di Maurizio Stefanini
Gli energumeni della Sapienza a Roma, ma non solo. “La filosofia europea del fallimento”, Europe’s Philosophy of Failure, è il titolo di un saggio che il giornalista tedesco Stefan Theil, corrispondente economico dall’Europa per Newsweek, ha appena pubblicato per Foreign Policy: il bimestrale fondato nel 1970 da Samuel Huntington e edito dal Carnegie Endowment for International Peace di Washington.
Convinti che principi economici come il capitalismo, i liberi mercati e l’imprenditoria siano barbari, insani e immorali, questi ragazzi sono cresciuti a una dieta di pregiudizio e faziosità. Riuscire a scalzarla può determinare se le economie d’Europa prospereranno o continueranno a rimanere indietro”.
Il bello è che Theil non ha letto i libri di testo italiani, ma si è limitato a dare una scorsa a quelli appunto francesi e tedeschi. Ma gli è bastato per comparare l’anti-occidentalismo che ne stilla fuori con quello che si potrebbe apprendere “nelle madrasse del Pakistan o nelle scuole statali dell’Arabia Saudita”.
Una “Storia del XX secolo” in tre volumi diffusissima nella scuola media superiore francese spiega ad esempio che “la crescita economica impone una forma di vita agitata, che produce superlavoro, stress, depressione nervosa, infermità cardiovascolari e, secondo alcuni, anche lo sviluppo del cancro”. Il giudizio dello stesso testo sugli ultimi 20 anni di storia mondiale è che “è raddoppiata la ricchezza, sono raddoppiate disoccupazione, povertà e esclusione, i cui cattivi effetti costituiscono il retroscena di un malanno sociale profondo”.
Perché il XXI secolo inizi con “una consapevolezza dei limiti alla crescita e dei rischi posti all’umanità dalla crescita economica”, l’auspicio è dunque “l’imbrigliamento del capitalismo su scala planetaria”. Un “capitalismo” costantemente accompagnato dagli aggettivi “brutale”, “selvaggio” “neoliberale”, “americano”, considerati evidentemente sinonimi. Il testo è del 2005. C’è poi un corso di un anno sempre alla scuola superiore francese che si chiama Scienze Economiche e Sociali, tra i cui capitoli ci sono: “Contrasti Sociali e Ineguaglianza”, “Mobilitazione Sociale e Conflitto”, “Povertà ed Esclusione”, “Globalizzazione e Regolazione”.
Solo un terzo del corso è dedicato a imprese e mercati, e anche lì con ampi riferimenti a sindacati, politiche di intervento del governo, limiti del mercato e pericoli della crescita. Conclude Theil che i francesi “quando si laureano possono non sapere molto su offerta e domanda, o su come funziona un’impresa. Ma in compenso saranno ferratissimi sul rischio di McDonaldizzazione del mondo e sui benefici della Tobin Tax”.
In Germania le cose sono un po’ diverse rispetto alla giacobina e centralizzata Francia, perché in regime federale ognuno dei 16 länder ha un sistema scolastico per conto proprio. Ma pressoché tutti nei loro corsi di Economia insistono comunque sul conflitto tra datori di lavoro e dipendenti, descrivendo con pignoleria appunto tipicamente teutonica le minuzie di relazioni industriali, conflitti sui luoghi di lavoro, contrattazione collettiva, sindacati, sciopero e protezione del lavoratore.
“Anche una rapida occhiata ai libri di testo mostra che molti sono scritti secondo la prospettiva di un futuro lavoratore dipendente con contratto sindacale”. L’imprenditore è visto con stereotipi caricaturali, e un testo di studi sociali della decima classe a un capitolo su “Cosa fare contro la disoccupazione” non parla di politica economica o di auto-impiego, ma di come i disoccupati possono organizzarsi per fare manifestazioni. D’altronde l’analisi sulla ragione della disoccupazione stessa è di tipo strettamente luddista: colpa di computer, robot e Internet!
Il risultato? Stando ai sondaggi, tre americani su cinque sognano di diventare gli imprenditori di sé stessi, ma solo due tedeschi o francesi su cinque. Mentre l’8% degli americani sta facendo partire un business e il 28% ci sta pensando, le cifre corrispondenti sono del 2 e 18% tra i tedeschi; dell’1 e 11% tra i francesi. D’altronde nel 2005 solo il 36% dei francesi si dichiarava favorevole alla libera impresa, mentre l’appoggio dei tedeschi all’ideale del socialismo è cresciuto dal 36% del 1991 al 47% del 2007.
(A.C. Valdera)