di Massimo Introvigne
Formalmente datata 24 novembre 2013, giorno della chiusura dell’Anno delle fede, l’esortazione apostolica di Papa Francesco «Evangelii gaudium», che fa seguito al Sinodo del 2012 sulla nuova evangelizzazione, è stata pubblicata martedì 26 novembre. Quest’ampio documento – salvo errori, il più lungo (220 pagine) nell’intera storia delle encicliche e delle esortazioni apostoliche pontificie –, è una vera piccola – ma non piccolissima – enciclopedia sull’evangelizzazione. Il Papa afferma di essere consapevole di una mole forse «eccessiva» e che «oggi i documenti non destano lo stesso interesse che in altre epoche, e sono rapidamente dimenticati». Ma considera essenziali i temi trattati, e a tutti chiede un serio studio del testo.
Oppure, al contrario, si darà spazio alla forte denuncia del relativismo – compreso quello dei cattolici che occultano la loro identità cristiana per un complesso d’inferiorità nei confronti della cultura dominante –, con ampie citazioni di Benedetto XVI, alla difesa della famiglia, alla condanna davvero durissima dell’aborto con la chiara affermazione che su questo punto – come su quello che nega il sacerdozio alle donne – la dottrina della Chiesa non cambia e non può cambiare.
Ma qualunque lettura parziale e frettolosa, che cerca di estrarre dal documento qualche frase o paragrafo con cui ci si sente più in sintonia, è sbagliata. Il testo ha una sua architettura precisa, che dev’essere seguita. Consta di cinque parti, attraverso cui scopriamo come il cristianesimo o è missionario o non è, affrontiamo gli ostacoli che si frappongono oggi alla missione, dall’interno e dall’esterno della Chiesa, studiamo le modalità della nuova evangelizzazione, ne esaminiamo le conseguenze – che non sono facoltative – sul piano della dottrina sociale, e infine siamo richiamati alla dimensione spirituale che è l’anima e il segreto di ogni apostolato. Piccola enciclopedia, sì, ma su un tema preciso: la nuova evangelizzazione, di cui vuole essere una trattazione completa e un manuale denso d’indicazioni spirituali, pastorali e pratiche.
Prima dei cinque capitoli il testo ha una parte introduttiva, che non è pleonastica, e che insiste sulla gioia cristiana, che diventa «la dolce e confortante gioia di evangelizzare», un’espressione del venerabile Paolo VI (1897-1978) che Francesco ha citato più volte e che qui traduce nel suo linguaggio caratteristico: «un evangelizzatore non dovrebbe avere costantemente una faccia da funerale». Papa Francesco cita pure ancora una volta un’espressione di Benedetto XVI secondo cui «la Chiesa non cresce per proselitismo» – un’espressione che nel Magistero recente non indica la missione, ma le sue modalità aggressive e poco rispettose del cammino delle persone – ma «per attrazione». In nessun modo la critica del proselitismo deve però portarci a «perdere la tensione per l’annunzio […] perché questo è il compito primo della Chiesa.»
Il primo capitolo ci parla di una Chiesa che o è missionaria o non è. In un momento in cui si parla tanto di riforme, il Papa afferma che nella Chiesa ogni riforma non può che essere un ritorno alla centralità di Gesù Cristo e della missione, senza la quale «qualsiasi nuova struttura si corrompe in poco tempo». Francesco cita il beato Giovanni Paolo II (1920-2005): «Ogni rinnovamento nella Chiesa deve avere la missione come suo scopo per non cadere preda di una specie d’introversione ecclesiale».
Mentre il Papato stesso cerca – sono ancora parole di Papa Wojtyla – «una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova», la Santa Sede deve affrontare il grave problema della comunicazione, in un contesto dove a causa della «selezione interessata dei contenuti operata dai media, il messaggio che annunciamo corre più che mai il rischio di apparire mutilato».
Francesco ripete che, se è vero che tutte le verità vanno «credute con la medesima fede» e «non bisogna mutilare l’integralità del messaggio del Vangelo», tra le verità c’è una gerarchia e nell’evangelizzazione l’annuncio della misericordia divina deve venire prima di quello dei precetti etici. L’Eucaristia, poi, «sebbene costituisca la pienezza della vita sacramentale, non è un premio per i perfetti ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli»: la Chiesa «non è una dogana», e priva le persone dell’assoluzione e dei sacramenti solo per buone ragioni e non «per una ragione qualsiasi».
Il secondo capitolo presenta gli ostacoli all’evangelizzazione, sempre suscitati dallo «spirito cattivo», il Diavolo. Alcuni sono esterni alla Chiesa, e derivano sia dall’attenzione ossessiva all’economia di una «cultura del benessere» che liquida i poveri, i malati, gli anziani come scarti di produzione, sia dal relativismo e dal rifiuto «beffardo» di «norme morali oggettive, valide per tutti», sulla cui esistenza la Chiesa non rinuncia a «insistere». Il relativismo, con la sua «tremenda superficialità» sulle «questioni morali», non danneggia solo la religione «ma la vita sociale in genere». Nei Paesi in via di sviluppo si rinnovano «situazioni di persecuzione dei cristiani», mentre proliferano «nuovi movimenti religiosi» che si presentano a colmare i vuoti lasciati dalla propaganda dell’ateismo e talora da un cristianesimo poco efficace.
In Occidente un laicismo aggressivo vuole «ridurre la fede e la Chiesa all’ambito privato e intimo», e negare ai Pastori il diritto di levare la loro voce in difesa di un’antropologia che è naturale prima che cristiana, specie in tema di famiglia e di matrimonio. Papa Francesco cita qui il documento dei Vescovi francesi, pubblicato prima dell’approvazione della legge sul «matrimonio» omosessuale e critico nei confronti di quella legge, il quale insegna che il matrimonio non nasce «dal sentimento amoroso, effimero per definizione, ma dalla profondità dell’impegno assunto dagli sposi».
«L’individualismo postmoderno e globalizzato favorisce uno stile di vita che indebolisce lo sviluppo e la stabilità dei legami tra le persone, e che snatura i vincoli familiari». E tuttavia, anche in Occidente, rimane – al di là della partecipazione alla vita della Chiesa – «una cultura segnata dalla fede», che talora si manifesta ancora «dinanzi agli attacchi del secolarismo attuale, con reazioni vigorose e impreviste. Segnali positivi, ma molto rimane da fare. Troppi cattolici, compresi sacerdoti e religiosi, passano troppo tempo a seguire la «cultura mediatica», finendo per assorbire «una marcata sfiducia nei confronti del messaggio della Chiesa» e per sviluppare «una sorta di complesso di inferiorità, che li conduce a relativizzare o ad occultare la loro identità cristiana e le loro convinzioni», cedendo al «relativismo» in «una specie di ossessione per essere come tutti gli altri».
Due sono le tentazioni più gravi oggi, afferma l’esortazione: la convinzione che, comunque sia, su certe battaglie abbiamo già perso, «il senso di sconfitta, che ci trasforma in pessimisti scontenti e disincantati dalla faccia scura», e la mondanità spirituale – di cui Papa Francesco parla spesso – che non è il gusto del lusso e delle ricchezze (quella è la mondanità materiale) ma il fare il bene in nome dell’uomo e non in nome di Dio. A ben vedere – anche qui il Papa ripete temi già illustrati in precedenza – sia i «nuovi gnostici», che si presentano come moderni e aggiornati, sia i «nuovi pelagiani», i quali pensano che la fedeltà da «museo» a «un certo stile cattolico proprio del passato», basti di per sé alla salvezza, sono vittime della mondanità spirituale.
Dalla mondanità spirituale nascono poi conflitti continui nella Chiesa, tra cui quelli promossi in nome dei diritti delle donne. Il Papa è disponibile a ogni valorizzazione del ruolo della donna nella Chiesa, ma ricorda pure che «il sacerdozio riservato agli uomini, come segno di Cristo Sposo che si consegna nell’Eucaristia, è una questione che non si pone in discussione».
Il terzo capitolo dell’esortazione apostolica presenta la natura dell’evangelizzazione, il cui soggetto è la Chiesa. Tra i vari strumenti di evangelizzazione, numerose pagine sono dedicate alle omelie, perché – scrive Francesco – oggi «molti sono i reclami in relazione a questo importante ministero e non possiamo chiudere le orecchie». Gli accenti sono molto severi contro chi riduce l’omelia a «uno spettacolo di intrattenimento» o scimmiotta i «programmi televisivi».
Il sacerdote che predica deve prepararsi bene, altrimenti «è disonesto ed irresponsabile», e deve avere un vero «culto della verità», «con un santo timore di manipolarla» e di annunciare un messaggio proprio anziché quello della Scrittura e della Chiesa, vivendo la preparazione all’omelia nella preghiera e nella vita spirituale. Diversamente «sarà un falso profeta, un truffatore o un vuoto ciarlatano».
Dopo l’omelia, il testo tratta della catechesi, insistendo sul primo annuncio – «Gesù Cristo ti ama, ha dato la sua vita per salvarti, e adesso è vivo al tuo fianco» – e sull’opportunità di utilizzare oggi «la via della bellezza» tanto cara a Benedetto XVI, evangelizzando attraverso l’arte, antica e moderna, sempre attenti però a non «fomentare un relativismo estetico, che possa oscurare il legame inseparabile tra verità, bontà e bellezza».
Il quarto capitolo presenta le conseguenze sociali dell’evangelizzazione, di cui la dottrina sociale della Chiesa è parte integrante e non facoltativa. Il Papa ne richiama due aspetti: l’inclusione sociale dei poveri di fronte a un nuovo «individualismo edonista pagano» – affermando pure «con dolore che la peggior discriminazione di cui soffrono i poveri», e di cui sono responsabili tanti cattolici, «è la mancanza di attenzione spirituale», come se avessero diritto solo agli aiuti materiali e non al Vangelo – e la pace sociale. «La politica, tanto denigrata, è una vocazione altissima, è una delle forme più preziose della carità, perché cerca il bene comune». Il documento mette in guardia contro un «populismo irresponsabile» che rifiuta la politica e propone soluzioni demagogiche per l’economia.
Quando si parla di deboli e di ultimi, non si deve mai dimenticare che tra loro «ci sono anche i bambini nascituri, che sono i più indifesi e innocenti di tutti, ai quali oggi si vuole negare la dignità umana al fine di poterne fare quello che si vuole, togliendo loro la vita e promuovendo legislazioni in modo che nessuno possa impedirlo». Spesso si cerca di «ridicolizzare allegramente la difesa che la Chiesa fa delle vite dei nascituri». Ma la violazione del diritto alla vita «grida vendetta al cospetto di Dio e si configura come offesa al Creatore dell’uomo». Sbaglia di grosso, precisa Papa Francesco, chi si aspetta «che la Chiesa cambi la sua posizione su questa questione. Voglio essere del tutto onesto al riguardo. Questo non è un argomento soggetto a presunte riforme o a “modernizzazioni”. Non è progressista pretendere di risolvere i problemi eliminando una vita umana».
Il secondo aspetto della dottrina sociale che Papa Francesco sviluppa – con accenti e con una trattazione originale – nell’esortazione apostolica è la nozione di pace sociale, che riposa su quattro principi della dottrina sociale della Chiesa. Il primo, già sviluppato nell’enciclica «Lumen fidei», è che «il tempo è superiore allo spazio»: non dobbiamo mai credere che un certo esito di ogni dibattito sociale sia già precostituito e inevitabile. Il secondo è che «l’unità prevale sul conflitto».
Il terzo, per evitare ogni utopismo e nominalismo, è che «la realtà è più importante dell’idea». Il quarto è che «il tutto è superiore alla parte», un principio che aiuta a vivere nella globalizzazione senza perdere le proprie tradizioni e radici. «Il modello non è la sfera, che non è superiore alle parti, dove ogni punto è equidistante dal centro e non vi sono differenze tra un punto e l’altro. Il modello è il poliedro, che riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso mantengono la loro originalità».
La Chiesa testimonia questi principi nel dialogo con gli uomini di scienza, che richiama alla «legge naturale, affinché rispettino sempre la centralità e il valore supremo della persona umana in tutte le fasi della sua esistenza», e nel dialogo ecumenico e interreligioso con le altre confessioni e religioni, che il Papa giudica indispensabile ma invita a non confondere con un «sincretismo conciliante» e con un’errata rinuncia all’annuncio missionario. E questo vale in particolare nel dialogo con i Paesi musulmani, cui il Papa rivolge un appello – assicurando che da parte cattolica si eviteranno «odiose generalizzazioni» che fanno di ogni musulmano un terrorista – «affinché assicurino libertà ai cristiani affinché possano celebrare il loro culto e vivere la loro fede, tenendo conto della libertà che i credenti dell’Islam godono nei paesi occidentali!». Il punto esclamativo sottolinea l’accenno, com’è noto non proprio gradito a molti musulmani, alla reciprocità.
Non solo ai musulmani il Pontefice ricorda poi che la libertà religiosa «non implica una privatizzazione delle religioni, con la pretesa di ridurle al silenzio e all’oscurità della coscienza di ciascuno», e che «il rispetto dovuto alle minoranze di agnostici o di non credenti non deve imporsi in un modo arbitrario che metta a tacere le convinzioni di maggioranze credenti o ignori la ricchezza delle tradizioni religiose».
La quinta parte del testo presenta le radici spirituali dell’evangelizzazione. Dobbiamo convincerci che «la verità […] non passa di moda» e che «la nostra tristezza infinita si cura soltanto con un infinito amore». A un mondo relativista, il Papa ripete che «non è la stessa cosa aver conosciuto Gesù o non conoscerlo, non è la stessa cosa camminare con Lui o camminare a tentoni».
Ma perché evangelizziamo? La risposta corretta è che lo facciamo per la maggior gloria di Dio: «questo è il movente definitivo, il più profondo, il più grande, la ragione e il senso ultimo di tutto il resto». Comprendiamo allora che la missione «non è una parte della mia vita, o un ornamento che mi posso togliere, non è un’appendice, o un momento tra i tanti dell’esistenza. È qualcosa che non posso sradicare dal mio essere se non voglio distruggermi. Io sono una missione su questa terra, e per questo mi trovo in questo mondo».
A chi obietta che la missione oggi non dà risultati, Francesco risponde che la sua fecondità «molte volte è invisibile, inafferrabile, non può essere contabilizzata». «Forse il Signore si avvale del nostro impegno per riversare benedizioni in un altro luogo del mondo dove non andremo mai. Lo Spirito Santo opera come vuole, quando vuole e dove vuole». Lo sapeva bene Maria Santissima, sublime esempio di libertà dall’esito. Preghiamo dunque la Madonna «perché la gioia del Vangelo giunga sino ai confini della terra e nessuna periferia sia priva della sua luce».