ROMA, Pubblichiamo di seguito per la rubrica di Bioetica l’intervento della dottoressa Claudia Navarini, docente presso la Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum.
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Una situazione analoga a quella europea, nordamericana (particolarmente in Canada), australiana e persino imminente nella sconfinata Cina, a causa della martellante politica del figlio unico degli anni 80 e 90 (cfr. C. Navarini, Voto dei cattolici e “principi non negoziabili”, ZENIT, 3 aprile 2006; Idem, La strada senza uscita dei Patti Civili di Solidarietà, ZENIT, 19 febbraio 2006).
Fra le cause connesse a tale situazione, si colloca senza dubbio la condizione della donna: tardivo accesso al matrimonio e alla maternità, ridotta fertilità, ansie economiche e professionali; in particolare, nei paesi sviluppati si fatica ad armonizzare lavoro femminile e maternità. E quando tale armonia non si attua, molte donne scelgono il lavoro – sovente per necessità – sacrificando così la famiglia e la procreazione (cfr. E. Roccella, I femminismi di fronte al gender, “I Quaderni di Scienza e Vita”, 2, marzo 2007, pp. 73-78).
Tale problema viene liquidato da Kwan Chi Hung, del Nomura Institute ed eminente sinologo, con l’osservazione che il mondo del lavoro (fuori casa) semplicemente non si addice all’universo femminile: le donne “[h]anno le loro particolari abilità e queste dovrebbero essere pienamente esercitate, ad esempio nella composizione floreale, nel cucito o nella cucina. Non è una questione di buono o cattivo, ma dobbiamo accettare la realtà che uomini e donne sono geneticamente differenti” (Cfr. Ambrose Evans-Pritchard, Japan leads world in demographic decline “The Daily Telegraph” , 01/06/2007).
Sarebbe dunque una componente genetica, per Chi Hung, a rendere inadatte le donne al lavoro. Una simile “soluzione” al conflitto maternità/lavoro non è solo sbrigativa, ma profondamente ingiusta.
È certamente vero, infatti, che la responsabilità della donna all’interno della famiglia, il fatto di portare avanti le gravidanze, di partorire e accogliere per prima i bambini, la rende meno incline e per certi versi meno adatta – a fronte dell’impegno familiare – a ricoprire ruoli professionali che potrebbero risultare incompatibili con “la casa”. Di tale condizione la donna è perfettamente consapevole e, laddove non è aggredita da pressioni ideologiche spersonalizzanti o da colpevoli sensi di frustrazione indotta, sa compiere le proprie scelte in funzione del bene maggiore.
Tuttavia, è parimenti certo che l’apporto che la donna può fornire al mondo del lavoro e della cultura è prezioso, anzi insostituibile. È dunque perfettamente normale e logico che una donna istruita scopra in sé un’attitudine – una vocazione – che si realizza brillantemente nella sua attività professionale (cfr. C. Navarini, Maternità e lavoro: l’integrazione possibile, ZENIT, 12 luglio 2005).
Anche nel lavoro “non scelto”, quello che semplicemente si fa per mantenersi economicamente, e che forse si lascerebbe volentieri, la donna dimostra la sua fedeltà, la sua responsabilità, le sue virtù. Casomai sarebbe auspicabile che questo tipo di lavoro “sofferto” divenisse più agevole o più agevolmente eliminabile nel momento in cui si presenta come un peso per la realizzazione della donna nella famiglia, ovvero diventa un ostacolo per la salute della famiglia fondata sul matrimonio, in quanto piccola società densa di compiti, di vita e di persone.
Sulla visione della donna, in altre parole, si gioca in buona parte la visione stessa della famiglia, proprio per il fatto che alla donna, che è intimamente madre in senso fisico o spirituale, è legata la sorte e la stabilità delle famiglie, come pure di tanti matrimoni.
Escludere a priori la donna – in quanto donna – dal mondo del lavoro è dunque un’operazione iniqua e astratta, ma riconoscere alla donna il suo ruolo cruciale all’interno delle pareti domestiche, dove comunque si svolge gran parte del suo lavoro, permettendole eventualmente di restare a casa senza sensi di colpa o atti eroici è invece un atteggiamento lungimirante e civile, che mostra di tutelare – insieme alle madri e ai padri – l’istituto della famiglia nel suo complesso e dunque l’equilibrio sociale.
Questa fondamentale istanza, insieme ad altre, è pervasivamente presente nel dibattito italiano su donna, famiglia e vita, che da alcuni anni interessa l’opinione pubblica e le associazioni a carattere socio-bioetico. Il Family Day in piazza San Giovanni a Roma, il 12 maggio u.s., si inseriva in effetti in tale dinamica e, non a caso, aveva come portavoce una donna, la giornalista e scrittrice Eugenia Roccella, che della “questione femminile” ha fatto il centro delle sue riflessioni, e come slogan “Più famiglia, più vita”, ad indicare la stretta relazione fra le due realtà.
Nessuno mette in dubbio che il Family Day sia stato un enorme successo. Il volantino diffuso dal Forum delle famiglie all’indomani della manifestazione di piazza, con l’esultante frase “Un milione di grazie” è solo un esempio della portata dell’evento. Se ne sono accorti davvero tutti: i politici, le agenzie educative e culturali, i media, perfino la stampa straniera che, pur fra varie imprecisioni, ha captato che qualche cosa di grande a Roma era avvenuto.
Giustamente si è affermato che non si trattava tanto di una “manifestazione contro”, quanto dell’affermazione chiara e forte del valore etico-sociale della famiglia fondata sul matrimonio, anzi, della sua insostituibilità. C’era, in piazza San Giovanni, l’Italia reale, quella che si vede poco, quella che solitamente tace e lavora, che davvero non è semplice convogliare in una simile riunione. Ed era un’Italia lieta, pacata e tuttavia risolutamente consapevole dei propri diritti violati o ignorati (cfr. M. Corradi, Il paese “invisibile” s’è fatto folla immensa, “Avvenire”, 13 maggio 2007, p. 1).
Ma era anche un’Italia sorpresa, che si guardava intorno e si meravigliava di essere così vasta, e all’improvviso capiva che a comprendere e/o ad affrontare i problemi quotidiani delle famiglie sono in tanti. Infine, era un’Italia decisamente pro-family, e questo, in un certo senso, significa anche che era un’Italia implicitamente pro-life. È evidente che dove si rafforza la famiglia fondata sul matrimonio si difende anche meglio la vita umana, e si aumentano le nascite, come da tempo si auspica nel nostro paese.
Dunque, il messaggio “bioetico” del 12 maggio poteva lecitamente essere il seguente: sostenere la famiglia per sostenere la vita. E le donne che delle nuove vite si fanno specialmente – e volentieri – carico.
Un simile messaggio mostra con evidenza come l’avvio di politiche familiari adeguate in Italia sia drammaticamente urgente, in un tempo in cui il nostro paese non riesce, pur comprendendone la gravità, ad uscire dal tunnel della crescita-zero. Per ora, l’unico effetto positivo della diffusione dei dati italiani sul calo demografico è un lento ma sensibile cambio di mentalità sul valore della famiglia numerosa.
Fino a poco tempo fa, imperava il pregiudizio ideologico anti-familista, anche inconsapevolmente, e avere due figli era avvertito a livello popolare come un gigantesco contributo alla fertilità nazionale, una specie di limite, oltre il quale si scadeva nel fondamentalismo religioso, nel cattivo gusto o nella pazzia pura.
Ora qualcosa sta cambiando. La famiglia numerosa (tre figli e più) è generalmente ammirata dai giovani, e in misura ancora ridotta ma già significativa scatena negli altri (i non sposati, i senza figli, le famiglie piccole) reazioni giustificatorie legate al reddito e alle tasse, al mondo difficile, alla salute, alla sfortuna, all’età.
Non è poco. Occorre tuttavia un supporto non solo teorico delle istituzioni. Nella ricerca costante di soluzioni alla stasi economica, alla concorrenza estera, al calo demografico, al vuoto previdenziale, alla crisi dei modelli e dei valori, sapremo investire, come nazione, nel campo – quello della famiglia – che naturalmente e instancabilmente costituisce la compattezza e la base dell’intero tessuto sociale?
(A.C. Valdera)