La Nuova bussola quotidiana 5 Maggio 2018
L’eugenetica è figlia del darwinismo? Benché il suo primo teorizzatore, Francis Galton, abbia coniato il termine un anno dopo la morte di suo cugino Darwin, l’eugenetica deve tutto al darwinismo. E si presenta come la tecnica adatta a “correggere” gli errori dell’evoluzione della specie, eliminando fisicamente chi è fisicamente “indegno”.
di Marco Respinti
Nei giorni scorsi, il lettore Massimo Campostrini ha indirizzato una lettera intelligente al direttore de La nuova Bussola Quotidiana per sottrarre la terra sotto ai piedi a quei fautori della logica eugenetica che si trincerano dietro la “scienza” dell’evoluzionismo darwiniano, usando il darwinismo contro il darwinismo.
Campostrini ha ragione a dire, sul filo del paradosso, che se per il darwinismo le specie migliori e gli elementi migliori di ciascuna specie sono quelli che hanno maggiore successo riproduttivo (motivo per cui sono migliori e progrediscono a discapito dei peggiori), essi si produrranno da soli nella selezione migliorativa senza bisogno di alcun intervento esterno, il quale, anzi, adultererebbe indebitamente tale meccanismo naturale favorendo le specie e gl’individui che, se non godono di miglior successo riproduttivo, significa che non sono affatto i migliori.
L’eugenetica, insomma, intesa come aiuto artificiale alla natura nell’opera di selezione, per via sessuale, delle specie migliori e degl’individui migliori di ciascuna specie sarebbe cioè il contrario del sostanziale laissez-faire in cui si risolverebbe il darwinismo. Vero. Purtroppo però non è andata così.
Apparentemente il naturalista inglese Charles Darwin (1809-1882) non scrisse di eugenetica. Non esisteva nemmeno il termine, inventato, un anno dopo la morte di Darwin, dall’esploratore e antropologo pure inglese Sir Francis Galton (1822-1911). Il termine Galton lo inventò, a coronamento di più di un ventennio di riflessioni e di “studi”, traendo un neologismo da due termini greci, eu, “buono” e genos, “stirpe”, a p. 24 d’Inquiries into Human Faculty and Its Development, uscito a Londra nel 1883 per i tipi di Macmillan.
Qui immediatamente egli precisa – alla nota 1 contenuta nelle pp. 24-25 – che l’eugenetica è «[…] la scienza del miglioramento della stirpe», un concetto «[…] egualmente applicabile agli uomini, ai bruti [cioè agli animali] e alle piante», scienza che «[…] non è per nulla confinata a questioni d’incroci accorti, ma che, specialmente nel caso dell’uomo, tiene conto di tutte le influenze che tendono, per quanto remotamente, a dare alle razze o ai ceppi sanguigni più adatti una possibilità migliore di prevalere rapidamente sui meno adatti di quanto essi avrebbero altrimenti avuto».
Spiega poi Galton che “eugenetica” è parola felice per la concisione con cui veicola alla perfezione il concetto, battendo in breccia il desueto “viricultura”. Ecco, questo “culturismo” è quello che oggi chiamiamo tranquillamente – si fa per dire – ingegneria genetica, sposa incestuosa di sua sorella, l’eutanasia.
Galton era il cugino di secondo grado di Darwin, e questo di per sé sarebbe il meno (i figli non sono responsabili delle colpe dei padri, figuriamoci i biscugini). Il punto è però che fu un darwinista entusiasta. La pubblicazione, nel 1859, di L’origine delle specie di Darwin gli cambiò la vita. Lo colpirono specialmente la pagine su incroci e selezione. Darwin parlava per lo più di bestiame, ma in fin dei conti, soprattutto per la cultura materialista dell’epoca, l’uomo non è forse soltanto un altro animale?
Del resto Galton condurrà anche “ricerche” statistiche sul potere della preghiera – i cui risultati affidò al saggio Statistical Inquiries into the Efficacy of Prayerpubblicato nel fascicolo del 1° agosto 1872 di The Fortnightly Review– per concludere che le preghiere non hanno alcun effetto sulla longevità di coloro per le quali sono offerte. Convinto che le qualità migliori fossero ereditabili da un individuo all’altro – concezione esposta in Hereditary Genius del 1869 (Macmillan), strampalata ma dal futuro assicurato – Galton cominciò a teorizzare l’applicazione degl’incroci selettivi d’allevamento all’essere umano; in breve, l’uomo venne concepito come l’ennesimo prodotto della zootecnia.
Chi doveva incaricarsi di allevarne la stirpe migliore, favorendo la trasmissione delle sue grandi qualità e scartando le altre? Lo Stato. A partire dagli anni 1920, gli hanno dato retta in molti: alcuni degli Stati Uniti d’America, il Canada, il Brasile, il Giappone, la Francia, la Germania, la Gran Bretagna – con l’appoggio di parte del clero anglicano – il Belgio e la Svezia con un fiorire di leggi per il “miglioramento della razza” e la sterilizzazione obbligatoria degli “indegni” in un crescendo culminato nel regime nazionalsocialista di Adolf Hitler (1889-1945).
Colpa di Galton, certo, ma Galton non avrebbe potuto nulla senza il principio primo del darwinismo: le specie viventi migliorerebbero progressivamente modificandosi fino a dare vita a specie nuove mediante quella che, dopo Darwin, si sarebbe chiamata genetica, così che la vita attuale sarebbe sempre il distillato più avanzato di tutta la vita che ci ha preceduto nel tempo finalmente epurata da scarti, vicoli ciechi e false partenze, e costantemente pronta a nuove trasformazioni migliorative, cioè a declassare domani la vita migliore di oggi a ennesimo rifiuto obsoleto di ieri.
Fu questo che affascinò Galton nel mezzo di quella temperie culturale in cui l’illuminismo si trasformava in positivismo e dove nel nuovo concetto di “gaia scienza” confluì tutto quanto portava acqua al mulino dell’uomo-Prometeo: dalla nuova teologia di Friedrich Schleiermacher (1768-1834) alla “critica biblica” di Ernest Renan (1823-1892), dallo Zaratustra di Friedrich Nietzsche (1844-1900) all’Inno a Satana di Giosue Carducci (1835-1907), dai sogni sinarchici di Joseph Alexandre Saint-Yves marchese d’Alveydre (1842-1909) da cui nacque l’idea di tecnocrazia al “materialismo spiritista”, il tutto con un crescente chiodo fisso.
L’uomo, finalmente scopertosi dio a se stesso, doveva pur essere un superuomo, immune da ogni pecca, scevro da tacche, resistente, esente e libero, in una parola vaccinato contro ogni degenerazione. Non fu così soltanto per Nietzsche e per la sorella pre-nazista di Nietzsche, ma per l’Occidente intero.
L’idea darwiniana del progressismo medicina che cura la vita senza bisogno di Dio grazie al moto perpetuo di un meccanismo che esiste inesorabilmente da sempre e che funzionerà inflessibilmente per sempre ne è stato l’ermeneutica somma. Bisognerebbe datare il “temerario mondo nuovo” di Aldous Huxley (1894-1963) dall’anno di pubblicazione de L’origine delle specie di Darwin.
Ora, Darwin non dedica un rigo all’eugenetica non solo perché non ne aveva a disposizione il termine, ma perché non ne aveva affatto bisogno. La logica con cui spiega lo sviluppo di una vita nata per caso dalla materia inanimata è intrisa di sostanza eugenetica: la “stirpe buona” è il prodotto di una natura sostituitasi a Dio. Galton ha avuto il merito di essere stato il primo ad averlo compreso alla perfezione. Solo che sia Darwin sia Galton avevano fatto i conti senza l’oste, che se per loro Dio non esiste più (o è ininfluente) possiamo senza problemi chiamare anche solo natura.
L’ipotesi del progresso migliorativo darwiniano è infatti totalmente indimostrata e infondata. Anzi, sono più i fatti che la confutano di quelli che la sosterrebbero. Basti solo pensare che le modificazioni genetiche sono solo patologiche; che nessuno ha mai documentato la nascita di una specie nuova per mutazione genetica da una precedente; che tutti gli esempi forniti dai darwinisti di “mutazione genetica” e di “speciazione” sono in realtà lo sviluppo attuale di potenzialità già insite negli esseri viventi (le varianti melaniche delle falene, per esempio, o il polimorfismo del proteo); e che lo stesso Darwin dovette arrendersi davanti a quelle forme di vita “inspiegabili” (ma solo per il darwinismo) che chiamò «fossili viventi», ovvero animali e piante che, stando a L’origine delle specie, avrebbero dovuto estinguersi “milioni” di anni fa poiché “arretrate” per cedere il passo a forme più “evolute”, ma che, non avendo invece letto L’origine delle specie, continuano indisturbatamente a esistere, e anzi sono oggi note in numero assolutamente enorme, molto più grande che al tempo di Darwin.
Essendo non solo indimostrata e infondata, ma anzitutto e soprattutto falsa, questa meccanica però semplicemente non funziona. Come farebbe, infatti, ciò che ieri si è solamente creduto essere il meglio dell’oggi, ma che tale non era, produrre il meglio di domani per modificazioni che sono attestate solo in senso degenerativo? Non funzionando, della due l’una: o l’ipotesi va gettata oppure occorre forzarla. È qui che Galton ha evitato al cugino Darwin il disastro, scegliendo la seconda opzione.
Il “galtonismo” (come è stato a volte chiamato il pensiero eugenetico) non è insomma il tradimento del darwinismo: è la sua sola possibilità di salvezza. Peggio ancora: è un fossile vivente. Secondo il progressismo imperante avrebbe dovuto estinguersi nel maggio 1945 assieme al nazismo, ma non lo ha fatto perché è una delle anime nere del progressismo stesso. Galton gli ha semplicemente dato un nome, ma esiste da tempo, almeno da quando c’è il peccato dell’uomo, ed è “scienza” da che lo Stato ha avuto i mezzo per farsi totalitario: si è manifestato in Francia con l’Illuminismo e la Rivoluzione che inventò il razzismo, volle rifare gli ebrei e sterminò i cattolici “sbagliati” dell’Ovest; si è palesato in Unione Sovietica quando Stalin perseguitò gli ebrei (come hanno illustrato almeno il giornalista statunitense Louis Rapoport, lo storico tedesco Arno Lustiger [1924-2012] e il giornalista russo Arkady Vaksberg [1927-2011]); ovviamente è stato l’asse portante dal nazismo, ma quello lo sappiamo bene perché i progressisti solo di quello ci parlano; ed è alacremente al lavoro oggi nell’aborto (la terza sorella incestuosa), nell’eutanasia, negli ospedali-prigione in cui sono stati uccisi Terry Schiavo (1963-2005), Eluana Englaro (1970-2009), Charlie Gard (2016-2017) e Alfie Evans (2016-2018).
L’uomo dio a se stesso decide che l’«interesse migliore» per chi è ammalato e bisognoso di cure è quello di scomparire senza lasciare né traccia né eredi. Vaneggiamenti invasati? No, parole del consigliere del principe, dove il principe è il premier gauchiste francese Emmanuel Macron e il consigliere è l’economista e banchiere pure francese Jacques Attali: «L’eutanasia sarà uno degli strumenti essenziali delle nostre società future […]. Per cominciare, in una logica socialista, il problema si pone così: la logica socialista è la libertà e la libertà fondamentale è il suicidio; di conseguenza, il diritto al suicidio diretto o indiretto è dunque un valore assoluto in questo tipo di società. In una società capitalista, verranno inventate e saranno di uso comune macchine per uccidere, strumenti che permetteranno di eliminare la vita quando sarà troppo insopportabile o economicamente troppo costosa. Ritengo quindi che l’eutanasia, sia essa un valore di libertà o una merce, sarà una delle regole della società futura» (citazione tratta da La médecine en accusation, intervista ad Attali nel volume L’avenir de la vie curato dal giornalista Michel Salomon edito da Seghers a Parigi nel 1981 con prefazione del filosofo Edgar Morin, alle pp. 274-275).
Qualcuno, scrivendo sul sito della Fondazione Luigi Einaudi, ci crede al punto di chiamare «[…] sciacalli ideologici» coloro che hanno cercato di strappare Alfie al boia, argomentando così: «Alfie non era più e forse non era mai stato un bambino, nell’accezione della completezza umana, forse non era solo in stato vegetativo, in quanto ciucciava e muoveva le braccine. Lascio a laicisti, eticisti, scientisti e religiosi vari marcare il confine terminologico, ma su un fatto erano tutti quanti d’accordo: il bimbo era condannato. Il problema si spostava dunque sul “come” arrivare al termine».
È il “caro”, vecchio galtonismo, illustrato a puntino da Richard Weikart – professore di Storia alla California State University Stanislaus di Turlock – in From Darwin to Hitler: Evolutionary Ethics, Eugenics, and Racism in Germany, pubblicato da Palgrave Macmillan (lo stesso editore di Galton) a Londra