Osservatorio Internazionale Card. Van Thuân sulla Dottrina sociale della Chiesa
Nono rapporto sulla dottrina sociale della Chiesa nel mondo
EUROPA LA FINE DELLE ILLUSIONI
di Gianfranco Battisti (**)
Tra storia e geografia
Parafrasando quanto diceva il cancelliere Metternich dell’Italia pre-risorgimentale, l’Europa rimane tuttora un’espressione geografica. Per il geografo si tratta di una (piccola) penisola dell’Asia, anche se man mano che aumenta la scala della mappa riusciamo ad apprezzare come essa in realtà si articoli in una pluralità di penisole, ciascuna con la propria spiccata individualità. Come per la cartografia, anche per l’insieme dei caratteri antropici la distanza assume un ruolo fondamentale: le cose si capiscono sempre meglio da una prospettiva esterna. Il mito della caverna di Platone ripropone in effetti un principio di validità universale. Da lontano i dettagli si confondono, lasciando posto ad un’immagine unitaria che sembra suggerire l’esistenza di un’omogeneità che è frutto di un’illusione ottica, come i “canali” che nel 1877 Schiaparelli credeva di aver scoperto su Marte.
Storicamente, culturalmente, economicamente, l’Europa è ben di più di una penisola. La sua influenza – che è poi l’insieme di influenze varie, provenienti da un sistema tutto sommato unitario nel quale la circolazione di idee, uomini e merci è sempre stata ininterrotta – ha segnato indelebilmente il volto del pianeta. Etimologicamente, essa significa “occidente” (100); per chi segue il percorso regolare del sole ciò indica in sostanza la fine di una traiettoria, che è poi quella dell’orizzonte in cui si muove la civiltà greca, via via allargatasi fino al misterioso “mare” Oceano. Concettualmente, il suo destino si spiega tutto nella collocazione geografica: essa costituisce infatti il luogo-limite raggiunto dai popoli mediterranei. Un’eredità tanto forte da durare fino alla fine della “guerra fredda”, nella quale Occidente e Oriente tornano a indicare due parti in conflitto. Esattamente com’era iniziato, 25 secoli fa, attraverso la lotta delle città-stato greche contro l’impero asiatico dei re persiani (101).
Sempre seguendo il sole, l’Oriente ci appare come il luogo della nascita: Dio pose i primi uomini in un giardino “ad oriente” (102). Anche a prescindere dalle migrazioni dei popoli, che alternano origine e destinazione nel corso dei millenni, non è un caso se proprio da Oriente giungono tutte le grandi religioni. Un dato di fatto che gli estensori della Costituzione europea (approvata presuntuosamente nel 2004 dalle élite di governo, ma rifiutata dal voto popolare negli anni seguenti) ritennero di censurare, estromettendo da questo documento le radici giudaico-cristiane dell’Europa. Per questi pretesi “saggi” l’Europa – della quale non viene data una definizione (103) – è un continente di immigrati. Sostanzialmente privi di idee e di cultura proprie, questi sarebbero giunti da ogni dove in un luogo nel quale, quasi magicamente, è emersa l’ideologia dei Lumi, la quale rappresenterebbe l’elemento chiave della “europeicità” (104). Oggi possiamo capire come vi fosse contenuto un invito, abbastanza esplicito, ad aprire le porte all’immigrazione selvaggia dal “terzo mondo”. Il disegno comunitario ridotto ad un semplice “frullatore di genti” (105), un progetto che fa pensare ad una strategia di “sostituzione della popolazione”.
Nelle attuali contingenze si tratta di una versione casereccia del leggendario “crogiuolo” dal quale un tempo si credeva scaturire il mitico homo americanus (106). Secondo questi intellettuali, impegnati a scoprire sempre nuovi “diritti umani”, la costruzione dell’Europa dovrebbe allora passare attraverso la cancellazione degli unici principi e valori che tutti i popoli europei condividono, consapevolmente o meno.
Né si può scordare come nel loro peregrinare sempre più a Occidente (anche se mossi dalla volontà di meglio raggiungere l’Oriente), gli europei abbiano sempre portato con sé la croce. Simbolo dell’equilibrio raggiunto nel Medio Evo tra il trono e l’altare, certo, ma soprattutto testimonianza dell’affidamento che gli uomini di mare, avvezzi a rischiare la vita in ogni momento, ponevano in Dio.
Se dai nuovi continenti l’Europa ha tratto nei secoli ricchezze materiali incalcolabili, non di meno ha portato la fede a popoli ancora in balìa di credenze primitive e spesso disumane. Per questo l’Europa è stata considerata nel mondo il continente “cristiano” per eccellenza. Oggigiorno sembra che questa consapevolezza sia venuta meno, complici le ideologie atee elaborate al suo interno a partire dal XVIII secolo e giunte al potere nel XX. Lo stesso allontanamento dalla fede dei Padri sembra purtroppo avvenire anche nei continenti extraeuropei dove l’emigrazione europea ha preso il sopravvento sulle popolazioni autoctone.
La questione istituzionale
Storicamente i grandi Paesi europei erano in realtà degli imperi, composti da una pluralità di Stati di piccola taglia, ciascuno con la propria cultura (di cui espressione era la lingua), le proprie leggi, adatte alla peculiare struttura sociale, economica, alla sua organizzazione territoriale. È la configurazione di tipo medioevale, nella quale l’unità statuale è composta dai feudi, tra loro collegati attraverso una serie di giuramenti (oggi parleremmo di trattati), che al vertice facevano riferimento alla figura dell’imperatore. Un esempio tra i tanti, sul quale merita soffermarsi, è quello della Francia prerivoluzionaria, nella quale il sovrano governava 2 regni, 1 principato, 14 ducati, 10 contee e 36 generalità, oltre a 9 exclaves. In soli 20 anni la rivoluzione distruggerà questo tessuto variegato, costruito nei secoli come frutto dell’incontro, sempre diverso, tra il trono, il popolo e l’altare. Al suo posto emergerà una trama semplificata, fondata su una logica a base matematica, che astrae volutamente dalla varietà del reale. Un’astrazione intellettuale che anticipa di oltre un secolo l’esperimento sovietico nella Russia zarista.
Con la razionalità al potere, la Francia viene rimodellata a tavolino come fosse una pièce teatrale. Un unico canovaccio sostituisce la pluralità delle scene, i personaggi vengono riscritti come modelli stereotipati. Il francese della république ha una sola lingua, una sola bandiera, una sola fede – nella dea Ragione – un solo centro dal quale proviene la luce che deve guidarlo, una sola divisa: un’organizzazione perfetta perché un uomo d’arme potesse partire alla conquista del mondo.
Ben prima che in Russia, questo modello si diffonderà nel resto dell’Europa, dove molti sovrani ne approfitteranno per abolire le differenze esistenti all’interno dei loro domini. E il caso del Piemonte all’indomani della caduta di Napoleone, il quale provvederà all’unificazione amministrativa delle circoscrizioni storiche (Piemonte, Savoia, Sardegna) e del recente acquisto dell’ex repubblica di Genova. Un’esperienza che verrà ripetuta, secondo un modello fortemente accentrato, con il resto della penisola che verrà occupata manu militari tra il 1859 e il 1866.
Nonostante queste operazioni, che avvengono in nome di un nazionalismo di recente fattura, ben 5 imperi sopravvivranno in Europa sino agli inizi del secolo XX: la Gran Bretegna (107), la Germania (108), l’Austria-Ungheria, la Russia zarista, la Turchia. La “Grande guerra” risparmierà soltanto la Gran Bretagna e la Germania (sia pure trasformata in repubblica di repubbliche) e darà vita autonoma ad una pluralità di Stati nell’Europa centro-orientale, frutto della dissoluzione degli altri 3 imperi. Per questi “nuovi” Stati si invocherà il diritto all’autodeterminazione dei popoli, ma il risultato, a conti fatti, dimostrerà come essi siano condannati a ripetere al loro intentala politica autoritaria e omogeneizzatrice degli Stati nazionali sulla falsariga della Francia.
Gli eventi successivi mostreranno come l’assemblaggio all’interno di un unico Stato di territori culturalmente ed economicamente diversi, una volta venuta a mancare la cornice imperiale che ne componeva le esigenze, ha creato organismi geopolitici deboli, minati da ineliminabili tensioni interne quanto esterne. La dimostrazione più eclatante è giunta dalla separazione tra le repubbliche Ceca e Slovacca, avvenuta in assenza di pressioni esterne, dissolvendo una Cecoslovacchia che sembrava aver risolto il proprio “peccato d’origine” attraverso la cacciata delle comunità tedesca, ungherese e rutena. Segno evidente che le differenze economiche e soprattutto quelle religiose (la Slovacchia è al 73% cattolica (109), mentre la Cekia è atea al 35% [110]) hanno un’importanza che non è dato sottovalutare.
A conti fatti il progetto ottocentesco di uno Stato per ogni nazione si è rivelato utopistico, in quanto si basava sul presupposto – errato – dell’esistenza di un numero ridotto di nazioni piuttosto consistenti sotto il profilo demografico, che fosse possibile riunire semplicemente assemblandole in un contenitore geograficamente adeguato. Vale a dire, racchiudendole all’interno di un confine. Ancora nel primo ‘900 ciò poteva valere per il mondo germanico e parti di quello latino, ma non oltre. La realtà, in particolare nell’Europa centro-orientale, mostra invece una dispersione dei popoli in nuclei piuttosto contenuti, territorialmente sparpagliati e interclusi in una trama che non differisce concettualmente da quella che caratterizza il Medio Oriente. Dunque, un puzzle difficilmente ricomponibile al di fuori di un vasto piano di spostamenti di popolazione come in effetti è avvenuto – peraltro in misura insufficiente – negli anni ’40.
La presenza contemporanea di Stati di taglia molto diversa costituisce di per sé un ostacolo al funzionamento di organismi unitari di gestione politica. Dal che si deduce che la costruzione europea per funzionare bene dovrebbe venir articolata non tanto sugli attuali Stati sovrani, quanto sulle nazioni, a loro volta promosse alla dignità statuale. Sarebbe questa una effettiva “Europa delle regioni”, segnata da un livellamento verso il basso della dimensione dei protagonisti geopolitici. In buona sostanza, la costruzione di uno Stato europeo dovrebbe essere preceduta dallo “smontaggio” degli Stati nazionali, un processo che se appare discutibile per Paesi come l’Italia, sembrerebbe invece un traguardo non eludibile ad esempio per la Spagna. Quivi infatti le tensioni tra le varie generalitat non hanno trovato sinora una composizione, il che dimostra come questo Paese (che non ha attraversato la rivoluzione francese) continui in realtà a costituire non un regno ma un impero, del quale la politica pretende di disconoscere l’intima natura.
Si comprende adesso il grande vantaggio degli Stati federali – come la Germania e la Gran Bretagna – i quali continuano a godere dei vantaggi dimensionali dell’impero e della flessibilità assicurata loro da una struttura territoriale frammentata. E si comprende altresì come la riunificazione tedesca abbia aggravato gli squilibri già esistenti tra le dimensioni dei partner europei, realizzando dall’oggi al domani una agglomerazione di forza – demografica oltre che economica – teoricamente in grado di assumere la guida del continente.
L’ipotesi attuale di una secessione conflittuale della Catalogna (che rispetto a Madrid rappresenta quello che è per Roma la Lombardia) fa comprendere quali possano risultare le conseguenze di una ristrutturazione regionale dell’Europa. Se lo Stato è, concretamente, il contenitore di un’economia, la sua disaggregazione comporta inevitabilmente lo smantellamento di quest’ultima, con la gravissima perdita di fondamentali economie di scala. Un disastro, a meno che non lo si inquadri all’interno dei cambiamenti imposti dalla globalizzazione, i cui meccanismi già stanno ridistribuendo queste economie sull’intera scacchiera mondiale.
Dalle Comunità Europee all’Unione
Com’era scontato, quella dell’Europa delle regioni è rimasta un’istanza non implementata a livello politico. Il terreno sul quale la progettualità istituzionale si è andata sviluppando è stato quello della rapida formazione di una struttura di governance che bypassasse il problema. Si è così giunti nel 1992 al passaggio dalle Comunità Europee all’Unione Europea, quest’ultima pensata come un vero e proprio “superstato”, dunque un “impero”, secondo la visione che abbiamo ricordato (111).
Il processo si è svolto con grande velocità, perché bisognava rispondere ai cambiamenti epocali avvenuti a livello mondiale: la fine della guerra fredda, che liberava l’Europa dalla minaccia sovietica e dopo quasi mezzo secolo prometteva di sottrarre sia l’Occidente che l’Oriente alla tutela delle due superpotenze. Si trattava di una occasione storica, una vera e propria “finestra” da sfruttare per portare a compimento l’unificazione dell’intero continente.
L’opportunità dell’ingresso di un grande numero di nuovi partner apriva le questioni di base del progetto: chi ne fa parte, con quali diritti/doveri, con quali strumenti di governo. A questi interrogativi fondamentali voleva rispondere la Costituzione europea, intesa quale cornice fondativa alla quale ricondurre tutti i rapporti interstatuali a venire.
I primi passi dell’integrazione europea hanno riguardato prevalentemente la cooperazione economica, ferma restando la cornice amministrativa degli Stati e la relativa sovranità. Il passaggio ad un’unità politica richiede la definizione dei rapporti politici, cioè le regole in base alle quali una parte – la più significativa – dei poteri passano dai singoli Stati alla nuova entità. I modelli possibili sono di due tipi, la federazione o l’unione. Nel primo caso vi è un organismo rappresentativo dei singoli Stati, com’è ad esempio in Germania per i Laender. L’opzione prescelta è stata invece quella dell’unione, con un parlamento monocamerale.
Vi è peraltro un’ampia condivisione di poteri: il Consiglio della UE negozia e adotta le leggi, assieme al Parlamento Europeo (ma senza l’obbligo di rispettarne il parere), basandosi sulle proposte della Commissione Europea; coordina le politiche dei Paesi UE, elabora la politica estera e di sicurezza sulla base degli orientamenti del Consiglio Europeo, firma gli accordi internazionali, approva il bilancio annuale assieme al Parlamento Europeo. La Commissione Europea, che è l’organo di governo, è eletta dal Parlamento, di cui attua le delibere. È l’unico organo titolato a proporre le leggi europee.
Fatto eclatante, il Parlamento – unico organo a legittimazione democratica – risulta dunque sprovvisto dell’iniziativa legislativa, che è prerogativa della Commissione (i parlamentari possono “chiedere” a quest’ultima di presentare proposte…). Esso elabora il bilancio (che sarà approvato dal Consiglio della UE), può invece approvare il “quadro finanziario pluriennale” nonché l’avvenuto utilizzo del bilancio annuale. Quanto al ricordato Consiglio della UE, non ha una composizione permanente, ma si riunisce in 10 differenti configurazioni a seconda della materia. Sia pure da questi scarni elementi si evince che l’Unione è un “carrozzone” farraginoso, poco trasparente e sostanzialmente slegato dalla volontà popolare.
Sul piano delle istituzioni concrete, la situazione è parimenti confusa. Non essendo entrata in vigore la bozza costituzionale, non c’è una moneta comune europea. Il risultato è il coesistere di Paesi che adottando l’euro hanno consegnato la loro sovranità monetaria al livello comunitario e Paesi che l’hanno conservata in proprio. Da qui una differenza sostanziale in fatto di capacità d’azione. Un’altra differenza, basata su precedenti accordi internazionali, la ritroviamo (peraltro con una diversa composizione) tra i Paesi “vincitori” della II guerra mondiale e quelli “vinti”, senza riguardo alla loro attuale situazione politica ed economica. La cosa si riflette sull’intera UE: non esiste ad esempio una forza armata comune, né una politica comune di difesa (112). Si tratta di vincoli non eliminabili, i quali pongono una serissima ipoteca su qualsiasi tentativo di progresso verso un’organizzazione statuale autonoma, democratica ed efficiente.
In questa situazione l’attivismo europeo, oltre a continuare a rivolgersi al mondo degli affari, ha privilegiato un’armonizzazione giuridica sulla quale vigilano la Corte di Giustizia e la Corte Europea dei diritti umani. Le quali, se aprono spazi di libertà rispetto alle giurisdizioni nazionali, ne chiudono degli altri, tendendo ad imporre a tutti gli europei quella visione asettica dell’Unione che consente di imporre ovunque le aberranti visioni antropologiche veicolate dalla cultura contemporanea (113).
Il peso della storia
L’incapacità delle élite politico-amministrative di comprendere la multiforme realtà del nostro continente ed i limiti concreti che si frappongono ad un disegno accentratorio/omogeneizzatore che ripete, adattandoli ai tempi, l’azione dei rivoluzionari francesi e sovietici, è cosa nota. Sinora ciò si è palesato con particolare evidenza nella infelice gestione dell’economia, ma lo scollamento tra le stanze del potere e il sentire dei popoli è ben più profondo e risiede nella sostanziale incomprensione di cosa sia l’Europa. Il nostro continente non è soltanto composto da un puzzle di nazioni che teoricamente si possono assemblare a tavolino, una volta negate le loro individualità.
I vari Paesi oggi esistenti portano tutti, nel loro DNA, il retaggio di una serie di organizzazioni sovranazionali delle quali hanno partecipato nel corso di una storia bimillenaria, organizzazioni che nelle diverse epoche hanno rappresentato – almeno per alcuni di essi – delle alternative efficienti al disegno che oggi si vorrebbe loro imporre, per giunta attraverso dei meccanismi economici spesso disumani e ricattatori. Si tratta di una serie di imperi che nel corso della loro storia hanno dato di volta in volta centralità e dignità ad una pluralità di soggetti, i quali si sentono tuttora autorizzati a rivestire un ruolo significativo all’interno della politica continentale.
Non sono passati 100 anni dalla dissoluzione degli imperi germanico, austriaco, russo; poco di più dalla fine di quello spagnolo. Neanche 50 anni ci separano dall’estinzione degli imperi olandese, britannico, francese, portoghese. Se però andiamo indietro nel tempo, incontriamo ancora gli imperi danese (dissolto dopo le guerre napoleoniche) e quello polacco-ucraino (scomparso nel ‘600).
Gli imperi non sono una semplice sommatoria di Stati, sono delle costruzioni complesse che si caratterizzano per una propria civiltà. Ultimo fra tutti, l’impero sovietico nell’Europa orientale. Un insieme di Paesi costretti a convivere ma che hanno in tal modo imparato a cooperare fra loro in campo culturale, economico e militare. A nulla vale puntualizzare che in molti casi ci troviamo di fronte a realtà che si distendevano prevalentemente al di fuori dell’Europa. Entra qui in gioco il concetto di Magna Europa (114), ché il nostro continente ha realmente stampato la sua impronta su buona parte del mondo, sia pure nelle diverse varianti elaborate da ciascuna potenza coloniale. Questa espansione culturale si è arrestato soltanto quando ha incontrato una civiltà altrettanto antica, pervasiva e vitale, come quella islamica. La cui ultima espressione imperiale – oggi in fase di ripresa a partire da una pluralità di poli di aggregazione – si è dissolta anch’essa da neanche un secolo.
Queste considerazioni potrebbero suonare come una rilettura di situazioni storiche lontanissime dall’oggi e apparire dunque ininfluenti sulla nostra capacità di comprendere la realtà attuale. Tale prospettiva appare invece necessaria allorquando ci si ponga di fronte a tutta una serie di eventi i quali stanno mutando radicalmente lo scenario europeo. Non fosse altro perché le costruzioni politiche del passato rappresentano una sorta di archivio della memoria – simile alle posizioni codificate delle partite a scacchi – che viene richiamato ogni qual volta si riaprano le contese geopolitiche.
Si considerino adesso i seguenti fatti: la decisione dell’Islanda di ritirare la propria candidatura alla UE, la Brexit, il protagonismo politico della Polonia e l’ardore bellicista della stessa, assieme ai Paesi baltici, nei confronti della Russia (con il correlato intervento russo in Ucraina). Va altresì sottolineata l’opposizione che giunge dai popoli e dai parlamenti ai diktat che giungono da Bruxelles in materia di controllo delle nascite, di definizione della famiglia, di svalutazione della nazionalità.
L’Ungheria ha messo nella Costituzione il carattere cattolico della nazione, la Croazia vi ha fissato la definizione di matrimonio, la Lettonia il divieto del matrimonio omosessuale. Ricordiamo infine l’inedita affinità di vedute sulla “questione dei migranti” che sta emergendo tra il “gruppo di Visegrad” (Ungheria, Cechia, Slovacchia, Polonia) a cui si aggiungono Austria, Slovenia e Croazia (115), che viene quasi a riproporre una versione aggiornata dell’impero asburgico. In tutti questi avvenimenti è dato pertanto di ritrovare una matrice che si riallaccia a passate collocazioni geopolitiche dei Paesi considerati.
Verso un’Europa al plurale
Se da una visione astratta vogliamo passare all’Europa concreta che oggi si presenta sotto i nostri occhi, lo scenario che si prospetta impone dunque di considerare un continente diviso in una pluralità di aree. Da un lato infatti abbiamo un’Unione Europea che mira ad assorbire tutti gli Stati viciniori e che ultimamente ha allungato le mani sull’Ucraina. Dall’altro troviamo la Federazione Russa, uno Stato eurasiatico la cui popolazione è in netta prevalenza europea, così come europea è la sua cultura; impegnato sì a costruire un’Unione Eurasiatica, ma nella prospettiva di un dialogo costruttivo con la UE.
All’interno di quest’ultima, esiste un nucleo duro rappresentato dall'”Eurozona”, che peraltro si sta pericolosamente dividendo tra l’area settentrionale, imperniata sull’economia tedesca ed il fronte mediterraneo, che non riesce ad integrarsi vantaggiosamente con il Nord. Il contenzioso appare serio, ma imprevedibilmente gli scollamenti si stanno già manifestando lungo una direttrice Est-Ovest. Ad Ovest abbiamo infatti la sofferta decisione della Gran Bretagna di uscire dalla UE, apparentemente per il problema dell’immigrazione, in realtà per la volontà degli inglesi di mantenere il controllo della loro moneta e non sottoporre le proprie banche alla politica del blocco Euro.
Da non sottovalutare altresì il desiderio di defilarsi rispetto alle tensioni politico-economiche che stanno montando tra la Germania e gli USA (116). Una decisione che si fonda sulla speranza di rimettere in qualche modo in gioco ciò che resta dell’impero, profittando dei consistenti legami tuttora esistenti all’interno del Commonwealth. E anch’esso una parte della Magna Europa.
Ad Est si assiste alla formazione – sotto l’accorta regia degli USA – di un blocco che riunisce, senza soluzioni di continuità, tutti i Paesi fuorusciti dall’impero sovietico (più Austria, Slovenia e Croazia) all’insegna dell”Iniziativa dei tre mari” (117). In pratica, si vuole sottrarre alla Germania la possibilità di integrare l’intero Est europeo ricreando quella che fu la Mitteleuropa e di stringere ulteriori legami con la Russia; una costante nella storia tedesca che a Washington come a Londra vedono con terrore da oltre un secolo (118). L’Est europeo viene pertanto nuovamente militarizzato – sotto il comando della NATO – con la scusa di una fantomatica minaccia russa.
Viene così riproposto quell’ “atteggiamento del pensiero dominante e superficiale”, come ha scritto Franco Cardini, “che ritiene la Russia un “mix pericoloso”, abitata da “semieuropei che, per un verso o per l’altro, appartengono al mondo dell’alterità rispetto all’Europa” (119). Al contrario, la Russia odierna sembra voler raccogliere dalla polvere, quasi da sola (120), la bandiera della civiltà europea (121). Sottolinea acutamente G. Sangiuliano: «Rispetto ai disegni di una società liquida, inodore, incolore, omologata al pensiero unico, Putin è un ostacolo per via della sua concezione tradizionale, mistica, identitaria dell’uomo e dei popoli» (122).
In questa nuova contrapposizione tra Est e Ovest, che vede la Russia schierata in difesa della sua identità nazionale – fondata sul Cristianesimo – dei principi morali, della famiglia, della natalità “naturale”, mette conto rilevare un dato significativo. La festa nazionale, che è stata spostata dalla ricorrenza della rivoluzione bolscevica alla rivolta popolare contro gli invasori polacchi che favorì l’ascesa dei Romanov, retrodata dal 1917 al 1612 la fondazione dello Stato. In questa prospettiva, la Russia appare oggi come il Paese più giovane tra le grandi potenze storiche dell’Europa: contro i 1088 anni dell’Inghilterra, gli 813 della Francia e i 615 della Spagna, con i suoi 400 anni appena, esso sembra poter ragionevolmente sperare in un futuro, una volta superati i postumi del settantennio bolscevico (123). Solo l’Italia, con 156 e la Germania con 147 anni, sono più giovani, ma la loro esistenza copre un lasso di tempo troppo breve per giudicare se potranno continuare ad esistere nel futuro. Si consideri inoltre che Mosca, con i suoi 12,4 milioni di abitanti (18 nell’area metropolitana) è oggi l’unica metropoli europea di dimensioni mondiali (124), pur conservando le caratteristiche del mondo sviluppato.
Piaccia o meno, ci troviamo di fronte a una pluralità di raggruppamenti regionali, le cui strategie non riescono a convergere attorno ad un unico progetto. Quali che siano le nuove divisioni che lacerano il continente, è comunque l’Unione Europea a rappresentare al momento la struttura più rilevante e come tale essa merita un’attenzione particolare.
Un continente allo sbando
L’osservatore esterno che guardi allo stato dell’Unione nell’estate 2017 ne trae un quadro sconfortante. Prostrata da una crisi economica della quale non si vede l’uscita, nonostante le rassicurazioni provenienti da organismi tanto prestigiosi quanto incapaci di prevedere il crollo della finanza globale nel 2007; stretta da presso da guerre guerreggiate che ardono lungo tutti i suoi confini; terrorizzata da flussi immigratori massicci – attuali e futuri – quali non si vedevano dai tempi delle invasioni barbariche; in rotta con partner strategici quali USA e Russia; divisa al suo interno sulle modalità per gestire ciascuna di queste emergenze.
Sono le principali questioni alle quali ci richiama la cronaca giornaliera, senza contare i fondamentali problemi che vengono “nascosti sotto il tappeto”: un andamento demografico – frutto della denatalità – che annuncia l’ineluttabile scomparsa di tutti i popoli europei come entità politico-culturali e il crollo di quei punti fermi – insieme di principi e valori condivisi – sui quali si costruisce una vita associata degna dell’uomo. Volendo trarne impietosamente le somme, possiamo a ragione parlare di un continente allo sbando (125).
Di fronte a questo stato di cose viene spontaneo chiedersi cosa sia andato storto nella costruzione europea, posto che non possiamo cavarcela attribuendo solo ad altri i nostri malanni. Della serie: il capriccio degli dei, le malefatte del capitalismo, l’aggressività dell’Islam, i cambiamenti climatici più o meno spontanei. Fattori che indubbiamente ci sono ed esercitano influenze fortissime, ma che non nascono con la UE e dunque non possono distoglierci dal doveroso compito di un’autocritica.
Uno sguardo retrospettivo
Oggi ci troviamo a 60 anni dall’avvio del processo di unificazione, un evento che è stato salutato come foriero di un’epoca di pace e prosperità per tutto il continente. Alla base c’era (e c’è tuttora) l’idea di un’Europa come realtà già esistente, alla quale andava semplicemente applicato un nuovo modello di gestione. Il problema, in fin dei conti, è di natura istituzionale, verte sul tipo di regolamentazione che si vuole introdurre in ordine ai fini che con esso si vogliono raggiungere. Il fatto è che a “fare l’Europa” ci si sono messi in tanti, dopo l’abbozzo di stato plurinazionale realizzato da Carlo Magno, a suo tempo preso un po’ semplicisticamente come prototipo. Su questa falsariga, non possiamo negare che anche Carlo V, Napoleone, Hitler (126) e Stalin abbiano messo in piedi delle costruzioni analoghe, che non sono mai giunte a compimento per la costante opposizione di una parte dei protagonisti.
Nell’attuale cultura – europeista e mondialista – la colpa di questi fallimenti viene indicata in un’impostazione nazionalistica della politica. C’è del vero in questa tesi, ma si tratta di una tautologia: per sua essenza, il potere politico ha bisogno di una concentrazione territoriale del consenso e poiché non si vive d’aria, questo consenso va alimentato con una accorta gestione dell’economia. Non è la visione cristiana delle cose, ma è la logica che regge un mondo retto da un altro “signore” (127).
Non è un caso se i tre “padri fondatori” dell’Europa fossero tutti cattolici e animati da una fede che ne ha plasmato l’azione politica (128). Quello a cui essi aspiravano era infatti la quadratura del cerchio, vale a dire un’unità che coniugando assieme efficienza e libertà, assicurasse una giustizia economica tale da produrre condizioni di vita migliori per tutti e non solo per alcuni. Quindi il superamento delle inevitabili disparità che emergono tra i gruppi socio-professionali e le comunità geograficamente distinte. Una visione solidaristica, che proponeva strutture di governance delle imprese (modello renano, modello italiano) profondamente differenti da quello anglosassone, fondato sulla polverizzazione dell’azionariato, la separazione tra proprietà e management e la sostanziale irresponsabilità di entrambi nei confronti della società. Dunque, una via mediana tra il capitalismo ottocentesco di scuola anglo-sassone, improntato ad una visione darwinistica della società, e il comunismo pianificatore che, pur nato in Occidente, si veniva imponendo in Oriente.
Nasce da questa visione – allora condivisa – l’ipotesi di un’associazione di liberi Stati che ridesse slancio vitale ad un’Europa uscita dalle guerre mondiali distrutta materialmente e spiritualmente.
Questa visione si incarnerà in un modello organizzativo – quello delle Comunità Europee – che prevede il graduale passaggio ad una gestione condivisa dei principali temi della convivenza civile. L’impostazione è di tipo federalista, ma di un federalismo nel quale il potere è condiviso a tutti i livelli e le diversità nazionali sono considerate una ricchezza da tutelare. La sua realizzazione principale, quella che ha determinato il successo dell’impresa, è il Mercato Comune Europeo. Questo si scontrerà da subito con gli interessi della Gran Bretagna, che sceglierà di starsene fuori e costruire un proprio spazio economico alternativo, la Zona Europea di Libero Scambio. La storia dirà che questo progetto alternativo fallirà per l’incoerenza (anche geografica) dell’insieme e per l’intrinseca debolezza dei suoi componenti (129).
I nodi dell’economia
Riunendo sin dall’inizio i principali Stati (Francia, Germania, Italia, Paesi Bassi), il MEC avrà grande successo, ma non realizzerà compiutamente i propri obiettivi, limitandosi in concreto a funzionare come una sorta di grande area di libero scambio. Per essere veramente comune, un mercato deve infatti concentrare al suo interno la maggior parte degli scambi esteri dei suoi partner, come avviene appunto negli USA, i quali sono un soggetto politico unitario. Come si è detto, uno Stato è, fondamentalmente, il contenitore geopolitico di un’economia. Conseguire questo risultato è stato impossibile sin dall’inizio e ciò, al di là degli opposti egoismi, si deve all’esposizione extraeuropea delle principali economie.
Era questa un retaggio dell’espansione coloniale, reso perdurante dalla scarsità di materie prime a basso costo reperibili sul continente. A ciò si aggiungeva il legame imprescindibile con l’esuberante economia americana, consolidatosi già con la I guerra mondiale ed alla quale si doveva la rapida ricostruzione dalle macerie (si pensi ai lunghissimi tempi di recupero registrati invece nei Paesi sovietici).
Questa situazione – l’essere buona parte dell’economia europea legata alle esportazioni – ha condizionato fortemente i successivi sviluppi. In primo luogo ha impedito l’edificazione di un nucleo di attività strategiche a carattere autarchico, il che avrebbe garantito una certa libertà d’azione, oltre ai singoli Paesi, alla loro consociazione. Un’economia dipendente dalle esportazioni configura inevitabilmente una dipendenza politica dall’esterno. In secondo luogo ha determinato una divergenza di interessi, in quanto il modello tradizionale degli scambi internazionali richiede che le esportazioni industriali vengano pagate con importazioni di materie prime e generi alimentari. E il circuito classico dell’economia coloniale.
Essendo l’Europa divisa inizialmente tra un Nord fortemente industriale e un Sud prevalentemente agricolo, gli interessi fondamentali di queste due realtà sono risultati inevitabilmente in conflitto. Per giunta la concorrenza tra industria e agricoltura oltrepassa i confini tra gli Stati, introducendo dei gradienti interni difficili da eliminare, come dimostra la vicenda del nostro Mezzogiorno. Da qui la nascita di quelle che sono state acutamente definite come “colonie interne” (130)
A differenza dell’agricoltura, l’industria produce armamenti e il potere politico – istigato da quello economico – se ne serve da sempre per distorcere i rapporti di mercato imponendo delle ragioni di scambio la cui iniquità non conosce limiti. Anche da qui, e non solo dalla brama di guadagno, origina la tendenza universale a dotarsi di una struttura industriale che sostituisca le importazioni. Peccato che molto spesso le dimensioni dei mercati locali siano insufficienti – quantitativamente e qualitativamente – a garantire profitti significativi agli industriali. Dalla iniziale sostituzione delle importazioni si passa quindi ineluttabilmente ad una politica di espansione commerciale (il caso italiano è emblematico), una espansione che diviene alla lunga un’esigenza inarrestabile del sistema. L’Europa occidentale si è andata così trasformando in un subcontinente di fabbriche, tutte dirette all’esportazione, un’esportazione di manufatti che giocoforza risultano concorrenziali fra loro.
Nell’ottica di un mercato comune l’Italia avrebbe dovuto acquistare le automobili tedesche e vendere in Germania le sue arance e il suo olio. È quanto accaduto in effetti durante la II guerra mondiale, in conseguenza del blocco economico imposto dalle circostanze. In tempi normali il problema, come si è detto, è che le capacità produttive dell’industria europea eccedono largamente le capacità di assorbimento dei mercati. Da qui l’avvio di una politica interna volta a diffondere il consumismo con ogni mezzo lecito e illecito, che ha radicalmente modificato lo stile di vita delle popolazioni, con pesantissime ricadute sulla vita spirituale (131).
Come se non bastasse, i costi di produzione delle materie prime, data la struttura geografica (sia fisica che umana) del nostro continente, tendono a risultare assai più elevati che al di fuori di esso. In buona sostanza, le esigenze dell’industria europea diventano antagoniste a quelle dei produttori agricoli e minerari, sui quali in precedenza si erano comunque scaricati i costi dell’industrializzazione. Da qui il rischio concreto di una scomparsa dell’agricoltura europea, le cui produzioni sono state via via insidiate dalle importazioni esterne, meno care anche perché di minor qualità. Se abbiamo ancora dei contadini lo si deve al regime di forti sovvenzioni garantite dalla politica agricola comunitaria, peraltro mal tollerate dagli industriali, sempre restii a pagare le imposte.
Vi è dunque alle origini dell’UE un coacervo di problemi gravi, insanabili in tempi brevi, dai quali trae origine una conflittualità endemica operante a tutti i livelli. La soluzione sarebbe stata una riduzione delle strutture produttive coordinata tra i vari Paesi, ma qui sorge il problema. Una riduzione in misura omogenea avrebbe significato ricacciare nel sottosviluppo i Paesi meno forti (sostanzialmente i Paesi mediterranei, tra i quali si colloca l’Italia). Una ripartizione più rispettosa delle esigenze dei “poveri” avrebbe d’altro canto sottoposto a riduzioni ancora più drastiche (e dunque politicamente inaccettabili) Paesi quali la Francia e la Germania.
È, in un’area geograficamente ristretta, il medesimo problema dello sviluppo che emerge con sempre maggiore forza a livello planetario man mano che avanza il processo di decolonizzazione. La risposta a questo dilemma apparentemente senza uscita è stata la cosiddetta “globalizzazione”. Vale a dire uno spezzettamento generalizzato delle attività industriali, che sono state ricollocate in varie parti del mondo. Il risultato è che oggi tutti vendono e comprano contemporaneamente prodotti industriali e agro/minerari.
L’illusione – duplice – era che i Paesi industriali (compresi quelli europei) sarebbero comunque riusciti a mantenere nelle loro mani le redini del sistema, grazie ai meccanismi contorti della finanza. Allo stesso tempo, la delocalizzazione industriale avrebbe consentito ai fornitori di materie prime di colmare il ritardo in termini di sviluppo. Ma questa era, appunto, una illusione i cui pericoli, dopo la crisi mondiale del 2007, si stanno rendendo sempre più percepibili.
Conclusioni
Dalle diverse considerazioni che abbiamo qui sommaria-mente riepilogato, sembra di poter concludere che l’unificazione dei popoli europei in un’unica, grande patria, rappresenti un bel sogno (132) destinato inevitabilmente a scontrarsi con la dura realtà delle cose. Tutto sembra indicare che l’Europa, nata originariamente nella Grecia classica, è destinata a seguire la traiettoria di quest’ultima, che storicamente, una volta giunta all’apice del suo sviluppo, non è riuscita a raggiungere né la coesione politica né la forza economica (133) necessarie per reggere di fronte alla potenza macedone dapprima e quella romana poi.
Una medesima, intrinseca debolezza, che prelude a un destino comune: venire inglobata all’interno di una nuova compagine imperiale – nella fattispecie quella americana – nella quale non può sperare di svolgere un ruolo di rilievo ma soltanto di venir derubata poco a poco delle ricchezze accumulate. Ipotesi ancora peggiore, potrebbe diventare uno dei campi di battaglia della terza guerra mondiale (134). Del resto, come appare evidente, il progetto europeo oggi in corso si pone contro la storia e contro la geografia: mutatis mutandis, è lo stesso atteggiamento dei capi bolscevichi che hanno cercato di trasformare la Russia zarista.
La politica, lo sappiamo, è l’arte del possibile, ma ciò non deve mai indurre a un atteggiamento passivo di fronte alle difficoltà. Basti pensare al “miracolo economico” italiano (135), tanto più incredibile ove si consideri che è maturato in un Paese arretrato, povero di risorse naturali, uscito semidistrutto da una guerra epocale. L’Italia degli anni ’40 e ’50 era però ben diversa da quella attuale e lo stesso dicasi per gli altri Paesi europei impegnati nella ricostruzione. Un’analisi sarebbe lunga e complessa, ma tra i molti elementi decisivi sembra opportuno ricordarne uno in particolare (che non compare, né può comparire nelle analisi scientifiche): la fede.
L’esperienza dimostra che l’unità nella pace – vale a dire una profonda unità di intenti, che rende disponibili ai sacrifici necessari – non può essere soltanto il prodotto di un’azione politica: in realtà è un miracolo, cioè un dono speciale di Dio. Come tutti i doni esso va richiesto (136), come fu ripetutamente richiesta dall’intera Europa la salvezza di fronte alla minaccia rappresentata da un’invasione turca protrattasi lungo due secoli. Per quanto limitate siano le forze dell’uomo, sappiamo che “Nulla è impossibile a Dio” (137).
Se però non si vuole ricorrere a Lui, questo dono (come molti altri) è destinato a rimanere sospeso sulle nostre teste; visibile e appetibile, ma al di fuori della nostra portata. È lo scotto da pagare per quanti, scegliendo di seguire la strada dei progenitori, concentrano le proprie energie nella ricerca personale dei frutti proibiti. Scriveva profeticamente nel 1977 Josef Ratzinger: “Forse c’è bisogno che sperimentiamo fino in fondo lo sfacelo causato dall’ateismo (…) per accorgerci infine nuovamente che l’uomo non vive affatto di solo pane, e che egli non è ancora sufficientemente redento per il fatto di godere d’uno stipendio, che gli permette di possedere tutto ciò che desidera, e di una libertà che gli consente di fare tutto ciò che vuole” (138).
__________________________
NOTE
(*) Il presente lavoro rientra all’interno di una riflessione di lungo periodo, che non è qui possibile sintetizzare ulteriormente. Il benevolo lettore comprenderà pertanto l’abbondanza inusuale delle autocitazioni, utili per quanti volessero approfondire alcuni temi specifici.
(**) Ordinario di Geografia a r. dell’Università di Trieste.
100) Dal semitico ereb, che indicherebbe tutte le terre a Occidente della Siria.
101) F. chabod, Storia dell’idea di Europa, Laterza, Roma-Bari 1977.
102) Gen 2,8.
103) Ci si limita (art. 2) a proclamare che «L’Unione è aperta a tutti gli Stati europei che rispettano i suoi valori e si impegnano a promuoverli congiuntamente».
104) G. Battisti, L’Europa come idea e progetto, «Bollettino di Dottrina sociale della Chiesa», VIII (2011) 1, pp. 9-15.
105) Questo concetto si ritrova nel Preambolo della bozza licenziata nel 2003, ma sarà quasi totalmente espunto nel testo approvato dai Capi di governo l’anno successivo.
106) II concetto è stato lanciato da Israel Zangwill in un dramma del 1908, in cui si descrive la perdita di identità degli Ebrei giunti nel “nuovo mondo”. Divenuto un’ideologia utilizzata per descrivere la società americana, una volta modificato il rapporto tra le diverse componenti dell’immigrazione si paleserà, come sempre accade nella seconda e terza generazione, la riscoperta delle “radici” proprie delle varie comunità immigrate (cfr. il romanzo di A. haley, Radici, Rizzoli, Milano 1978). Gli studi più recenti hanno allora adottato la metafora dell'”insalatiera”, dove i vari pezzi si mescolano mantenendo tuttavia le reciproche identità. Su questo concetto, cfr. G. battisti, La società multiculturale, ovvero la fine di un illusione, in G. Campione, L’. Farinelli, C. Santoro Lezzi, Scritti per Alberto Di Blasi, Pàtron, Bologna 2006, pp. 173-180.
107) II termine esatto è “Regno Unito di Inghilterra, Galles, Scozia e Irlanda del Nord”. A queste unità principali vanno tuttavia aggiunte le “dipendenza della Corona”, vale a dire le isole del Canale – che costituiscono ciascuna uno Stato sovrano – nonché la City di Londra, che gode di un regime di autonomia del tutto singolare.
108) Ancora nella I guerra mondiale i soldati tedeschi partirono per il fronte con le divise dei singoli regni a cui appartenevano.
109) Dato al dicembre 2014 (Statisticky wrad SR).
110) Un altro 44% non ha risposto alla domanda sull’affiliazione religiosa (dati al 2011, International Religious Freedom Report, 2015).
111) Cfr. G. Battisti, Verso una struttura imperiale? Il riaffacciarsi di vecchi concetti nella prospettiva della nuova Europa, «Boll. Soc. Geogr. Ital.», 2/2003, pp. 355-374.
112) Nell’incontro dei ministri della difesa della UE (Malta, 27 aprile 2017) il Segretario generale della NATO, Stoltenberg, ha dichiarato: «L’UE ha chiaramente convenuto che il suo obiettivo non è di costituire un nuovo esercito europeo o delle strutture di comando in competizione con quelle della NATO, ma qualcosa che sia complementare a ciò che fa la NATO».
113) Funzionale a questo disegno è il progressivo, pianificato degrado del sistema educativo (cfr. G. Battisti, ii tramonto di una civiltà?, «Rassegna Tecnica del Friuli-Venezia Giulia», LI (2000), 4, pp. 34-36.
114) G. Cantoni, F. Pappalardo (a cura di), Magna Europa. L’Europa fuori dall’Europa, D’Ettoris, Crotone 2007.
115) Questi Paesi hanno dato vita alla Central European Defence Cooperation, nel cui ambito è stato predisposto (giugno 2017) un piano militare per il contrasto all’immigrazione
116) Cfr. il n. 5/2017 di «Limes», intitolato ESA-Germania. Duello per l’Europa.
117) Un vecchio progetto del maresciallo Pilsudski, riproposto dal premier polacco Duda all’incontro di Varsavia del luglio 2017.
118) Cfr H. mackinder, The Geographical Pivot of History, «The Geographical Journal» XXIII (1904) 4, pp.421-444.
119) Cit. da G. sangiuliano, Putin. Vita di uno zar, Mondadori, Milano 2016, p. XII.
120) Su questa linea sembrano muoversi esplicitamente solo il Premier ungherese Orban e in parte i leader polacchi.
121) Cfr. La geopolitica delle religioni nell’epoca del ritorno del paganesimo, «Bollettino di Dottrina sociale della Chiesa», XI (2015) 4, pp. 145-151.
122) G. Sangiuliano, Putin. Vita di uno zar, cit.
123) Cfr. G. Battisti, La rinascita della Russia, in Una vita per la Geografia Scritti in ricordo di Piero Dagradi, Pàtron, Bologna 2009, pp. 315-324.
124) Stime al 2017.
125) Cfr. il n. 3/2016 di «Limes», intitolato Bruxelles il fantasma dell’Europa.
126) Nella II guerra mondiale la Germania ha riorganizzato per i suoi fini l’intera economia dell’Europa, ad esclusione della Gran Bretagna e dell’attuale Russia.
127) Gv 12,31.
128) Per A. Degasperi e R. Schuhman è iniziata la causa di beatificazione.
129) Austria, Danimarca, Norvegia, Portogallo, Svezia, Svizzera, Gran Bretagna, Islanda, Finlandia, Liechtenstein
130) Cfr. Mechter, Il colonialismo interno. Il conflitto etnico in Gran Bretagna, Scozia, Galles e Irlanda (1536-1966), Rosemberg & Sellier, Milano 1979
131) Da qui si evince l’estrema urgenza di una rivalutazione della Dottrina sociale della Chiesa, che andrebbe approfondita e applicata in ogni ambito sociale.
132) Cfr. Le Lannou, Europa terra promessa, Minerva Italica, Bergamo 1979.
133) Cfr. G. Battisti, L’Europa che non sarà, in S. Salgaro (a cura di) Scritti in onore di Roberto Bernardi, Pàtron, Bologna 2006, vol. I, pp. 439-446
134) Cfr. G. Battisti, A cent’anni dalla “Grande guerra” scenari geopolitici a confronto, in Studi in onore di E. Paratore. Spunti di ricerca per un mondo che cambia, a cura di L. Romagnoli, EDIGEO, Roma 2016, pp. 937-948.
135) E. Bernabei, L’Italia del miracolo e del futuro, Cantagalli, Siena 2012.
136) Cfr, J.-P. Isbouts, Le preghiere che hanno cambiato il mondo, Ed. Whiste Star, Milano 2016.
137) Lc 1,37.
138) J. Ratzinger, Die Situation der Kirche heute. Hoffnungen und Gefahren, Koeln, Presseamt des Erzbistmus, 1977, p. 31. E’ doveroso ricordare l’impegno che assieme a san Giovanni Paolo II il card. Ratzinger espresse per l’inclusione dei principi cristiani nella Costituzione europea (cfr. Europa. I suoi fondamenti oggi e domani, San Paolo, Cinisello Balsamo 2004)
________________________
Leggi anche:
Europa: la fine delle illusioni
“Ex captivitate salus”. Se sia ancora attuale il concetto di “Guerra civile europea”