa dei diritti arcobaleno. Ha espresso un’opinione sul ddl Zan sgradita ai censori Lgbt ed immediatamente l’hanno presa di mira: «Ho spiegato perché mi oppongo alla legge contro l’omotransfobia», ha scritto su Twitter, «e subito mi hanno detto che sono omofoba. Avanti così. Finiremo tutte in carcere».
Beh, per non finire in carcere una strada ci sarebbe: impedire che la legge bavaglio sia approvata. Se le attiviste di sinistra, per una volta, superassero i loro pregiudizi ideologici e facessero fronte comune con alcune forze di destra, fermare lo scempio sarebbe possibile.