da Il Timone n.180 Gennaio 2019
La Dottrina sociale insegna che famiglia, lavoro e radicamento nel territorio sono gli ingredienti dell’imprenditore che guarda oltre al suo portafoglio. Altrimenti va in crisi l’economia e la società
di Stefano Fontana
Nel corso del tempo si è passati da una concezione dell’imprenditore come titolare di una attività che in qualche modo doveva essere “limitata” ed eticamente o politicamente controllata ad un’altra concezione, in cui l’attività dell’imprenditore è considerata come originariamente etica, esprimente cioè in se stessa dei valori. Anche la Dottrina sociale cattolica è stata interessata, e a sua volta ha favorito, questa transizione da una visione di separazione tra efficienza economica e solidarietà ad una visione di complementarietà.
Se l’attività economica ed imprenditoriale è vista solo come un fatto produttivo, allora essa va limitata e controllata dall’esterno e la solidarietà le deve essere in qualche modo “imposta”, generalmente dalla politica. Se, invece, l’attività imprenditoriale è vista come originariamente (anche se non automaticamente) etica, la solidarietà le appartiene fin dall’inizio. Oggi apparentemente ci sarebbero tutti i sintomi di questo passaggio: il lavoro diventa sempre più relazionale, il mercato diventa sempre di più un fatto culturale, la produzione riguarda sempre di più beni immateriali, l’organizzazione dell’impresa tende a valorizzare sempre più la responsabilità moderne imprese piatte e flessibili sono spesso contro l’uomo, contro la famiglia e anche contro il lavoro.
Non è finita quindi la necessità di “mettere le briglie” alle imprese, solo che da briglie esterne che enfatizzano il momento politico come attore (unico) di solidarietà, si dovrebbe passare a delle briglie anche interne alle imprese e al mercato.
Impresa e lavoro in Giovanni Paolo II e Benedetto XVI
Sono di grande interesse gli sviluppi che il tema ha avuto con Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Per il primo, la solidarietà non contraddice l’efficienza produttiva, anzi, l’efficienza è un modo di essere solidali e la solidarietà, ossia la valorizzazione della persona umana, rende anche più produttivi, dato che riguarda l’uomo, che è la vera “risorsa” di un’impresa: «L’integrale sviluppo della persona umana nel lavoro non contraddice, ma piuttosto favorisce la maggiore produttività» (Centesimus annus, n. 43). Per questo motivo Giovanni Paolo II non solo può dire che il profitto è indice del buon funzionamento dell’impresa, ma anche che il profitto stesso richiede che l’imprenditore sia consapevole per chi o per che cosa il profitto serve. Scopo dell’impresa non è solo di produrre profitto, e tale consapevolezza etica è fondamentale anche per produrre il giusto profitto, dato che l’etica non è irrazionale e quindi non contrasta con la corretta logica economica.
Per questo Giovanni Paolo II può perfino elencare i “valori” dell’imprenditorialità, “la diligenza, la laboriosità, la prudenza nell’assumere i ragionevoli rischi, l’affidabilità e la fedeltà nei rapporti interpersonali, la fortezza nell’esecuzione di decisioni difficili e dolorose, ma necessarie per il lavoro comune nell’azienda e per far fronte agli eventuali rovesci di fortuna” (Centesimus annus 32).
Si tratta di virtù senza le quali l’imprenditore non riesce nemmeno ad essere imprenditore, perché per es¬sere un bravo imprenditore bisogna essere un bravo uomo. Abiti virtuosi, in altre parole, sono reclamati dalla stessa razionalità imprenditoriale ed economica. Consiste in questo la capacità della Dottrina sociale della Chiesa di parlare a tutti gli imprenditori, non solo ai cattolici. Possiamo fare due esempi per spiegare meglio il punto.
Parlare dell’imprenditore cominciando dalle sue disfunzioni e dalla necessità di limitarlo è come parlare del matrimonio cominciando dal divorzio. Parlare degli aspetti economici del management senza quelli etici è come parlare del matrimonio cominciando dagli elementi biologici del maschio e della femmina. L’etica è “nell’economia” e “nel management”; non viene “dopo”.
Non conformatevi allo spirito di questo tempo
Bisogna però stare molto attenti a non farsi prendere dalle suggestioni. I discorsi fin qui fatti, in fondo sono proposti più o meno da tutte le grandi imprese, ma la Dottrina sociale della Chiesa deve stare attenta a non rincorrere facili assonanze o concordanze col mondo. Tutte le imprese sono pronte a dire che non stanno lì solo per il profitto, che il capitale sociale interno e la capacità di lavorare in team è la loro risorsa principale, che il lavoro lo intendono in senso relazionale e non meramente produttivo.
Si tratta di assonanze con la Dottrina sociale secondo la quale l’impresa è una “comunità di persone”, ma niente di più. Tutte le imprese sostengono di tenere molto alla loro funzione sociale, di sviluppare i legami col territorio, di assumere delle responsabilità nel campo della solidarietà sociale, di essere interessate a scambi di professionalità con il non-profit o con iniziative di sviluppo nel Terzo mondo e compilano con grande perizia i loro bilanci sociali ed etici. Dai quali, però, non si apprende (quasi) mai che l’azienda abbia investito sulla famiglia, abbia favorito la maternità delle dipendenti, abbia finanziato un centro di aiuto alla vita. I valori condivisi col territorio sono (quasi) sempre altri, molto in linea con le tendenze culturali di oggi, come per esempio l’ecologia, per di più paganamente intesa, o una libertà solo individualistica.
Nella Caritas in veritate, Benedetto XVI apporta due importanti novità. La prima è che il concetto di imprenditore e di impresa è polivalente e, in via analogica, deve essere attribuito non solo all’impresa privata nel senso tradizionale, ma anche all’impresa pubblica o alla galassia delle imprese non-profit. La seconda è che, proprio per questo, si deve creare uno scambio di professionalità imprenditoriale tra questi tre ambiti. Tutti vedono, però, che le cose non vanno così. Per questo, quando si parla di etica dell’impresa, bisogna specificare cosa si intende per etica. Infatti La Caritas in veritate avverte che oggi si concede l’appellativo di etico a molte cose che invece etiche non sono, ma sono ideologiche.
Quale etica?
A fare la differenza è quindi il tipo di etica e di logica che sta nella testa e nel cuore degli imprenditori e dei loro collaboratori nell’impresa. Il fattore umano è sempre decisivo. E questi principi li troviamo non solo negli insegnamenti di tutti i pontefici, ma fin dall’inizio nella Dottrina sociale della Chiesa. Essi sono: la centralità della famiglia come comunità naturale, l’importanza del territorio come insieme di raggruppamenti volontari a sfondo naturale, la priorità del lavoro sul capitale, la democrazia economica come valorizzazione delle piccole e medie realtà imprenditoriali contro i gigantismi oligopolistici, la prevalenza dell’economia reale rispetto a quella finanziaria, la sovranità monetaria, la revisione del criterio di emissione di moneta a debito.
La famiglia c’entra con l’impresa in molti modi: incentivare le imprese familiari e che nascono dalla cooperazione tra famiglie, regolamentare il rapporto tra lavoro e impegni domestici soprattutto delle donne, non trasferire la famiglia in azienda, magari con forme di welfare aziendale apparentemente benefiche, ma il contrario, sostenere la maternità e aiutare l’infanzia sia dentro l’azienda che nel territorio. Il rapporto col territorio significa raccordarsi e valorizzare i legami naturali, storici, culturali e religiosi con la comunità locale, favorire l’istruzione, le buone pratiche di etica civile e il capitale sociale comunitario da cui arriveranno i futuri lavoratori dell’azienda e pensarci bene prima di delocalizzare.
La priorità del lavoro sul capitale può voler dire una politica delle assunzioni che, compatibilmente con le esigenze di bilancio, miri alla stabilità familiare del lavoratore e una politica aziendale sempre commisurata all’aumento dei posti di lavoro e alla loro sicurezza come pure alla formazione e valorizzazione del lavoratore e della sua responsabilità comunitaria in azienda. La priorità del piccolo sul grande, secondo un ordinato principio di sussidiarietà, è indispensabile per favorire sia la dimensione familiare che i legami col territorio, per ridurre l’anonimato aziendale ai soli casi in cui è necessario, per articolare il sistema produttivo e renderlo meno soggetto a pochi poteri forti.
La priorità assegnata all’economia reale rispetto a quella finanziaria è oggi decisiva e non è più la Borsa a servizio delle imprese ma il contrario. Fare i passi in avanti possibilmente senza debito ma secondo le reali possibilità patrimoniali ed economiche dell’impresa è garanzia di vero progresso e di solida responsabilità.
Cosa c’entra Dio in azienda
L’ordinamento etico dell’economia, e quindi anche della vita delle imprese, è generato da molti attori: dalle politiche statali infrastrutturali e di regolamentazione, dalla coerenza personale di imprenditori e lavoratori, dai valori condivisi ossia dalla tenuta del quadro morale generale della società, dai comportamenti dei consumatori, dall’etica degli operatori del credito, dalla religione e dalla sua influenza sulla comprensione del senso della vita e, quindi, anche dell’economia.
Non c’è da illudersi: una società materialista, relativista ed atea non sa su cosa fondare l’etica aziendale, come qualsiasi altra etica del resto. Se gli uomini non sono governati dal di dentro lo saranno dal di fuori e si tornerebbe così alla vecchia visione della produzione di ricchezza priva di etica e poi di un’etica che le si aggiunge in seguito in modo costrittivo. Non è possibile però che da degli egoismi possa nascere una giustizia.
Se efficienza e solidarietà devono essere unite fin dall’inizio e non accostate poi artificialmente dal potere politico, bisogna che qualcosa di interno faccia muovere gli uomini e li orienti al bene. Le Business School non potranno riuscirci da sole, perché l’etica non è capace di auto-fondarsi. Più la società si secolarizza e più aumentano i problemi legati all’economia, perché manca il fondamento ultimo dell’agire gli uni per gli altri