ESTANISLAO CANTERO NÚÑEZ
Nei giorni 12, 13 e 14 novembre 1982 si è svolta ad Alcobendas, presso Madrid, nella residenza San Pedro Mártir del padri domenicani, la XXIII Reunión de amigos de la Ciudad Católica sul tema ¿Crisis en la democracia? I lavori del convegno sono stati aperti da una relazione di Estanislao Cantero Núñez, il cui testo, riveduto dall’autore per questa edizione italiana, è stato tradotto dal dattiloscritto originale in spagnolo da Maurizio Dente
Una nuova idolatria
Porsi in forma interrogativa il problema della “crisi della democrazia” non significa avere dubbi di sorta sull’argomento. Infatti, tale forma interrogativa non esprime assolutamente una perplessità, ma è resa necessaria dal significato polivalente della parola “democrazia”, con la quale spesso si intende qualcosa di molto diverso dalla realtà della democrazia attuale, dal momento che sono esistite accezioni della parola “democrazia” diverse dal suo significato moderno. Se non fosse così, non avrebbe senso porsi il problema della crisi della democrazia, poiché essa, nella sua accezione moderna, non è mai stata altro che una malattia sociale di per sé incurabile (1). E la forma interrogativa è resa necessaria anche dalla realtà della democrazia attuale.
Attualmente, infatti – ma non da oggi e in molti luoghi – tutto è stato inglobato sotto il manto della democrazia: è come un’atmosfera che abbraccia tutto e tutto contiene e fuori dalla quale vi è soltanto il nulla. Oggi, praticamente, tutta la realtà sociale, per essere legittimata, deve essere accompagnata dall’aggettivo che deriva da “democrazia”: alcuni esempi ne sono: università “democratica”, scuola “democratica”, giustizia “democratica”, esercito “democratico” o monarchia “democratica”.
Si tratta di esempi che rivelano come l’enfasi ricada sulla democrazia a tale punto che, aggettivando una realtà a essa preesistente, questa stessa realtà diventa aggettivo della entelechia della democrazia, che si sostituisce a essa. Ci troviamo di fronte al fatto terribile denunciato al suo tempo da Charles Maurras: “Francia se…”, “Francia però…”. “Francia a patto che…” (2).
Cioè, la patria, lo Stato, la giustizia, e cosi via, se, però, a patto che si tratti della patria “democratica”, dello Stato “democratico”, della giustizia “democratica”. In questo modo la natura, le cose, la realtà passano in secondo piano davanti alla nuota divinità, sul cui altare, se è necessario, devono essere sacrificate. Come fa osservare Juan Vallet de Goytisolo, “la parola “democrazia” viene usata come un talismano legittimatore” (3).
Intendo trattare appunto di questa nuova idolatria, nella quale la democrazia occupa forse il posto più elevato, di questa democrazia fuori dalla quale – come ha scritto Juan Antonio Widow – vi sono “solo tenebre esteriori” (4): e per la semplice ragione che è l’unica democrazia oggi esistente.
Cercando di dare una visione panoramica del problema, intendo situarne i diversi aspetti in un quadro di insieme, indicando rapidamente le vicissitudini attraverso le quali si è pervenuti all’attuale significato di “democrazia”.
II. La democrazia classica
Forma di governo
“Democrazia” è parola greca che, etimologicamente, significa “governo popolare” da demos e kratéo. Compare già in Erodoto, nella prima classificazione dei regimi politici che si conosca (5). Nella Repubblica Platone la utilizza insieme a “tirannia”, a “oligarchia” e a “timocrazia” per indicare diverse forme di degradazione del regime politico buono e giusto (6), che può essere aristocratico o monarchico (7).
Nel Politico egli riduce la classificazione a tre possibili regimi e in essa la parola “democrazia” passa a designare tanto uno dei possibili regimi giusti – insieme alla monarchia e all’aristocrazia – che la sua corruzione – insieme alla tirannia e alla oligarchia (8).
Aristotele, che mantiene questa tripartizione, utilizza la parola “democrazia” nella Politica (9) e nell’Etica a Nicomaco (10), per designare la corruzione di uno dei possibili regimi politici – il regime popolare – mentre denomina politeia la sua forma corretta, che generalmente viene tradotta con repubblica.
Comunque, poiché il significato peggiorativo di “democrazia” non era di uso generale – i discepoli di Aristotele parlarono di democrazia invece che di politeia e chiamarono “oclocrazia”, cioè “governo della plebe”, la sua corruzione (11) -, la parola “democrazia” si limitò a designare una forma di regime politico, retto o corrotto che fosse (12).
La classificazione aristotelica dei regimi politici è quella seguita da san Tommaso nel suo De regimine principum (13) e, come nota Juan Antonio Widow, “considerandoli formalmente in sé stessi e non nella loro concreta realtà […] con il termine democrazia indica sempre la corruzione della repubblica” (14).
Quindi, per san Tommaso – come aggiunge lo stesso Widow – “sul piano del suo significato strettamente concettuale questo termine è, dunque, univoco” (15). Non succede la stessa cosa quando si tratta di regimi concreti, poiché in questo caso la frontiera tra il meno buono – la repubblica – e il meno cattivo – la democrazia – è “praticamente indefinibile” (16), per cui si verifica una reciproca assimilazione tra i due.
Partecipazione del popolo all’ordine politico
Si può anche ammettere che “democrazia”, oltre che in questa accezione, cioè nel significato di forma di governo o di regime politico – nella duplice accezione di regime giusto o corrotto – è stata usata per indicare partecipazione del popolo al governo piuttosto che come esercizio del governo da parte del popolo. È un significato che troviamo in san Tommaso e che esprimerebbe il concetto di democrazia nel regime misto cui fanno riferimento Aristotele (17) e Polibio (18).
Insieme a questi due significati di “democrazia” che “designa in primo luogo la corruzione del regime repubblicano” (19) e “successivamente si estende a ogni regime in cui la moltitudine domina nel bene e nel male“ (20), san Tommaso utilizza il termine nel senso di partecipazione del popolo al governo.
Nella Somma Teologica egli spiega perché il regime migliore è quello misto: “La costituzione migliore per una città o una nazione è quella in cui uno solo è il depositario del potere e presiede su tutti in modo che alcuni partecipino al potere e, tuttavia, il potere appartenga a tutti nel senso che tutti possono essere eletti e tutti eleggono a propria volta.
“Questo è il buon regime politico, in cui si uniscono la monarchia – poiché è uno solo a guidare tutta la nazione -, l’aristocrazia – poiché sono in molti a partecipare all’esrercizio del potere – e la democrazia, che è il potere del popolo, in quanto coloro che esercitano il potpre possono essere eletti dal popolo ed è il popolo che li elegge” (21).
In san Tommaso dunque, come nota Juan Antonio Widow, “il significato della democrazia, come elemento del regime misto è, di conseguenza, quello di partecipazione del popolo all’ordine politico, non per governare, ma per il suo diretto interesse al buon governo”; “il regime misto non è un regime democratico, ma una monarchia con alcuni elementi democratici; intendendo qui la parola democrazia nel senso di partecipazione del popolo all’ordine politico e non come potere di governo radicato nella moltitudine” (22).
Rettitudine del regime politico
Tuttavia, vi è un problema importante che merita di essere sottolineato, poiché è quello che segna una differenza essenziale con la democrazia moderna.
La concezione della democrazia come una delle forme di governo prende le mosse dal riconoscimento dell’esistenza di un fine proprio che la comunità politica deve conseguire e che determina la giustizia o rettitudine di un regime politico (23). Perciò, al di sopra della classificazione fatta in base al numero di coloro che esercitano il potere, bisogna avere presente e tenere conto della classificazione in regimi giusti e regimi ingiusti.
In passato l’attenzione non si centrava sul numero di coloro che esercitavano il potere ma, piuttosto, su come il potere stesso veniva esercitato. Cioè, la preoccupazione principale consisteva nell’individuare il regime giusto e retto, come si può chiaramente vedere in Platone che, esponendo nella Repubblica la quintuplice classificazione a cui ho fatto riferimento, parte dal regime giusto per poi indicare, a confronto con esso, quelli che, per essersene allontanati, sono diventati via via più ingiusti (24).
Non è necessario isolare con una parentesi i sofisti; la storia del pensiero classico dimostra chiaramente come la questione della legittimità delle forme di governo, dei regimi politici, non era estranea alla sua problematica, ma era, piuttosto, una preoccupazione costante, che si giustificava con il fine della vita della comunità politica cui si tendeva, tenendo conto della peculiare natura di questa comunità. Tanto Platone (25), che Aristotele (26), soprattutto, o, tra i romani, Cicerone (27), presupponevano l’esistenza di un bene proprio e specifico della comunità, per la cui realizzazione bisognava tenere conto della natura delle cose.
L’allontanamento da questo bene, nel caso in cui nel governo della comunità si prescindesse da esso, faceva cadere nella tirannia, nell’oligarchia o nella democrazia, utilizzando la parola in quel significato di corruzione in cui essi la usavano.
Niente è più lontano dalla realtà, quindi, che considerare Charles-Louis de Montesquieu il primo ad avere aggiunto al problema del numero di quelli che esercitano il potere l’attenzione per la forma di esercizio dell’autorità, cioè la sua conformità alle leggi o la sua arbitrarietà (28). E dobbiamo osservare che questo secondo aspetto era assai più cogente e imprescindibile nell’antichità che non nei tempi moderni, che pure esigono la legittimazione. In realtà, come segnala Juan Antonio Widow, “il problema classico della diversità dei regimi presupponeva sempre la natura e il fine dell’oggetto del governo” (29).
Analogamente, per san Tommaso un regime politico non si legittimava e non era buono in base alla sua forma; cioè, non lo era in quanto monarchico, aristocratico o repubblicano; al contrario, ciò che legittimava ciascuno dei possibili regimi teoricamente buoni era precisamente il buon governo (30).
Come nota lo stesso Widow, si trattava di governare bene (31). E questo governare bene, al tempo in cui scriveva san Tommaso, voleva dire inscriversi nella realtà dell’ordine cristiano. Presupponeva un ordine naturale, posto da Dio nel creato, che era compito dell’uomo scoprire e rispettare (32). Quando ciò avveniva, il regime politico, indipendentemente dalla sua forma – monarchia, aristocrazia, repubblica o democrazia -, era legittimo, anche se la teoria riteneva che il miglior sistema politico fosse il regime misto (33).
III. Da una democrazia all’altra
L’ordine naturale, fondamento della vita sociale
Tutto il problema è lì, nell’ordine naturale: a questo proposito si verificò la rottura della Cristianità (34), da cui si produsse come conseguenza la nascita delle società rivoluzionarie dell’età moderna (35). Mi soffermo, sia pure brevemente, su questo punto perché consentirà di comprendere l’evoluzione che ha subìto il concetto di democrazia.
Per san Tommaso, per il pensiero aristotelico-tomista e per la dottrina sociale della Chiesa, la vita della comunità politica non dipende soltanto dalla forma di governo. Essa dipende soprattutto dal rispetto dell’ordine sociale naturale e la comunità politica non è un complesso di individui isolati ma una società di società: una società di società che ha origine naturale (36).
Ammesso il carattere naturale della polis o comunità politica, costituita per la realizzazione della naturale aspirazione di ogni uomo alla propria perfezione (37), il tutto così formato ha una naturale priorità rispetto alle parti che lo compongono (38). Tuttavia Aristotele non era certamente totalitario nel senso che questa espressione ha nei moderni Stati totalitari, nei quali tutto è subordinato all’interesse dello Stato, interesse che, inoltre, lo Stato stesso determina (39).
Le parti che costituiscono il tutto, che è la comunità politica, non perdono le proprie caratteristiche e le proprie peculiarità e non si confondono con il tutto. La città, la comunità politica, infatti, non costituisce un composto omogeneo ma piuttosto eterogeneo (40), le cui singole parti restano distinte le une dalle altre con proprie funzioni. La comunità politica è una unità armonica (41); una unità che non rende uguali le singole parti e non le fa identiche, poiché questa unità deriva dal dispiegarsi della socialità umana ordinata a un fine comune del consorzio degli uomini liberi, che Aristotele fa consistere nella vita virtuosa (42).
San Tommaso precisa che tale fine comune è il bene comune (43), che si pone tra il bene naturale e quello particolare degli individui e dei gruppi, e il bene comune trascendente, di ordine spirituale, che è Dio (44).
Tanto nel pensiero che nella realtà medievali era essenziale la concezione della costituzione naturale della comunità politica come società di società, ciascuna delle quali godeva di propria autonomia e di libertà concrete, che non venivano assorbite e annichilite dalla comunità politica, dallo Stato. Il semplice raggrupparsi di società minori o corpi intermedi non è sufficiente, d’altra parte, a costituire tale comunità politica. La semplice aggregazione delle parti non costituisce di per sé lo Stato, società perfetta e autosufficiente che ha come fine il bene comune. È necessario un elemento organizzatore di tutte le sue parti, ed è l’autorità, che unifica e coordina le forze e le tendenze delle singole parti e le ordina al bene comune e alla prosperità della comunità politica e della società (45).
Grazie all’autorità scaturisce l’unità sociale: una unità armonica tra le sue parti, che si fonda sulla unità del fine e sulla unità dei mezzi e dell’indirizzo per raggiungerlo (46), che si ottiene armonizzando il principio di totalità e il principio di sussidiarietà per mezzo del bene comune (47).
Questa era la concezione classica della vita sociale, le cui regole erano tratte dalla contemplazione della natura, che forniva le soluzioni dei problemi che si presentavano; la natura contemplata in tutta la sua ampiezza, tanto nei suoi aspetti statici che in quelli dinamici, tenendo conto delle sue cause e dei suoi effetti (48). Una forma di governo o di regime politico, qualunque essa fosse, retta in teoria, per esserla nella pratica doveva rispettare questo ordine naturale che l’uomo si doveva sforzare di scoprire.
Un “ordine nuovo”
Ma tutto questo venne negato. Soprattutto, e in modo radicale, da Guglielmo di Ockam. La controversia sugli universali e la loro negazione non è infatti un problema che appartenga solo alla storia della filosofia. Il nominalismo implica la negazione dell’esistenza di un ordine naturale come conseguenza della negazione di principi autentici di carattere universale. Perciò il nominalismo, che è inizialmente una teoria della conoscenza, finisce con il diventare una dottrina ontologica (49).
E così non esiste più il diritto naturale, ma diritti diversi, distinti gli uni dagli altri e che possono anche essere – perché no? – opposti (50). Non vi sono più regole, leggi e norme di condotta a cui tutti siano tenuti ad assoggettarsi. Non vi e più ordine naturale su i cui princìpi modellare la società, anche se il suo rispetto non significava, in passato, negare la diversità delle società trasformandole tutte in qualcosa di uniforme in ogni tempo e luogo. Con il nominalismo si inaugura quell’epoca moderna in cui esistono tanti “ordini” quante società, nel cui ambito ciascuno fa suoi i princìpi che più gli aggradano (51).
Gli fa seguito l’idealismo, che inaugura il metodo di fare filosofia e di considerare la società all’origine dei mali di cui oggi siamo vittime (52). Attribuendo un ruolo preponderante, se non esclusivo, alla ragione rispetto alla realtà, l’idealismo, secondo cui la verità non è nelle cose, ma nel pensiero, giunge alla conclusione che non esiste una verità oggettiva, ma tante verità a proposito di una stessa realtà, quante menti che elaborano idee. È la realtà, dunque, a doversi adattare a ciò che il pensiero inventa o immagina (53).
Nell’ambito politico anche per l’idealismo non esiste un ordine naturale universale, né una natura oggettiva, né principi perenni, validi in ogni tempo e luogo (54).
Entrambi, nominalismo e idealismo, conducono al volontarismo, cioè al totalitarismo (55), poiché impongono come organizzazione della società la concezione o l’immagine che di essa hanno elaborato. La società non sarà più una realtà naturale, ma artificiale (56), poiché lo “stato di natura” verrà proprio immaginato come stato pre-sociale (57). Ne deriva che la società e l’organizzazione necessaria alla sua conservazione non saranno altro che una costruzione sociale totalitaria elaborata da uno qualsiasi dei teorici del contrattualismo razionalista (58).
Così si sfocia nelle teorie politiche più stravaganti – il liberalismo e la democrazia moderna -, in cui la legge non è altro che l’espressione della volontà generale (59), oppure nel marxismo, in cui alla volontà generale si sostituisce la volontà del mitico (60) proletariato (61). Ma, nell’uno e nell’altro caso, siamo sempre di fronte a un totalitarismo.
Che cosa ha a che vedere tutto questo con la democrazia? Con quella classica, cui prima ho fatto riferimento, evidentemente nulla; ma è il fondamento della democrazia moderna, nata nel secolo XVIII e in cui viviamo ancor oggi.
L’ideologia moderna – ha osservato Juan Vallet de Goytisolo – concepisce l’uomo come isolato, separato tanto dai suoi simili che dalle comunità in cui si svolge la sua vita, un uomo a-storico (62). Nello stesso tempo, sulla base delle preferenze di ciascun ideologo, ci si sofferma su quell’aspetto dell’uomo che si considera essenziale e che determinerebbe il suo modo di essere. Si afferma di partire dallo “stato di natura”, e perfino dalla stessa “natura”. Tuttavia si tratta soltanto di una finzione, di una illusione che nasce in chi fa questo tipo di analisi. In realtà – come fa notare lo stesso Vallet de Goytisolo – si verifica una mutilazione della natura, perché si prescinde dalle sue qualità, dalle cause finali e dai corpi sociali naturali (63).
In altre parole, si parte dall’uomo astratto invece che da quello concreto, radicato nelle sue comunità naturali, che era invece il punto di partenza del realismo aristotelico-tomista, e lo si considera come l’unica realtà per costruire, a partire da esso, una società nuova e “perfetta”, conforme al modello da ciascuno immaginato (64).
Per uscire dallo “stato di natura” è necessaria la stipula di un contratto con il quale gli associati cedono volontariamente i propri diritti “naturali” per raggrupparsi sotto un’autorità, il che rappresenterebbe l’atto di costituzione della società (65). In questo modo, da questo contratto scaturisce la legge, la cui fonte è, dunque, la volontà di coloro che la istituiscono (66). In questo modo, ancora, la legge, la società, l’autorità e il diritto vengono ad avere una origine estrinseca, imposta con la violenza rispetto alla natura.
IV. La democrazia moderna
La nuova legalità democratica
Fondata su queste basi e in questa prospettiva, che cos’è la democrazia?
Ormai non è più una forma di governo o, almeno, non la e più soltanto; e se si continua a considerarla una forma di governo, essa è però qualcosa di radicalmente diverso da ciò che fino ad allora si era inteso con questa espressione. E, naturalmente, la sua caratteristica prima non è quella di essere una forma di governo: la sua caratteristica principale è quella di essersi trasformata in una forma di Stato, in una forma di comunità politica; meglio, di essere diventata la forma di Stato, l’unica forma che legittimamente la comunità politica può avere.
L’essenza di questa nuova democrazia, la democrazia moderna – terminologia che è necessario adottare per evitare qualsiasi equivoco (67) -, consiste nella scomparsa del fondamento della sua concezione classica costituito, come abbiamo visto, dal fine proprio della comunità politica e dalla natura peculiare di ciò che deve essere governato.
La democrazia moderna trova in sé stessa la propria legittimazione e, nello stesso tempo, legittima tutto. Non vi è alcuna realtà da cui essa dipenda e non vi sono neanche realtà diverse da essa. La democrazia moderna diventa così una divinità, e nasce un panteismo democratico, o pandemocratismo, che trova la propria giustificazione soltanto in sé stesso. La tesi che vede la democrazia moderna sostituirsi a Dio è certamente impressionante, tuttavia non è assolutamente esagerata.
Così il soggetto della sovranità, da cui promanano tutti i poteri, è il popolo, come stabilisce la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo del 1789. Non si tratta, però, del popolo che possiede vita propria (68), ma della volonté generale, che prende il posto del popolo: e in questa volontà risiede il potere, tutto il potere (69). Si tratta di un potere indipendente, che non riconosce assolutamente né la sua origine divina né Dio stesso e le sue leggi, né l’ordine naturale da Lui stabilito.
Al massimo, Dio viene relegato al livello della coscienza individuale, senza però che sia sottomesso a Lui il cittadino, l’uomo politico che nasce dal contratto sociale. E con questa pretesa blasfema di limitare il potere di Dio, si nega la sua onnipotenza: il che equivale a rifiutarlo.
La sostanza della democrazia si può sintetizzare nella sostituzione dell’ordine creato da Dio, cui l’uomo e la società devono sottomettersi, con un ordine sorto ex novo per opera della volontà generale.
Così concepita, la democrazia moderna diventa quindi la forma, la costituzione, che si dà da solo l’insieme degli individui quando crea la società mediante il contratto sociale. Non è più una forma di governo o di regime politico, in quanto non si limita a essere una tecnica di designazione dei governanti, né un modo di esercitare il governo della comunità politica. La democrazia classica, diretta o indiretta, presupponeva una realtà sociale che non era creata da essa.
Nel medesimo tempo, la sua legittimazione non le proveniva da sé stessa, neanche nel caso in cui fosse il popolo a esercitare il potere. Nella democrazia moderna, è esattamente il contrario, come dimostrano le grandissime atrocità che si vogliono elevare a dignità di legge, e come affermò Emmanuel-Joseph Siéyès: “Alla volontà nazionale basta […] soltanto la propria realtà per essere sempre legittima. Essa è la fonte di ogni legalità” (70).
Totalitarismo e ideologia democratica
Questa nuova organizzazione della società distrugge il popolo e disarticola le società minori o corpi intermedi che la formano, ma di cui non può tollerare l’esistenza, perché ammetterla significherebbe ammettere la naturale socialità degli uomini e rifiutare il contratto sociale. Tra la volontà generale e l’individuo non si può frapporre assolutamente nulla né nessuno: questo aveva teorizzato Jean-Jacques Rousseau (71), e questo stabilirono le leggi D’Allarde (72) e Le Chapelier (73), e lo stesso Siéyès aveva categoricamente affermato che i titolari di interessi corporativi sono “i veri nemici dell’interesse comune” (74).
La nuova concezione presuppone la confusione tra società e Stato; e proprio questa confusione costituisce il totalitarismo (75). Che essa esista nelle cosiddette democrazie popolari è così evidente che non mi soffermerò sul punto (76). Inoltre la democrazia popolare non è considerata autentica democrazia neppure dai teorici e dai sostenitori della democrazia moderna, che preferiscono definirla semplicemente un regime totalitario (77).
Per contro, secondo i suoi sostenitori, nella democrazia moderna, dalle sue origini fino alle sue diverse forme costituzional-pluraliste, il totalitarismo non si dà grazie al pluralismo dei partiti, alle regole costituzionali sull’elezione dei governanti e alle modalità costituzionali dell’esercizio dell’autorità, come afferma Raymond Aron (78), un suo moderno difensore. A ciò potrebbero aggiungersi, come osserva Carl J. Friedrich (79), la propensione al compromesso (80), la tolleranza e il rispetto delle opinioni diverse (81).
Questa impostazione è, però, falsa, anzitutto perché l’autolimitazione dello Stato di diritto non è affatto garanzia di libertà, dal momento che non esistono norme al di sopra del potere dello Stato (82). Il rispetto delle norme costituzionali o dei diritti dell’uomo non ha significato quando essi possono essere cambiati dal volontarismo su cui si fonda la posizione delle norme (83). L’esempio dell’aborto è molto significativo e parla da solo. La libertà dipende da un semplice volontarismo che non è altro che un totalitarismo in atto o in potenza.
In secondo luogo, i partiti politici sono aggregazioni artificiali, come riconosce lo stesso Hans Kelsen, al di fuori dei quali “l’individuo isolato non ha, politicamente, alcuna esistenza reale […]“ (84). Come ho osservato in altra sede, “le libertà politiche della democrazia moderna, poiché non si fondano sulla realtà della vita di un popolo, alla cui articolazione essa guarda con diffidenza, non costituiscono una garanzia sufficiente per le libertà civili, e il pluralismo ideologico soppianta le libertà concrete, che sono asservite al potere dello Stato e, quindi, in concreto, dei gruppi che lo detengono” (85). Questi ultimi cercano di imporre le proprie opinioni con l’aiuto del potere (86) e di cambiare la società (87): per questo diventa essenziale dimostrare l’antinomia esistente tra ideologia e partecipazione.
In terzo luogo, si afferma che questo pluralismo presuppone la distinzione tra sfera politica e sfera economica, e la separazione di questi due ambiti, ma nella democrazia moderna, nei regimi costituzionali pluralisti possiamo notare una fortissima tendenza all’assorbimento del potere economico nel potere politico, per cui la confusione tra società e Stato si accentua fino a divenire una sovrapposizione (88).
Se, come fa notare Raymond Aron, l’essenza del totalitarismo è “la volontà di trasformare radicalmente l’ordine esistente in funzione di un’ideologia” (89), l’origine totalitaria della democrazia moderna risulta chiara. Infatti, il problema essenziale non è di sapere di quale ideologia si tratti, anche se questo può essere importante, quanto di sapere che questo processo è frutto dell’ideologia (90), qualunque essa sia.
Lo mette in evidenza lo stesso Kelsen quando, commentando Jean-Jacques Rousseau, avverte che bisogna “riconoscere […] che l’individuo che deve stare sottomesso all’ordine dello Stato non è libero […]“ (91); infatti, “il cittadino è libero soltanto attraverso la volontà generale e che in conseguenza, obbligandolo ad obbedirvi, lo si costringe ad esser libero” (92).
Come nota ancora Hans Kelsen, “l’ideale democratico, se è ritenuto soddisfatto nella misura in cui gli individui sottomessi all’ordine dello Stato partecipano alla creazione di questo ordine stesso, sarà indipendente dalla misura nella quale quest’ordine dello Stato abbraccia gli individui che lo creano, vale a dire indipendente dal grado fino al quale riduce la loro “libertà”. Anche se l’estensione del potere dello Stato sull’individuo fosse illimitata, nel caso, quindi, che la “libertà” individuale fosse completamente annientata e l’ideale liberale negato, la democrazia sarebbe ancora possibile, purché tale potere statale fosse creato dagli individui ad esso sottomessi” (93).
Qual è, allora, la distanza che separa la democrazia moderna, liberale, costituzionale, pluralista, dalla democrazia popolare? Qual è la distanza tra la libertà della democrazia moderna e il totalitarismo più assoluto? È quella che separa la Costituente e l’assemblea legislativa dalla Convenzione; quella che separa l’utopia dalla realtà del terrore (94). Infatti i giacobini furono l’espressione più pura e perfetta delle teorie di Jean-Jacques Rousseau (95); e la storia ha mostrato in diverse occasioni che questa distanza è molto piccola (96).
Tuttavia è un fatto che la democrazia moderna permette maggiori libertà delle cosiddette democrazie popolari; ma questo non avviene grazie alla democrazia, bensì nonostante essa. L’eredità del cristianesimo è tuttora eccezionalmente grande e nella coscienza di molti uomini sopravvivono ancora, in tutto o in parte, i princìpi della religione cattolica; perciò la differenza sussiste grazie a essi, e non al compromesso o alla tolleranza (97). E quando questi princìpi scomparissero completamente, tutti dispotismi finora esistiti sarebbero poca cosa, come ammonì Juan Donoso Cortés nel celebre paragone dei due termometri (98). È dunque chiaro che si deve parlare di totalitarismo democratico.
Libertà e uguaglianza
Questa forma di Stato e di comunità politica è coerente con un nuovo tipo di società democratica e ugualitaria, in cui si tenta di far andare d’accordo le nuove idee di libertà e di uguaglianza. Questa è la società che Alexis de Tocqueville intravide, per la prima volta, in America (99): una società caratterizzata – come osserva Raymond Aron – dalla tendenza all’uguaglianza economica e dalla uniformità dello stile di vita (100).
Ma questa società poteva evolvere verso la democrazia liberale – con uguaglianza politica, un sistema rappresentativo e il rispetto delle libertà personali e intellettuali -, ma poteva anche portare alla schiavitù in nome dell’uguaglianza, come fece notare lo stesso de Tocqueville parlando dell’oppressione che minacciava paesi democratici e che non poteva essere definita con i vecchi termini di dispotismo o di tirannia per il suo carattere di novità (101).
E Karl Marx ne trasse la giusta conseguenza affermando che l’uguaglianza non poteva essere solo politica, ma doveva essere anche economica, come è nel sogno di tutti i socialismi e nella realtà per tutti – se si fa eccezione per la nuova classe (102) e per la nomenklatura (103) – nella democrazia popolare.
La civiltà cristiana, questa civiltà che il mondo moderno ha rifiutato, si caratterizzava per una pluralità di ordini, al cui interno ciascuno realizzava il proprio fine specifico (104). La libertà non era né astrazione né chimera, ma una realtà vissuta quotidianamente, che si trasformava in effettive facoltà di agire: libertà concrete che, come ha sottolineato Francisco Elías de Tejada, si incarnavano in istituzioni e in corpi intermedi (105).
Contro questa pluralità di ordini venne elevata la concezione moderna e astratta della libertà in ossequio a una uguaglianza non meno astratta, sulla base di una concezione altrettanto astratta dell’uomo, a-storico e naturalmente buono, per la cui realizzazione erano necessari il contratto sociale e la democrazia moderna.
In questo senso bisogna parlare di una utopia democratica della libertà e dell’uguaglianza; un’utopia che non ha reso gli uomini più liberi – asservendoli al potere sempre più onnicomprensivo dello Stato – e che, se li ha resi più uguali, lo ha fatto al prezzo della distruzione delle disuguaglianze accidentali di natura, sostituendole con altre insopportabili perché antinaturali (106) e mirando nello stesso tempo a distruggere tanto il fondamento dell’uguaglianza sostanziale degli uomini, che si trova in natura (107), che il suo fondamento soprannaturale, che si trova in Dio, in quanto chiamati tutti alla comune fede cattolica (108).
L’ateismo
Ma questo rifiuto dell’ordine naturale e questa indiscutibile “verità” della sovranità popolare, che viene elevata al rango di verità dogmatica, sono anche il frutto dell’evoluzione di una società influenzata dalle correnti filosofiche della fine del secolo XVII e del secolo XVIII, cioè da quel filosofismo bollato da padre Fernando de Zevallos come delitto di Stato, che provocò, una lenta scristianizzazione della società e la dissoluzione della fede religiosa, sostituita dalla fede nell’uomo, nel mito del progresso (109) e della immediata felicità in terra (110) al posto della religione rivelata rifiutata (111).
Questa penosa realtà costituisce la base principale della democrazia moderna, poiché essa può reggersi soltanto prima sul deismo del razionalismo (112) e poi sull’ateismo che ne consegue (113). In questo senso si può parlare dell’ateismo come di un supporto ideologico della democrazia. Ma se si crede in Dio e si riconosce l’esistenza di un ordine da Lui stabilito, non è possibile ammettere questa democrazia.
I Papi lo hanno ribadito continuamente e vedremo più avanti che la dottrina sociale della Chiesa non ammette la democrazia moderna, in quanto essa nega o prescinde dall’ordine soprannaturale e nega o rifiuta l’ordine naturale. Lo affermano chiaramente Pio IX, che nell’enciclica Quanta cura condanna quanti osano proclamare “la volontà del popolo manifesta, come dicono, con la pubblica opinione, o in altro modo, costituire la legge suprema; prosciolta da ogni diritto umano o divino” (114), e Pio XII, quando avverte che l’ordine sociale deve essere coerente con l’ordine immutabile che Dio ha stabilito per mezzo del diritto naturale e della rivelazione (115).
La nuova religione
Il logico sviluppo dei presupposti ideologici della democrazia moderna conduce alla sostituzione della religione con essa e alla espulsione di Dio dalla sua ideologia per incompatibilità. La fede in un Dio personale, creatore e provvidente, non ha più spazio nella democrazia moderna.
Questo, d’altra parte, si deduce dall’affermazione di Hans Kelsen che osserva, senza ombra di perplessità, che “la grande questione è […] se esista una conoscenza della verità assoluta, una comprensione dei valori assoluti”; oppure “l’opinione che alla conoscenza umana siano accessibili soltanto verità relative, valori, relativi” (116). È il relativismo che Eugenio Vegas Latapie ritiene essenziale alla democrazia moderna (117) e che finisce per imporsi come una verità indiscutibile, al punto che la democrazia moderna si presenta come una vera e propria religione, anche se atea; infatti, come osserva Louis Salleron, “la democrazia è per essenza religiosa, poiché ogni religione si fonda sul dogma e sul rito”: “1) il dogma è che il potere deriva dal popolo; 2) il rito consiste nella designazione di coloro che esercitano il potere attraverso l’elezione” (118).
Ed è un dogma che bisogna credere perché il suo rifiuto comporta l’anatema e perfino la persecuzione degli “eretici politici”, per usare l’espressione di Jacques Maritain (119).
In questo modo si instaurerà una nuova era di giustizia e di benessere, che sarà la conseguenza normale e immancabile dello sviluppo democratico: è l’eresia del Plus Grand Sillon (120), condannata da san Pio X (121), che subordinando il cristianesimo alle esigenze della democrazia moderna, di fatto lo abbandonava, proclamando l’autonomia dell’uomo rispetto all’ordine naturale voluto da Dio; è l’eresia della religione democratica, secondo cui non si tratta più di convertire gli uomini al cattolicesimo, ma di convertire il cattolicesimo alle idee moderne (122). In questo senso si deve parlare della democrazia come di una religione (123).
Incompatibilità con la dottrina cattolica
Ma se la differenza tra le due democrazie – quella classica e quella moderna – è cosi chiara, come è possibile la generale accettazione della democrazia moderna? L’accettazione quasi generale si deve alla confusione che nasce dall’uso della medesima parola per designare realtà diverse. Si tratta di una confusione che in pratica nessuno intende dissipare. E al riparo della prima si vogliono condurre cattolici all’accettazione della seconda.
Lo ha messo in rilievo con chiarezza Andrés Gambra, che ha osservato come questa fosse la caratteristica della nascita e dello sviluppo della democrazia cristiana in Francia (124). D’altronde, si tratta di una confusione che non trova appigli nella dottrina pontificia, poiché il senso che Leone XIII dà alla parola “democrazia” nell’enciclica Graves de communi non era politico e indicava “una benefica azione cristiana a favore del popolo” (125).
E quando, nel radiomessaggio natalizio Benignitas et humanitas, Pio XII parla di una “sana democrazia”, fa riferimento alla democrazia come partecipazione: infatti, deve essere “fondata sugli immutabili principi della legge naturale e delle verità rivelate” (126). Per evitare ogni confusione Charles Maurras suggeriva di utilizzare il termine soltanto nel suo significato peggiorativo.
Da quanto abbiamo visto appare chiaro che la democrazia moderna deve essere respinta perché incompatibile con la dottrina cattolica. Non si respinge la democrazia intesa come forma di governo, rispetto alla quale ciascuno può avere le proprie preferenze; e quindi non si rifiutano né la partecipazione politica dei cittadini, né il voto, e neppure, almeno radicalmente, i partiti politici.
Tutto questo può essere compatibile con la concezione cattolica della vita politica e sociale, ma, naturalmente, a patto di uscire dallo schema della democrazia moderna; a patto di eliminare le ideologie; in poche parole, a patto di edificare la vita politico-sociale “sulle sue naturali e divine fondamenta”, come insegnava san Pio X (127).
Una obiezione: la democrazia organica
Mi si può obiettare che quanto ho affermato e incompleto e frammentario soprattutto perché, in pratica, ho fatto riferimento solo a due concezioni della democrazia. Penso sia vero soltanto in parte, perché ritengo che le altre accezioni del termine “democrazia” possano essere comprese nelle due concezioni fondamentali che ho indicate: la concezione classica e quella moderna.
Si potrebbe sostenere l’esistenza anche di una democrazia organica; prescindendo dalla erroneità di questa espressione nella nostra epoca – ampiamente dimostrata da Charles Maurras (128) e da Eugenio Vegas Latapie (129), che hanno respinto l’accoppiamento dei due termini per la contraddittorietà dei concetti che esprimono -, è certo, però, che quanto si vuole designare con la definizione di democrazia organica – non prendendo in esame le realizzazioni storiche più o meno indovinate di questa formula – è solamente la partecipazione politica cui fa riferimento san Tommaso e che Pio XII definiva “sana democrazia”, compatibile, quindi, con ogni forma di governo. Per esempio, nel quadro della cultura e della storia spagnole essa si è realizzata sotto forma di monarchia cattolica, sociale e rappresentativa, che ha avuto in Juan Vázquez de Mella y Fanjul uno dei suoi migliori teorici, come ha messo in luce Rafael Gambra Ciudad (130).
V. Il falso dilemma
Secondo gli ideologi della democrazia moderna l’alternativa si ridurrebbe alla scelta tra democrazia e totalitarismo (131). Ho già dimostrato come ciò sia falso, perché la democrazia può essere totalitaria. Ma è falso anche perché esiste un’altra ipotesi, costituita dall’ordine politico-sociale naturale (132), dai corpi intermedi e dalle libertà concrete in tutti gli ambiti della vita politica e sociale.
È la via indicata da san Tommaso con il suo regime misto. Perciò è falsa anche l’alternativa tra democrazia e dittatura, in cui quest’ultima viene d’altronde considerata una semplice tappa verso il ritorno alla “normalità” democratica. Siamo di fronte a una concezione errata della realtà, mentre solo con una corretta impostazione del problema sarà possibile edificare quella Città Cattolica, in cui gli uomini possano più facilmente giungere a Dio, aiutati in questo dalle istituzioni sociali e politiche, poiché, come fa presente Pio XII, “dalla forma data alla società, consona o no alle leggi divine, dipende e si insinua anche il bene o il male nelle anime” (133).
Dunque, è certamente possibile parlare della “crisi della democrazia”, ma l’affermazione, da sola, sarebbe superficiale e non toccherebbe l’essenza del problema. In realtà non si tratta propriamente di una crisi (134), ma di un cancro sociale. La democrazia moderna è un tumore che si è diffuso nella società e produce nuove distruzioni a mano a mano che si sviluppa. Perciò, l’unico rimedio è quello di cambiare strada.
L’unica soluzione sta nel ritornare al crocevia in cui si è sbagliata direzione, all’itinerario che comincia con Guglielmo di Ockam, come ha osservato Michel Villey, e come non cessa di ricordare Juan Vallet de Goytisolo. Si potrebbe replicare che la democrazia moderna regna nei paesi cosiddetti progrediti e che in essi non succede niente. Dipende da ciò che si intende con l’espressione “non succede niente”.
E non vi e peggior sordo di chi non vuol sentire, né peggior cieco di chi non vuol vedere; infatti la civiltà non è altro che l’elevazione della società verso Dio: tutto il resto e inganno, dannoso per noi e per gli altri.
Estanislao Cantero Núñez