Infertilità e figli: esiste un metodo migliore, più economico e meno invasivo della procreazione artificiale. Ma è troppo “naturale” per non dare fastidio alla lobby della provetta
di Rodolfo Casadei
La naprotecnologia è nata negli Stati Uniti e da qualche anno è approdata in Europa, ma continua a scontare il pregiudizio che la considera un approccio confessionale alla medicina, condizionato dai dogmi religiosi.
Niente di più lontano dalla realtà. Se è vero che le pratiche della naprotecnologia si conformano rigorosamente alla bioetica cattolica, è altrettanto dimostrato che il suo approccio al problema della sterilità è scientificamente e clinicamente più rigoroso di quello praticato nell’ambito della fecondazione assistita. E per questo alla fine è anche più efficace: lo dicono le statistiche.
«La differenza fra naprotecnologia e fecondazione in vitro consiste nel fatto che nella prima la questione fondamentale è la diagnosi delle cause dell’infertilità, si cerca una spiegazione medica del perché una coppia non riesce a procreare, quindi si cerca di eliminare il problema e “aggiustare” il meccanismo naturale, ridandogli la sua armonia», spiega Phill Boyle, il ginecologo irlandese che tiene i corsi di formazione in naprotecnologia per medici di tutta Europa in una clinica di Galway.
«Nel procedimento in vitro, invece, la diagnosi delle cause non ha importanza, i medici vogliono semplicemente “aggirare l’ostacolo”, eseguendo una fecondazione artificiale. In naprotecnologia, la cura risolve il problema della coppia, che poi può avere anche altri figli. Con il metodo in vitro, i coniugi comunque non guariscono e continuano ad essere una coppia sterile, e per avere più bambini si devono sempre affidare a un laboratorio».
«La naprotecnologia è la vera fecondazione assistita», ironizza Raffaella Pingitore, la ginecologa chirurga più esperta nel metodo dell’area di lingua italiana, attiva presso la clinica Moncucco di Lugano. «Nel senso che assistiamo il concepimento dall’inizio alla fine, cioè dalla fase di individuazione dei marcatori di fecondità nella donna fino agli interventi farmacologici e/o chirurgici che si rendono necessari per permettere alla coppia di arrivare in modo naturale al concepimento».
Il nome deriva dall’inglese “natural procreation technology”, tecnologia della procreazione naturale. Più che una tecnologia è un insieme di tecniche diagnostiche e interventi medici che hanno per obiettivo l’individuazione della causa dell’infertilità e la sua puntuale rimozione. Si parte con le tabelle del modello Creighton, che descrivono lo stato dei biomarcatori della fecondità durante tutto il ciclo mestruale della donna, e che sono basate principalmente sull’osservazione dello stato del muco cervicale da parte della donna stessa.
Il pilastro che regge tutta la naprotecnologia è la capacità di osservazione di sé della donna: ad essa viene formata nella parte iniziale del percorso. Le tabelle correttamente compilate, con lo stato del muco cervicale giorno per giorno e altri dati, sono la base di tutti i passi successivi. Da esse è già possibile diagnosticare carenze ormonali, insufficienze luteali e altri problemi trattabili con la somministrazione degli ormoni mancanti.
Se l’infertilità persiste, si prosegue con l’esame dettagliato del livello degli ormoni nel sangue, l’ecografia dell’ovulazione e la laparoscopia avanzata. Possono allora rendersi necessari interventi di microchirurgia delle tube o di laparoscopia avanzata per rimuovere le parti danneggiate dall’endometriosi. Il risultato finale è una percentuale di nati vivi fra il 50 e il 60 per cento del totale delle coppie che eseguono i trattamenti per un massimo di due anni (ma la maggior parte concepisce nel primo anno), contro una media del 20-30 per cento fra chi ricorre ai cicli della fecondazione in vitro (generalmente sei cicli).
La sciatteria dei medici
«Una delle cose che mi scandalizza di più è la diffusa negligenza nelle diagnosi delle cause dell’infertilità», spiega Raffaella Pingitore. «Oggi dopo pochi esami di prammatica la donna viene invitata a rivolgersi ai centri per la fecondazione assistita. Siamo arrivati al punto che qualche anno fa la Società americana di medicina riproduttiva ha dichiarato l’insufficienza luteale come non esistente, perché non poteva essere “scientificamente” diagnosticata.
Noi siamo in grado di diagnosticarla perché coinvolgiamo la donna chiedendole di osservare e descrivere quotidianamente lo stato del muco cervicale, procedura che ci permette di diagnosticare l’insufficienza luteale. Questo per molti medici è impensabile: si limitano a un prelievo al 21esimo giorno del ciclo per misurare il livello del progesterone. Ma solo il 20 per cento delle pazienti ha un ciclo perfettamente regolare, perciò il dato del prelievo è quasi sempre diagnosticamente inutile».
«Negli Stati Uniti a Omaha, nel Nebraska, dal dottor Thomas Hilgers, il vero creatore della naprotecnologia, andavano donne alle quali l’endometriosi era stata esclusa dopo una laparoscopia. Ma rifacendone una più approfondita si scopriva che nel 90 per cento dei casi l’endometriosi c’era. A me è capitata spesso la stessa cosa. Una laparoscopia approfondita dovrebbe essere una pratica standard nello screening della sterilità, ma trattandosi di un intervento chirurgico l’ostilità è grande».
Che il ricorso indiscriminato alla fecondazione assistita vada di pari passo con la negligenza diagnostica lo si desume anche dall’alto numero di pazienti che ricorrono con successo alla naprotecnologia dopo fallimentari cicli di fecondazione in vitro. Il dottor Boyle afferma che negli ultimi sei anni nel gruppo delle sue pazienti sotto i 37 anni che avevano già provato due cicli di fecondazione assistita la percentuale di quelle che hanno concepito grazie al metodo di procreazione naturale è stata del 40 per cento.
Raffaella Pingitore racconta la sua personale esperienza: «La paziente aveva 36 anni e desiderava una gravidanza da otto anni; aveva fatto in passato cinque cicli di fecondazione assistita senza successo. Le ho fatto registrare la tabella dei marcatori della fertilità e abbiamo notato che aveva una fase di muco fertile soddisfacente, ma dei livelli ormonali un po’ bassi, il che indica un’ovulazione un po’ difettosa. Aveva anche dei sintomi di endometriosi; ho eseguito una laparoscopia, ho trovato l’endometriosi e ho coagulato i focolai di endometriosi sull’utero, sulle ovaie e sulle tube.
L’ho sottoposta a una terapia per mandarla sei mesi in menopausa, così da asciugare bene tutti i focolai di endometriosi eventualmente rimasti; dopo la terapia ho continuato con un farmaco, l’Antaxone, con la dieta e col sostegno della fase luteale con piccole iniezioni di gonadotropina. Questo ha portato all’innalzamento degli ormoni, e al quarto mese di trattamento si è raggiunto un muco molto buono. Al 17esimo giorno dopo l’ovulazione abbiamo eseguito il test di gravidanza, che è risultato positivo».
Costi e benefici
Lo scrupolo del professionista eticamente motivato può molto più delle tecniche artificiali. Lo dimostra l’aneddoto della dottoressa Pingitore, lo dimostrano le statistiche del dottor Boyle. In Irlanda nel corso di quattro anni il ginecologo ha curato 1.072 coppie che cercavano quasi tutte un figlio da più di cinque anni. L’età media delle donne era di 36 anni, e quasi un terzo di esse aveva già tentato di avere un figlio con la fecondazione in vitro. Dopo sei mesi di cure naprotecnologiche, l’efficacia del metodo era del 15,9 per cento. Dopo un anno, del 35,5 per cento. Dopo un anno e mezzo, il 48,5 per cento delle pazienti era rimasto incinta. Se le cure duravano due anni, quasi il 65 per cento delle pazienti arrivava alla gravidanza.
Su una base di utenti molto più piccola la dottoressa Pingitore nel biennio 2009-2011 ha ottenuto una media del 47,3 per cento. Negli Stati Uniti (paese dove non vigono leggi che limitano il numero degli embrioni fecondati trasferibili nell’utero) i tassi di successo della fecondazione assistita dopo sei cicli sono i seguenti: 30-35 per cento per le donne sotto i 35 anni; 25 per cento per le donne fra i 35 e i 37 anni; 15-20 per cento per le donne fra i 38 e i 40 anni; 6-10 per cento per le donne sopra i 40 anni.
Poi c’è la questione niente affatto secondaria dei costi, anche se in Italia se ne discute poco perché, a parte il ticket, la spesa è a carico del sistema sanitario nazionale. In tempi di austerità e di effetti deleteri del debito pubblico, tuttavia, un occhio al rapporto spesa/efficacia dovrebbe valere anche da noi. Risulta dunque che, se raffrontiamo i costi di due anni di percorso naprotecnologico e quelli di sei cicli di fecondazione assistita, la seconda costa ben undici volte di più della prima.
Un singolo ciclo di fecondazione in vitro costa circa 3.750 euro più 1.000 euro di medicazioni, dunque sei cicli costerebbero 28.500 euro a cui ne vanno aggiunti altri 800 per il congelamento e il mantenimento degli embrioni e 1.200 per il trasferimento, per un totale di 30.500. Invece, anche protraendo il percorso della naprotecnologia per due anni, i costi sono modesti: 300 euro per il corso di formazione nei metodi naturali, 800 per le consultazioni mediche e 1.500 per i medicamenti, per un totale di appena 2.600 euro.
Probabilmente parlamenti e ministri della Sanità dei paesi europei non sono tanto sensibili sui temi bioetici, ma difficilmente potranno fingersi sordi davanti alle richieste di verificare il rapporto costi/benefici fra le due metodologie. «La naprotecnologia è destinata a diffondersi, non fosse altro che per un discorso legato ai costi, nei quali vanno calcolati anche gli effetti collaterali della pratica della fecondazione assistita: non dimentichiamo che i bambini che nascono con quella tecnica hanno più probabilità di malformazioni e problemi di salute di quelli che nascono in modo naturale», ricorda Raffaella Pingitore.
«Prima, però, occorre sconfiggere la lobby della procreazione assistita. È una lobby miliardaria, che arricchisce centinaia di persone e che non si lascerà mettere i bastoni tra le ruote tanto facilmente».