Pubblichiamo di seguito per la rubrica di Bioetica l’intervento di Leonardo M. Macrobio, della Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum.
Sembra, dunque, che questa parola stia prendendo sempre più piede nelle “conversazioni” elettroniche: l’eugenetica è in alcuni siti condannata come il male peggiore dell’umanità, in altri è declinata in una sorta di decalogo per futuri genitori, in altri ancora è legata strettamente al progresso delle scienze genetiche.
Cosa, dunque, è eugenetica e come si può accostare all’aborto?
1. Etimo e… ingredienti
Il termine eugenetica deriva dal greco antico e significa “buona/desiderabile nascita”. Nonostante l’apparente lontananza cronologica, la parola eugenetica viene usata per la prima volta nel 1883 da Sir Francis Galton nel suo Inquiries into Human Faculties, con questo significato: “scienza per il miglioramento della specie umana dando alle razze e ceppi di miglior sangue una maggiore probabilità di prevalere sopra i meno dotati”.
La preoccupazione di “migliorare la specie umana” non è certamente nuova né è stata “inventata” da Galton. E Galton non ha nemmeno inventato il metodo per perseguire questo fine: già Platone, nella sua Repubblica esprimeva la necessità di migliorare la “qualità” della polis concedendo ai più valenti maggiori possibilità di avere figli.
Niente di nuovo sotto il sole? Non proprio. Se per Platone (ed altri più o meno contemporanei: Aristotele, il diritto Romano, le consuetudini spartane eccetera) l’eugenetica era qualcosa di empirico, di tentativo, all’epoca di Galton si introduce un elemento, per così dire, “scientifico”. Ma questo è già uno degli ingredienti della moderna eugenetica: conviene, dunque, elencarli uno per uno.
a. Scientismo. Come tutti gli “-ismi”, anche lo scientismo è una degenerazione della parola originante. Intendiamo per scientismo quel particolare approccio alla realtà che implica che tutto sia misurabile (materialismo), ossia che esista solo ciò che è misurabile (riduzionismo materialista) e che, infine, tutto ciò che statisticamente sia normale, diventi per ciò stesso normativo (riduzionismo etico).
Si tratta, con tutta evidenza, di un uso ideologico (ossia non realistico) della scienza e in quanto tale criticabile e, di fatto, criticato dalla stessa scienza. Concretamente lo scientismo riduce l’uomo ad una sorta di “macchina”, estremamente complessa ma pur sempre macchina.
Ed ogni malattia di questo organismo è trattata come se fosse un guasto ad una macchina: finché la riparazione vale la pena la si tenta, quando è troppo “cara” si preferisce rottamare la macchina per acquistarne, eventualmente, una nuova. Si assiste, così, ad una strana uguaglianza: la malattia ed il soggetto portatore si identificano, tanto più quanto la prima è grave (e, diciamolo, quanto più il secondo è piccolo o comunque debole).
I parametri per giudicare la persona sono dunque eminentemente medici, ed è sufficiente una diagnosi (con tutto ciò che questo termine comporta, ivi inclusi i rischi di errore diagnostico…) per prendere determinate decisioni. Ma non è forse vero che l’uomo è più del suo corpo e certamente più della malattia? Non che la salute non sia un bene, ma certamente non è il bene più prezioso in assoluto, non così alto da doverlo ottenere a tutti i costi. Vi sono dimensioni della persona che esulano dalla “misurazione” e che sono comunque fondanti per la vita. Ma di questo lo scientismo non sembra tenere conto.
b. Bomba demografica ed ambientalismo. Sembrerà strano, ma non è a partire dagli anni ’70 che si pensa di essere in troppi sulla Terra… Già secoli prima che Paul Ehrlich pubblicasse il suo Population Bomb, illustri saggi dell’Antica Grecia e della Roma imperiale si lamentavano del sovraffollamento: l’Europa contava in quel periodo pochi milioni di abitanti.
E sembrerà strano a molti sapere che la prima commissione di tutela dell’ambiente contro l’inquinamento è nata in Inghilterra nel 1285. È però solo con Malthus (siamo nel tardo ‘700, quando questo Pensatore pubblica il suo Saggio sulla popolazione) che la problematica demografica assume una connotazione sistematica.
Le sue teorie (smentite sia dai fatti che da numerosi studi) ancora oggi hanno una forte presa, e possono essere riassunte grossomodo così: la popolazione cresce con un ritmo molto maggiore rispetto alla crescita della disponibilità delle risorse. L’idea è semplice: se da un campo di grano, ad esempio, si possono ottenere al massimo 100 tonnellate di farina, questo è il massimo che si può chiedere a quell’appezzamento.
Ora, se con 100 tonnellate di farina si sfamano 1.000 persone (i numeri sono veramente casuali), questo è il numero massimo di persone che potranno gravitare attorno a quel campo. Spostiamo il ragionamento da un campo all’intero ecosistema ed il gioco è fatto: se l’ecosistema può produrre 100 e con questo ci si sfama 1.000, allora oltre questo limite di popolazione non si può andare.
Ovviamente i calcoli sono complessi, perché la Terra è estremamente differenziata, facendo così aumentare il numero delle variabili in gioco ed in questo processo di computo non si può non tener conto della questione ambientale: ci va una attenzione particolare ad uno sfruttamento sostenibile (questa è la parolina “magica”) del suolo e delle risorse, così da poter ottenere il giusto e rispettare l’ambiente.
Ora, a costo di voler sembrare controcorrente, mi permetto di far notare alcune incongruenze. Innanzitutto non è detto che da quell’appezzamento di terreno si possa sempre e solo ottenere 100. Non sono un esperto in materia, ma ritengo che le coltivazioni odierne abbiano una resa molto maggiore di quelle medievali ed infinitamente superiore rispetto a quelle dell’Uomo di Neanderthal.
Attraverso ibridazioni (che avvengano sul terreno o in un laboratorio poco conta: sono sempre geni di una specie che vanno a finire all’interno di un’altra razza) e continue migliorie l’uomo è infatti riuscito ad ottenere colture con basso scarto e con necessità di irrigazioni sempre minori. Dobbiamo comunque ritenere che, pur arrivando magari a 1.000 o 2.000, ad un certo punto si toccherà il limite massimo teorico di produzione di quel determinato appezzamento.
Ma, uscendo dall’esempio del terreno: è proprio necessario basarsi sempre sulla stessa risorsa? Non è ipotizzabile cambiare risorse e risolvere così il problema (quasi) alla radice? Faccio un esempio molto banale: duecento anni fa con la sabbia, al massimo, ci si costruiva un muro o una bella casa o un castello.
Oggi con la stessa sabbia, opportunamente trattata, ci si producono i microchip ed altri componenti elettronici che permettono a me di scrivere queste parole e a voi di leggerle. Ad essere precisi il computer è composto anche di plastica, un derivato del petrolio, altro elemento che fino a qualche secolo fa era ritenuto di scarto…
c. Evoluzionismo ed evoluzionismo sociale. Punto cardine dell’evoluzionismo è che tutte le specie viventi derivano da uno stesso progenitore (alcune scuole, però, ammettono l’esistenza di più progenitori: la cosa non cambia di molto per il nostro discorso). A forza di “prove ed errori”, da questo unico essere si sono evoluti (cioè diretti verso una forma più perfetta) tutti gli esseri che oggi popolano la Terra e che, sempre attraverso questo processo di mutazione casuale, popoleranno la Terra del futuro.
In pratica una caratteristica morfologica che si sia prodotta casualmente in un esemplare e che risulti particolarmente idonea per la sopravvivenza dello stesso verrà passata alle generazioni successive per il fatto che il soggetto “mutato” avrà maggiori possibilità di sopravvivere (e dunque di procreare) rispetto agli altri. I due fattori chiave di questo processo sono evidentemente i grandi numeri ed il tempo.
Grandi numeri perché, evidentemente, il caso non ha, per definizione, un progetto: produce mutazioni in maniera del tutto random. E non è sempre detto che una mutazione sia, solo perché è una mutazione, vincente: quante giraffe con le gambe lunghe ed il collo corto e quante con le gambe corte ed il collo lungo sono dovute nascere per ottenerne una con le gambe ed il collo entrambi lunghi?
Ma ancor di più: quanti “protopesci” sono dovuti estinguersi per poter ottenere una mutazione tale da dotare il nuovo individuo di polmoni anziché di branchie? Ecco, dunque, che oltre ai grandi numeri è necessario un grande tempo: le mutazioni non sono istantanee e, se va bene, si producono da una generazione all’altra.
Realisticamente, però, sono necessarie parecchie generazioni perché una mutazione (che ricordiamo è casuale) diventi sufficientemente “stabile” perché possa aversi in tutte le generazioni future (i genetisti chiamano queste caratteristiche “dominanti”). Insomma: per passare da un essere unicellulare ad un uomo (o, se vogliamo, ad un delfino, ad un bonobo, ad una gallina…) sono dovute intervenire tante e tali modificazioni vincenti (e, ancora una volta: casuali) da richiedere miliardi di “vittime” e miliardi di anni.
Alcuni studiosi (relata refero: non entro nel dibattito) hanno calcolato che non sarebbero nemmeno sufficienti gli anni di vita della nostra Terra. Quali sono le conseguenze di questo processo per il nostro discorso? A livello antropologico se l’uomo discende dalle scimmie, si deve riconoscere che tra gli esseri “inferiori” (un termine oggi politicamente scorretto) e l’uomo non vi è salto, non vi è sostanziale differenza.
Ma vi è di più: se discendiamo dalle scimmie perché non dovrebbe essere valida anche per noi la “morale” delle scimmie (e qui, allora si scopre che molte specie animali hanno comportamenti omosessuali, sono poligame, infanticide, che uccidono o abbandonano gli esemplari più deboli o anziani…)? O, ancora più radicalmente: se tutto è in evoluzione, perché anche il concetto di “bene” e di “male” non dovrebbero essere in evoluzione e, dunque, frutto di evoluzione essi stessi?
E qui si scopre come gli “antichi” fossero a favore di questa o quell’altra pratica (dall’aborto all’omosessualità) mentre noi oggi ne siamo contro. Insomma: l’evoluzionismo “pialla” l’uomo al livello delle altre specie viventi dal punto di vista biologico ed antropologico, mentre la sua variante “sociale” lo “pialla” dal punto di vista della trascendenza.
Ora, ogni tentativo di negare la dimensione trascendente dell’uomo è storicamente fallito: la natura umana è fatta per il trascendente, ha una naturale “sete” di infinito. I filosofi hanno descritto questo status di dipendenza dall’Assoluto, Cristo ha svelato questa sete e si è proposto come acqua viva.
2. E tutto questo, che c’entra con l’aborto?
L’eugenetica, nella storia recente, ha assunto il volto di Hitler e dei campi di sterminio, ed è dunque normale che qualsiasi medico non tolleri che un suo atto sia descritto come eugenetico. Ma tant’è: dal momento in cui io stabilisco a priori delle caratteristiche indesiderabili ed opero in modo da eliminare i portatori di queste caratteristiche o fare in modo che i portatori (eventualmente sani) non abbiano figli, sto compiendo un atto in perfetta linea con la definizione galtoniana di eugenetica.
Personalità di spicco come il dott. Carlo Bellieni hanno parlato di handifobia, neologismo che indica la paura dell’handicap(pato), di ciò che non può essere controllato, dominato, calcolato. Padre John Flynn, LC, ha parlato di “screening estetico” per indicare la (maniacale) ricerca della perfezione del nascituro eliminando chi perfetto non è. La strada che troppo spesso viene intrapresa, dunque, è quella della selezione eugenetica piuttosto che quella, più faticosa ma anche più arricchente, della ricerca delle cause (e possibilmente di cure) per determinate patologie.
Le considerazioni da fare sono almeno tre: una sulla effettiva validità di un “elenco” di caratteristiche (in)desiderabili, una seconda sull’eliminazione dei “non-adatti”, una terza sul numero degli aborti.
Un atlante di patologia medica? I problemi che si pongono nello stilare un simile elenco sono almeno due: chi lo può/deve fare e quale sia la sua eventuale validità. Chi è in grado di stilare un ipotetico elenco di caratteristiche (in)desiderabili? Se è la scienza si rischia di cadere nel quadro scientista che abbiamo definito poco sopra.
Ma anche quando non fosse questo il caso: è lecito chiedere alla medicina di accollarsi questo tipo di responsabilità? Potremmo, allora, ipotizzare che sia la società a definire delle “linee guida” di una corretta “qualità di vita”, e concretamente gli organi di governo di uno Stato o quelli sovrannazionali. Al di là di ogni tipo di sopruso (governi totalitari oppure la “tirannide della democrazia”, per cui comanda a tutti gli effetti chi ha almeno un voto in più degli altri), non si rischia di cadere in una mentalità di “Stato etico” per cui a decidere il bene o il male è un Parlamento?
Quale, poi, la possibile validità nel tempo di un siffatto elenco? Patologie che cent’anni fa erano altamente mortali oggi sono totalmente debellate o quantomeno sono curabili o gestibili. Dobbiamo dunque prevedere una revisione costante di questo elenco: ma a che ritmi? Ma vi è un’ulteriore obiezione, molto più radicale: stabilito, ad esempio, che la spina bifida sia una patologia sufficientemente invalidante da giustificare un eventuale ricorso all’aborto, chi mai finanzierà nuove ricerche per sconfiggere questa malattia?
L’eliminazione dei non-adatti Arriviamo, dunque, al nocciolo delle nostre considerazioni. Vi sono, in questo momento storico, pressioni notevoli affinché i “non-adatti” (cioè i portatori di caratteristiche non desiderabili) siano eliminati. Come abbiamo notato è un errore innanzitutto epistemologico: si fa cioè coincidere il malato con la malattia e per debellare questa si elimina quello. E questo è il primo fattore di pressione.
Vi sono poi fattori di tipo economico (o meglio, di allocazione delle risorse sanitarie): il costo di un aborto è certamente minore rispetto all’assistenza (a volte realmente complessa) di un bambino con determinate patologie. Ma anche fattori “sociali”: il nucleo famigliare si è estremamente modificato nel corso degli ultimi decenni.
L’esito (sancito anche dalla Legge 194/78: il padre non è necessariamente coinvolto nella scelta abortiva) è che la famiglia (o, peggio, la donna) si trova da sola a dover portare il peso di una gravidanza problematica. È evidentemente molto più pesante l’ipotesi di doversi sobbarcare totalmente il peso di un bambino Down piuttosto che non il poter condividere questa responsabilità con amici e parenti in maniera fattiva.
Questi (ed altri) fattori sono evidentemente estrinseci rispetto alla decisione della donna di ricorrere all’aborto, ma non per questo sono ininfluenti. Anzi: è evidente che la volontà della madre verrà condizionata già a partire dal modo con cui il medico prospetterà la diagnosi (ricordiamolo: a volte può anche essere sbagliata…) alla madre. Se a questo si aggiungono i fattori che abbiamo descritto poco sopra, ci si può lecitamente interrogare sulla veridicità del consenso che la madre fornisce all’atto abortivo.
Dati e considerazioni finali Fonti ufficiali come l’Organizzazione Mondiale della Sanità parlano di circa 40 milioni di aborti all’anno, mentre altre fonti arrivano ad ipotizzarne 60 o 80 milioni. In Italia dal maggio 1978 al 2005 (ultimi dati ufficiali) ci sono stati 4.623.886 aborti, una media di più di 171.000 all’anno.
Se è vero che, in termini assoluti, il numero di aborti è diminuito (il “picco” degli anni 1982 e 1983 di 235.000 aborti all’anno è sceso fino a 135.000), è altrettanto vero che, contestualmente, sono diminuite le nascite. Prendendo in mano gli annuari ISTAT e facendo un po’ di calcoli si nota come il rapporto tra aborti e nascite sia grossomodo costante, attestandosi a circa un aborto ogni 4 nati.
Se ci si spinge un po’ oltre, si possono fare alcune considerazioni di carattere sociale. Innanzitutto: la legge 194/78 è in vigore da quasi trent’anni. Sebbene l’età media del primo figlio si sia innalzata parecchio in questo periodo, è lecito ritenere che di questi quattro milioni e mezzo di non-nati una parte oggi sarebbero mamme e papà.
Siamo, se mi si passa l’espressione, alla seconda generazione di non-nati. E allora nasce spontanea la domanda: quale sarebbe il volto dell’Italia con 65 milioni di abitanti invece che i 60 attuali? I “catastrofisti” rispondano pure che ci sarebbero ancora meno posti di lavoro, che si starebbe ancora più stretti, che le spese sanitarie sarebbero alle stelle e così via.
Chi la pensa così ritiene che un essere umano, una persona, non sia una ricchezza ma un costo, non sia un bene ma un male, non sia un sollievo ma un peso. Io ritengo che cinque milioni di esseri umani un più, oltre ad essere una ricchezza insostituibile di per sé, siano un ottimo volano per molti comparti della vita pubblica.
La scuola, ad esempio, forse non dovrebbe più fronteggiare il problema dell’esubero degli insegnanti, perché ci sarebbero mediamente 170 mila alunni all’anno in più. Il mondo del lavoro, poi, potrebbe avere un altro beneficio sia dall’arrivo di nuove forze (ricordiamo che il sistema previdenziale italiano si basa sui contributi pagati dal lavoratore attivo…) sia, più banalmente, dalla presenza di nuovi consumatori.
Certo, non sarebbero solo rose e fiori: ma questo è il rischio che l’umanità (anzi, ogni genitore) ha corso dal suo inizio, da quando ha iniziato il suo cammino nella storia e che sempre continuerà a correre finchè deciderà di mettere al mondo un figlio. In questo la posizione cristiana si rivela, ancora una volta, la più realista.
Il fatto che ogni figlio (sia esso sano piuttosto che malato) sia considerato come dono di Dio ricorda al genitore che quel figlio non è suo: non può disporne come meglio crede anche se, nei fatti, ciò è “tecnicamente” possibile. Questa indisponibilità radicale, che fa da contraltare alla assoluta debolezza del bambino, è la radice della responsabilità dell’essere genitore: non vi possono essere caratteristiche fisiche e/o psichiche che spostino di un solo millimetro questo stato di cose stabilito dalla natura o, più semplicemente, da Dio.