di Andrea Galli
Se si vuole fare una diagnosi della salute dell’Italia dal punto di vista della demografia, e di ciò che le sta dietro, non si può che partire da un anno: il 1975. Lo spiega lo statistico Roberto Volpi, tra i maggiori studiosi dei mutamenti della popolazione nel nostro Paese, nel suo ultimo libro pubblicato da Vita e Pensiero La nostra società ha ancora bisogno della famiglia? (pp. 178, euro 15).
Professore, perché il 1975 sarebbe cruciale?
«Perché è l’inizio del crollo. Da quell’anno sia i matrimoni che le nascite cominciano a perdere molto terreno. Queste ultime in 5 anni arrivano a perdere il 25%, una caduta che poi rallenta ma non si arresta per altri vent’anni. Fino agli anni Novanta, quando il tasso di fecondità (cioè il numero medio di figli per donna) tocca quota 1,2: uno dei più bassi del mondo in quel momento, meno della metà di quello che era alla fine degli anni Sessanta. Il che significa anche una mutazione per così dire antropologica: un conto è avere famiglie di due o tre figli, un conto è averne uno. L’inizio di quel processo è evidente: più che il divorzio in sé, è stato proprio il referendum a segnare una svolta radicale».
Come mai? Non doveva bastare la legalizzazione del divorzio?
«Perché il referendum è stato caricato di un valore enorme, equivalente a quello che aveva la famiglia tradizionale. Fin allora in Italia sia i cattolici che i laici avevano aderito a un tipo di matrimonio fortemente ispirato dalla Chiesa: sino alla fine degli anni ’60 su 100 matrimoni 98 erano religiosi. Indissolubilità, fedeltà e obbedienza dei bambini all’autorità familiare, segnatamente del padre, ne erano i cardini. Ci si sposava giovani, le donne a una media di 24 anni. E si sposavano tutti. La battaglia sul divorzio mirava al cuore di quel modello: indissolubilità e fedeltà. Un vincolo di fedeltà, però, che gravava più sulla donna che sull’uomo. Questo è da sottolineare perché è l’elemento che cede e che fa crollare l’edificio. L’infedeltà del maschio era più tollerata, socialmente e moralmente, di quella della moglie, accompagnata da una sua maggiore autorità (almeno pubblica, di fronte alla società: perché sappiamo che all’interno della famiglia molto spesso non era così). Così la rivendicazione di autonomia femminile si manifesterà proprio nel divorzio. Si pensava che sarebbe stata un’arma maschile, ma non è stato così: all’inizio, due su tre domande di separazione legale vennero avviate da donne. Le donne hanno visto nel divorzio la possibilità di spostare un rapporto di forza sull’uomo».
Al referendum i «no» al divorzio furono molto numerosi al Sud. Oggi com’è la situazione: permane l’eccezione o anche il Meridione è stato omologato?
«Direi che è stato omologato. I dati dimostrano maggior divorzialità al Nord, ma al Sud è l’elemento di difficoltà economica a frenare le separazioni. Negli Stati Uniti l’indice di divorzialità è usato quasi come un indicatore economico: quando i divorzi sono alti l’economia va bene, quando sono bassi l’economia è depressa. Perché il divorzio ha costi alti e comporta in genere un abbassamento del tenore di vita rispetto alla famiglia originaria. Al Sud si divorzia meno per questo. Lo possiamo dire osservando pure altri fattori, in primis la natalità: oggi le regioni dove la fecondità è più bassa sono quelle del Sud, il Molise e la Basilicata, e va segnalato il caso della Sardegna, leader nella de-fecondità e de-nuzialità, una regione che demograficamente sta sprofondando. Perfino la Campania, che ha sempre avuto tassi di fecondità molto alti, staziona ormai a metà classifica. Al Sud permane peraltro una maggiore nuzialità che al Nord – ricordiamo però che siamo sempre a livelli bassissimi, a un tasso di nuzialità di 3 matrimoni ogni mille abitanti: il 50% rispetto alla media europea – ma in sostanza per i motivi di cui sopra. Il modello di famiglia tradizionale non ha retto nemmeno lì».
Per quanto riguarda la famiglia, quali nuovi fenomeni si fanno strada?
«Le coppie di fatto e le coppie di fatto non conviventi. Le seconde sono più difficili da rilevare dal punto di vista statistico, per ovvie ragioni: lasciano meno tracce, non abitando sotto lo stesso tetto. Ma, anche qui, si “percepiscono” da altri fattori. Per esempio vediamo che negli ultimi 20 anni sono cresciuti i cosiddetti veri celibi, cioè quelli che hanno più di 25 anni e non sono sposati, che oggi sono più di 5 milioni. È da escludere una scelta in massa per la castità: si tratta di persone che hanno rapporti affettivi, anche duraturi, ma che non entrano in una convivenza».
Qual è l’impatto di questi rapporti sulla società?
«Il modello di famiglia tradizionale è fondato su una forte responsabilizzazione reciproca. Il nuovo modello è fondato invece sul sentimento: l’amore, il sentimento basta. Sembra una visione più avanzata, moderna, in realtà è un’idea più fragile e con ricadute sociali negative. Lo dico da un punto di vista nettamente laico: una società che si fonda su legami familiari ad alta responsabilità e a forte istituzionalizzazione è indiscutibilmente una società più solida, interrelata e solidale di una che si fonda su legami a più basso livello di responsabilità e a nullo livello di istituzionalizzazione. È un elemento che l’opinione laica non coglie. È come non fare figli: una coppia è liberissima di non volerne, ma se questo atteggiamento diventasse prevalente la società morirebbe… Oltre a ciò, le famiglie che nascono tardivamente non hanno la spinta economico-produttiva che avevano una volta, non sono più un fattore dirompente da questo punto di vista: oggi si sposa quando si è già costruito virtualmente tutto, quando ci si è sistemati».
E i matrimoni religiosi come stanno?
«Sono 110mila all’anno, mentre erano 420mila nel 1964: un calo del 75%. E stanno diminuendo di sette, otto o anche diecimila all’anno. Se la tendenza dovesse perdurare, i matrimoni in chiesa diventeranno un elemento residuale. Sulla famiglia, la Chiesa ha perso la sua battaglia culturale nei confronti della società laica. Non ha altra scelta che ricominciarne un’altra se vuole rilanciare il suo modello».