ROMA, Di seguito pubblichiamo per la rubrica di Bioetica l’intervento della dottoressa Claudia Navarini, docente della Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum.
Nello Stato dell’Oregon, USA, è stato approvato nel 1994 il Death With Dignity Act, che stabilisce la legittimità del suicidio assistito, cioè della prescrizione di farmaci letali ai pazienti che ne fanno richiesta. La legge statale passò con un margine molto ridotto e scatenò subito vaste polemiche, al punto che rimase inattiva fino al 1997, quando il ricorso ad un referendum confermò la legge con una maggioranza più netta (60 contro 40).
Dal 1998, anno in cui la norma iniziò ad essere applicata pienamente, le persone che si sono date volontariamente la morte con l’aiuto di un medico sono state 208, una cifra decisamente inferiore alle aspettative dei suoi sostenitori.
La battaglia giuridica, peraltro, non si è mai esaurita: nel 2001 l’allora Ministro della Giustizia, John Ashcroft, annunciò che la legge dell’Oregon confliggeva con la Controlled Substances Act (1970), che stabiliva la policy federale sulla somministrazione dei farmaci, precisando che ogni prescrizione deve “essere effettuata per un legittimo fine medico”.
L’istanza di Ashcroft, giunta nel 2004 all’attenzione della Suprema Corte di Washington, è stata rigettata lo scorso 17 gennaio: la Corte ha ritenuto che l’affermazione esulasse dalle competenze dell’ex-Ministro, e che pertanto lo Stato dell’Oregon avesse la facoltà di applicare la legge, regolarmente approvata (L. Greenhouse, Justices Reject U.S.Bid to Block Assisted Suicide, “The New York Times”, 18 gennaio 2006). Il fronte pro choice cerca di utilizzare il risultato nel dibattito pubblico, sostenendo che la sentenza rappresenti un incentivo per gli altri Stati ad introdurre leggi pro-eutanasia.
In realtà, la decisione della Corte Suprema è stata essenzialmente tecnica e procedurale, mentre il tentativo dell’ex-Ministro rivela un elemento fondamentale nel dibattito sull’eutanasia, giustamente sottolineato dal giudice (della Corte Suprema) Antonin Scalia nel suo parere di dissenso: valutare un caso come quello della volontà di morire non rappresenta un atto medico, non più di quanto lo rappresentino questioni come “la legittimità della poligamia e l’infanticidio eugenetico”. Si tratta invece di una questione di coscienza, di valori, di principi etici, che dovrebbero portare ad escludere il suicidio assistito dai “legittimi fini medici” di una prescrizione farmacologica.
In Olanda l’eutanasia è legale dall’11 aprile 2001, mentre in Belgio dal 28 maggio 2002. Le due leggi, pur alcune varianti, si assomigliano. Entrambe hanno come punto di partenza non tanto il “diritto” di morire, e di coinvolgere in tale “libera scelta” un esecutore, ma la possibilità per i medici di acconsentire ad una volontà suicida, quando il richiedente sia un malato con alcune caratteristiche: incurabile, afflitto da dolori insopportabili, capace di intendere e di volere, sicuro della sua posizione, senza valide alternative.
In altre parole, tali normative introducono un ambiguo criterio di discriminazione fra vita sana e vita malata: la soppressione volontaria di una “vita sana” è un reato anche quando avvenga su richiesta, mentre nel caso di una “vita malata” non è così (cfr. L. Cantoni, L’eutanasia, in Voci per un Dizionario del Pensiero Forte). Alla vita del malato viene dunque riconosciuto realmente un minor valore , come se non si trattasse più della stessa vita umana che prima della malattia era custodita come un bene indisponibile.
Non stupisce allora che, nel volgere di pochi anni, proprio in Olanda si stiano aprendo spazi di applicazione della legge anche ai bambini, o ai soggetti afflitti da sofferenze psichiche come la depressione, cui vanno soggetti transitoriamente la maggior parte dei malati in fase terminale (cfr. C. Navarini, Un prevedibile esito della legge olandese: eutanasia anche ai neonati , ZENIT, 5 settembre 2004).
Il problema, qui, non è tanto la volontà dei pazienti, ma il “requisito di malattia”, o di debolezza, insomma di minor valore. Eppure, tutta la storia della medicina insegna che responsabilità precisa del medico non è quella di decidere quando per i pazienti è ora di vivere o di morire, ma quella di assisterli in ogni fase della loro vita, guarendo, curando, accompagnandoli nei momenti di dolore e di sofferenza.
In Francia, dove l’eutanasia è illegale, si distingue a livello penale fra somministrazione diretta di farmaci letali (eutanasia attiva) e sospensione o astensione da trattamenti sanitari (eutanasia passiva). Rifiutare un trattamento, interromperlo o non iniziarlo sono atti che vengono sbrigativamente compresi nel generale rifiuto dell’accanimento terapeutico.
Il punto delicato consiste nell’individuare correttamente l’intento e la natura di tale comportamento medico: se si tratta di omettere una terapia allo scopo di uccidere il paziente – e dunque in modo eticamente identico alla somministrazione di un farmaco letale – siamo in un caso puro e semplice di eutanasia (poco importa se “passiva”), se invece si tratta di non prolungare inutilmente l’agonia di un morente con mezzi gravosi, che accrescono solo le sofferenze, allora rientriamo nel doveroso rifiuto di accanimento terapeutico.
Va detto, per maggiore chiarezza, che – così come le vere richieste di eutanasia sono estremamente rare – l’esercizio dell’accanimento terapeutico non è frequente: i medici si rendono conto quando stanno impiegando le loro energie e la loro competenza per cercare il miglior bene dei pazienti e quando, invece, hanno fatto tutto il possibile e non resta che accettare la morte inevitabile, per quanto possa ciò apparire una sconfitta a chi si è dedicato con impegno alla cura del malato.
Accettare la morte – la nostra, quella dei propri cari, quella dei propri pazienti – fa parte di un cammino di maturazione che fa a comprendere sempre meglio il senso della nostra finitezza. Non siamo padroni della nostra vita: la vita finisce, anche se il nostro desiderio di agire e di “continuare” si manifesta come infinito.
L’equilibrio del medico si evidenzia anche nella capacità di lavorare lucidamente in tali delicati frangenti, che mettono il gioco in quadro antropologico e valoriale di ciascuno. Troppo spesso i medici vengono accusati di “accanirsi” contro un paziente quando invece stanno semplicemente eseguendo il loro lavoro, o vengono accusati di “non fare nulla” o “di lasciarlo morire” quando al contrario stanno solo piegandosi all’impotenza della medicina e alla finitezza dell’uomo.
In Svizzera, sulla scorta di una consuetudine giuridica e sanitaria ormai consolidata, un ospedale di Losanna sta “sperimentando” il suicidio assistito. In questo caso, come nelle proposte avanzate recentemente in Gran Bretagna di autorizzazione del suicidio assistito, il nucleo argomentativo è il diritto di chiedere la “dolce morte”, di esercitare incondizionatamente la propria libertà. Ciò risulta contraddittorio rispetto alla libertà stessa, che presuppone come minimo la sussistenza in vita.
L’apoteosi della libertà intesa come assoluta auto-determinazione ha portato sempre alla celebrazione del suicidio come massimo gesto di spregio per un ordine naturale che ci sovrasta e che ci rende in qualche modo sempre dipendenti. Poiché la nostra esistenza o la nostra scomparsa non sono mai del tutto irrilevanti per la società civile e per chi ci circonda, l’arma del suicidio assume anche il significato di un sottile ricatto, o di una suprema ribellione, o di una sorda offesa nei confronti degli altri, che spesso impotenti subiscono la violenza con cui il suicida si strappa la vita.
Come il suicidio “classico”, il suicidio assistito è in generale compatibile con un atteggiamento di muto orgoglio, ed è invece incompatibile con la vera umiltà, che conduce piuttosto ad avere un’idea di sé fedele alla realtà: né auto-celebrativa, né di falsa indegnità. Poiché la nostra dignità umana non viene dai nostri particolari meriti, o dall’efficienza delle nostre funzioni, o dalla qualità delle nostre caratteristiche psichiche e somatiche, siamo semplicemente realisti quando ci limitiamo a difendere ciò che sentiamo nel profondo come un valore – la vita – senza attribuirci alcuna autorità su tale valore.
Il recente disegno di legge sull’eutanasia presentato in Italia dai radical-socialisti della “Rosa nel pugno” riunisce in un solo progetto sia l’istanza individualistico-libertaria (quella del “diritto di morire”) che quella discriminatoria fra vita sana e vita malata, mescolati con una buona dose di confusione terminologica.
Il “diritto di morire” viene riconosciuto nell’art. 1 non solo per coloro che si trovano in stato terminale, ma anche per chi abbia una “malattia gravemente invalidante, irreversibile e con prognosi infausta”, anche se l’aspettativa di vita fosse ancora lunga. D’altra parte, la stessa definizione di condizione terminale è visibilmente ampia: “l’incurabile stato patologico cagionato da lesioni e malattia e dal quale secondo cognizione medico-scientifica, consegue la inevitabilità della morte” (art. 4).
Inoltre, le sofferenze che autorizzano a richiedere l’eutanasia possono essere fisiche o psichiche, ampliando così notevolmente i limiti per il ricorso alla “dolce morte”, fino a comprendere prevedibilmente anche i molti momenti depressivi che spesso accompagnano la malattia, analogamente a quanto è avvenuto – per una pericolosa e deprecabile estensione – nelle leggi olandese e belga.
L’istanza di non punibilità per i medici che eseguono la pratica viene specificata dall’art. 2, riproponendo – anche qui – un’inquietante differenza penale (e di riflesso una differenza etica) fra omicidio del sano, vietata nella legge italiana anche su richiesta (art. 579 e art. 580 del codice penale), e omicidio del malato per “sospensione del sostegno vitale”, permessa nel disegno di legge anche senza richiesta.
L’art. 4 precisa infatti che qualora un paziente “terminale” e incosciente non abbia manifestato (tramite testamento di vita) il consenso alle terapie di sostegno vitale, il medico deve procedere all’interruzione della terapia. In altre parole, è necessario che il malato si opponga alla sospensione dei trattamenti, o che un parente o un convivente propongano tale opposizione, per valutare l’eventualità di mantenerlo in vita.
L’introduzione del consenso presunto alla sospensione dei trattamenti di sostegno vitale è un fatto estremamente grave, che configura spazi inauditi di violenza e di prevaricazione sul debole, costringendo ad un’innaturale inversione dell’onere della prova: bisognerebbe provare di voler vivere e non, sebbene quasi sempre impropriamente, di voler morire. In effetti, la tendenza a considerare l’eutanasia come ovvia e la tutela della vita dei morenti come “eccezionale” è confermata anche dall’articolo relativo all’obiezione di coscienza, che costringerebbe i medici più responsabili a giustificare la loro buona medicina.
Infine, un’enfasi scorretta è posta sul rifiuto dell’accanimento terapeutico, come se il testo del disegno di legge si limitasse a questo. La relazione introduttiva indica infatti come obiettivo principale del ddl “quello di dispensare l’individuo dall’accanimento terapeutico e introdurre il concetto di divieto dell’accanimento”. Un accanimento, però, in cui entra tutto: somministrazione di farmaci letali, sospensione e rifiuto delle terapie, interruzione o non inizio dei mezzi di sostentamento vitale, con richiesta diretta o indiretta (anticipata) o addirittura presunta.
I contenuti del disegno di legge, è evidente, si allontanano decisamente dal sentire comune nei riguardi della cura al morente. La gente sa che il desiderio di morire espresso da molti malati è legato a semplici periodi di sconforto, alla paura, o al dolore fisico che può essere controllato con adeguate cure palliative, o all’inevitabile angoscia di fronte all’approssimarsi della morte, un’angoscia che nessuna “morte dolce” può impedire (cfr. C. Navarini, Su autonomia e diritto di morire, ZENIT, 15 gennaio 2006).
I promotori del testo, in realtà, lo propongono con un unico vero scopo: quello di suscitare il dibattito, di creare “il problema”, anche di scuotere con proposte prevedibilmente inaccettabili, per mettere in questione e forse indebolire il consenso sul valore della vita umana espresso dai cittadini italiani nel referendum sulla procreazione medicalmente assistita.
Lo ammette lo stesso Enrico Buemi, responsabile di Giustizia del gruppo, interrogato sull’opportunità di avviare un discorso così delicato a pochi mesi dalle elezioni politiche in Italia: “E’ una questione che nei cattolici moderati (…) si può affrontare con mediazione. Non c’è nessuna coercizione da parte nostra, ma solo una sollecitazione alla discussione” (Tgcom Politica, Eutanasia? Atto di responsabilità, 20 gennaio 2006).
Sull’intento provocatorio dell’iniziativa, sono chiarissime le parole di Paola Binetti, presidente dell’Associazione “Scienza & Vita”, nel comunicato stampa del 20 gennaio 2006 su questo tema: “I radicali sono alla disperata ricerca di visibilità dopo la sconfitta nel referendum sulla Procreazione medicalmente assistita (…). Com’è sin troppo facile rilevare, si rinnova il tentativo di riscrivere l’alfabeto antropologico di questo Paese, camuffato da rivendicazione dei diritti personali”.
E in conclusione, la raccolta decisa della sfida: “se la battaglia culturale sul fronte dell’eutanasia è stata lanciata, si sappia che Scienza & Vita farà la sua parte sino in fondo a difesa della dignità e dell’intangibilità della vita di ciascun uomo, donna o bambino”. Il popolo della vita è pronto anche stavolta.