di Luciano Benassi
Gli studi sulla “nuova religiosità” hanno contribuito in modo rilevante a svelare il carattere profondamente ambiguo della modernità. In particolare, hanno mostrato come modernità scientifico-positivista e credenze mitiche non siano affatto, come comunemente si crede, due mondi fra loro irriducibili, ma piuttosto due facce della stessa medaglia, fra le quali si dipana una fitta rete di rapporti psicologici, storici e sociologici (1).
È interessante osservare come questi studi, nati dall’esigenza di comprendere le tendenze religiose della nostra epoca, trovino un’ulteriore conferma in quelli più seriamente attenti a cogliere, per parte loro, le tendenze del pensiero scientifico contemporaneo. È quanto appare, felicemente, nell’opera di uno dei maggiori storici della scienza viventi, il monaco benedettino Stanley L. Jaki, e, in particolare, nello studio Dio e i cosmologi (2), in cui l’analisi delle scoperte più recenti nel campo della cosmologia è occasione per una riflessione sul rapporto fra il significato dell’impresa scientifica e la nozione di Dio nel contesto culturale in cui essa si svolge.
I. L’autore
Stanley L. Jaki nasce a Györ, nell’Ungheria nord-occidentale, il 17 agosto 1924. Terminate le scuole superiori, a diciotto anni entra nell’ordine benedettino e il 13 maggio 1944 fa la professione religiosa. Dopo aver completato gli studi universitari in filosofia, teologia e matematica, nel 1947 è a Roma per conseguire la tesi di laurea in teologia presso il Pontificio Istituto Sant’Anselmo; e qui, nel 1950, riceve il dottorato.
Intanto il 29 giugno 1948 era stato ordinato sacerdote. Nel 1951 è negli Stati Uniti d’America – di cui prenderà la nazionalità – per insegnare teologia sistematica e contemporaneamente seguire corsi di storia americana, letteratura, matematica e scienze allo scopo di ottenere il riconoscimento degli studi universitari compiuti in Ungheria. Negli Stati Uniti d’America consegue prima la laurea in Scienze e poi, nel 1957, il dottorato in Fisica, con una tesi condotta sotto la direzione di Victor F. Hess, lo scopritore dei raggi cosmici, premio Nobel per la fisica nel 1936.
Da quel momento i suoi interessi si spostano decisamente verso la storia e la filosofia della scienza, che diventeranno il campo principale della sua multiforme attività intellettuale e della sua abbondante produzione scientifica. Gli anni dal 1958 al 1960 lo vedono ricercatore di storia e filosofia della fisica presso le università di Stanford e di Berkeley, mentre nel biennio successivo è Visiting Fellow all’università di Princeton per un programma di ricerca nella stessa disciplina.
Nel 1965 diviene docente alla Seton Hall University, nel New Jersey, di cui è attualmente professore emerito. Negli anni 1975 e 1976 è chiamato come professore all’università di Edimburgo nell’ambito delle prestigiose Gifford Lectures, un ciclo di conferenze che dal 1887, per volontà di Lord Adam Gifford, si svolge nelle quattro università scozzesi con lo scopo di promuovere lo studio della teologia naturale. Nel 1977 svolge lo stesso incarico presso il Balliol College di Oxford, nell’ambito delle Fremantle Lectures.
Associato a numerosi sodalizi scientifici e culturali è, fra l’altro, membro onorario della Pontificia Accademia delle Scienze e, dal 1986, membro corrispondente dell’Académie Nationale des Sciences, Belles-Lettres et Arts di Bordeaux. Nel 1987 è stato insignito del premio Templeton.
Da oltre trent’anni l’opera dello storico della scienza dom Stanley L. Jaki O.S.B. si caratterizza per due elementi originali e decisivi: da un lato il senso profondo dell’unità della conoscenza e, dall’altro, un altrettanto profondo sentimento dell’oggettività del reale .
Si tratta di due atteggiamenti che hanno portato lo studioso benedettino a pensare il cammino della scienza e quello verso Dio come un unico percorso intellettuale. In aperta polemica con la cultura dominante, che considera scienza e fede come due termini irriducibili e contrapposti, tutta la sua opera è volta ad affermare la connessione esistente fra conoscenza scientifica e conoscenza di Dio, una connessione a tal punto intima e stretta da giustificare la conclusione secondo cui la scienza è nata e si è sviluppata, dopo secoli di tentativi regolarmente abortiti – si pensi alle antiche civiltà cinese, indiana e greca -, solo all’interno di una cultura permeata dalla convinzione che la mente umana sia capace di cogliere, nelle cose e nelle persone, un segno del loro creatore.
Si tratta di un approccio teologico alla storia della scienza che rovescia molti luoghi comuni e molte leggende, come quella che considera il Medioevo cristiano un’epoca di oscurantismo e di superstizione. Nell’opera di dom Stanley L. Jaki, infatti, i secoli della Cristianità medioevale sono quelli in cui l’inculturazione della fede in un Dio personale, trascendente, razionale e creatore di tutte le cose, ha posto le condizioni per lo sviluppo dell’indagine scientifica della natura.
Questo approccio teologico alla storia della scienza è usato da dom Stanley L. Jaki per esaminare lo stato della scienza anche in tempi più vicini a noi; e particolarmente alla fisica del nostro secolo egli rivolge le critiche più stringenti, denunciandone i presupposti idealistici e la sostanziale rinuncia a un genuino sforzo conoscitivo. In questo ambito la sua attività di polemista e di conferenziere costituisce una puntuale e documentata opera di risposta a quell’abbondante pubblicistica scientifico-divulgativa che, dai mass media, si riversa sul grande pubblico accreditando l’idea di una “scienza totale”, in grado di spiegare non solo il come dei fenomeni, ma anche il perché dell’esistenza di tutto, della materia e dello spirito.
Fra le opere più significative di dom Stanley L. Jaki, autore di oltre trenta volumi e di più di settanta articoli, si possono ricordare The Relevance of Physics, “La portata della fisica” (3), Brain, Mind and Computers, “Cervello, mente e calcolatori” (4), che gli è valso il premio Le Comte du Noüy nel 1970, Science and Creation: from Eternal Cycles to an Oscillating Universe, “Scienza e creazione: dai cicli eterni a un universo oscillante” (5), The Road of Science and the Ways to God, “La strada della scienza e le vie verso Dio” (6), che raccoglie il ciclo delle Gifford Lectures tenute dall’autore, Cosmos and Creator, “Cosmo e creatore” (7), Angels, Apes and Men, “Angeli, scimmie e uomini” (8), Uneasy Genius: the Life and Work of Pierre Duhem, “Un genio scomodo: la vita e l’opera di Pierre Duhem” (9), Chesterton: a Seer of Science, “Chesterton: un profeta della scienza” (10), Chance or Reality and Other Essays, “Caso o realtà e altri saggi” (11), e The Savior of Science, “Il Salvatore della scienza” (12).
II. “Dio e i cosmologi”
Dio e i cosmologi è una delle poche opere di dom Stanley L. Jaki pubblicata in lingua italiana e raccoglie, in forma ampliata, il ciclo di otto conferenze da lui svolte al Corpus Christi College di Oxford sul finire degli anni Ottanta. Il volume costituisce un felice tentativo di restituire dignità al dibattito cosmologico, offrendo al lettore la possibilità di accostare in modo serio una tematica la cui oggettiva difficoltà, sia scientifica che filosofica, è resa più acuta dall’apparire di volgarizzazioni e di banalizzazioni, soprattutto della cosmologia scientifica.
Infatti, come lo stesso autore sostiene nell’Introduzione (13), il grado di certezza oggi raggiunto da questa disciplina può essere di grande aiuto per impostare correttamente la riflessione sullo statuto metafisico dell’universo e con ciò contribuire alla riconquista della nozione di Dio creatore, che è alla base di ogni approccio religioso al reale.
1. Veri e presunti nemici della scienza
Nel primo capitolo, L’universo riconquistato (14), dom Stanley L. Jaki descrive il travaglio culturale che portò, nel volgere dei trecento anni dalla fine del Cinquecento all’inizio del secolo XX, all’identificazione dell’universo come oggetto d’indagine scientifica. Che si sia trattato di un travaglio e non di una nascita improvvisa è prova il fatto che solo dal 1917, con la pubblicazione da parte di Albert Einstein di un saggio sulle conseguenze cosmologiche della sua teoria della relatività generale, si può parlare dell’universo come di un oggetto indagabile scientificamente.
Al contrario, nei tre secoli che vanno dalle prime osservazioni celesti con il telescopio fino ai primi anni del Novecento, la nozione scientifica di universo ha più volte rischiato di abortire e certo non per colpa dell’oscurantismo clericale. Secondo lo studioso benedettino, a costituire una minaccia per la nascita scientifica dell’universo furono l’idea della sua infinità e, conseguentemente, della sua eternità, ciò che lo avrebbe sottratto a ogni possibile “misura” scientifica in quanto privo di limite e di durata, le due qualità indispensabili perché la scienza possa operare secondo il proprio statuto gnoseologico.
Il “partito” dell’infinità cosmica, poco numeroso nel corso del secolo XVIII, era tuttavia fortemente caratterizzato: “Ben pochi intorno al 1700, o anche più tardi, proposero un universo infinito, e solo uno scienziato o cosmologo tra di loro: Edmund Halley, noto per il suo ateismo e per la sua involuta difesa di un universo infinito e omogeneo. Coloro che appoggiarono l’idea di un universo infinito, filosofi per la maggior parte, quasi invariabilmente vi videro una comoda scusa per fare a meno di un Dio veramente trascendente” (15).
E si tratta di Giordano Bruno e Jacob Boehme con il loro panteismo cosmico, di Baruch Spinoza, degli illuministi tedeschi, di Immanuel Kant e degli idealisti. In particolare fu il filosofo di Koenigsberg a intuire meglio di altri “[…] il ruolo fondamentale svolto dall’ammissione dell’universo nella valutazione della fede nel Creatore” (16) e a suggerire “[…] la genesi di un universo infinito come unico universo che sarebbe potuto scaturire dalle mani di un Creatore con poteri infiniti” (17).
Naturalmente questa ansia di infinito, che in Immanuel Kant si spinse fino a ipotizzare un numero infinito di universi, non era dettata da zelo religioso, ma dal postulato idealistico della inconoscibilità del reale. Secondo dom Stanley L. Jaki, in questo consiste propriamente la minaccia portata dall’infinità cosmica: la sostituzione del mondo reale con gli enti prodotti dalla ragione, una ragione libera da ogni sottomissione a un Creatore che, al contrario, può essere conosciuto solo se vi è un universo reale.
Naturalmente ciò non impedì che l’universo tornasse “[…] ad essere un concetto valido” (18), ma il disagio idealistico nei confronti di un cosmo reale fece sì che gli uomini di scienza e di filosofia dei primi decenni del secolo XX non apprezzassero adeguatamente il ritrovamento. Del resto ancora oggi – secondo dom Stanley L. Jaki – scienziati e filosofi, ma il discorso riguarda anche “[…] preti, ecclesiastici e cristiani in generale, devono […] rendersi conto che il maggior sviluppo nella cosmologia scientifica sta nella testimonianza che l’universo è stato riconquistato” (19).
2. La contingenza dell’universo
Nel secondo capitolo, Nebulosità dissipata (20), l’autore affronta la questione della specificità dell’universo, così come essa è venuta rivelandosi grazie all’apporto della cosmologia scientifica. Il fatto che l’universo fisico sia caratterizzato da grandezze in qualche modo misurabili, quali la massa totale e il raggio massimo, pone immediatamente la domanda sul perché questi valori e non altri, equivalente alla domanda sul perché questo universo e non un altro.
La specificità del nostro universo rimanda, in altri termini, alla sua contingenza perché, essendo sempre possibile immaginarne uno diverso da quello che conosciamo, non vi sono ragioni apparenti perché esista, appunto, questo e non un altro.
Ma la cosmologia scientifica, secondo lo studioso benedettino, non ha solo rivelato il carattere specifico dell’attuale scenario cosmico: le ricerche compiute nel secolo XX hanno esteso tale specificità fino ai suoi primissimi istanti di vita, delineando un quadro coerente dal profondo significato metafisico. Infatti, “le numerose prove interdipendenti raccolte fino ad ora smentiscono ampiamente gli schemi pseudofilosofici che fanno apparire l’origine del cosmo come si trattasse di una semplice cosa” (21), tale da costituire “[…] una scusa valida per ignorare altri interrogativi su di essa” (22).
Immaginare che l’universo, nelle sue prime fasi, fosse semplice è certamente legittimo; l’errore consiste, piuttosto, secondo dom Stanley L. Jaki, nel suggerire, attraverso tale semplicità, la “visione indolente” secondo cui “[…] ciò che “sembra” totalmente semplice può esistere senza essere anzitutto creato” (23). Quello della semplicità è anche uno dei grandi obiettivi della fisica moderna, protesa a generalizzazioni sempre più ampie e a unificazioni sempre più stringenti.
A questo proposito lo studioso benedettino avverte che “[…] il mondo fisico può alla fine essere ridotto, per quanto riguarda il computo delle sue proprietà da parte dei fisici, ad una singola forma con un paio di costanti. Ma persino a quella semplicità non mancherebbero forti specificità che produrrebbero quindi, salvo che in menti deliberatamente inerti, il problema del perché queste specificità siano di questa e non di qualche altra grandezza” (24).
In definitiva, per quanto semplice possa essere descritto, “un universo, dimostrato dalla scienza come reale e specificamente tale, indicherà senza fallo un’origine al di là delle sue fasi specifiche, un fattore metafisicamente oltre l’universo” (25). D’altra parte, conclude l’autore, “[…] lo scopo primario della specificità delle cose non è quello di rendere possibili meri giochi quantitativi, ma di aiutare a riconoscere la vera realtà delle cose e la Realtà che le rende reali” (26).
3. Il mito dell’eternità dell’universo
Il misconoscimento dei dati oggettivi forniti dalla cosmologia scientifica e il rifiuto di considerarli in una corretta prospettiva metafisica non producono soltanto gli errori relativi all’infinità dell’universo e alla “nebulosità” delle sue origini: nel terzo capitolo, Lo spettro del tempo (27), l’autore descrive anche l’errore eternalista, ovvero la tesi secondo cui l’universo può essere infinito come durata.
La transitorietà del cosmo si affacciò sulla scena scientifica verso la fine degli anni 1920, quando, dalle equazioni di campo gravitazionale, si cominciarono a ricavare soluzioni non statiche, ovvero dipendenti dal tempo, e le osservazioni astronomiche rivelarono “[…] che l’universo era di fatto soggetto ad uno specifico moto globale, e ad un’espansione, che è sempre un segno di transitorietà” (28): basti pensare alla crescita del corpo umano, specialmente nel caso in cui tale crescita sia esagerata.
“Da allora – osserva dom Stanley L. Jaki – l’universo è stato ossessionato dallo spettro dello scorrere del tempo verificabile scientificamente, e gli sforzi che ebbero la pubblicità più ampia nella cosmologia scientifica moderna furono quelli che miravano a dissolvere quello spettro” (29).
Questo fatto fu particolarmente evidente nei paesi a regime comunista, e specialmente in Unione Sovietica, dove “i cosmologi scientifici […] non potevano far altro che adottare la linea del partito. Secondo quell’ideologia l’eternità della materia era un dogma “scientifico” [fin] dalla pubblicazione della prima autorevole interpretazione comunista della scienza, l’Anti-Düring di Engels” (30), e come tale condizionò la ricerca cosmologica – e i ricercatori – fino alla fine degli anni 1970.
In Occidente, al contrario, la sollecitudine con cui molti cosmologi appoggiarono la causa dell’eternità della materia non poteva essere il riflesso di una paura di ritorsioni politiche. Secondo dom Stanley L. Jaki, questa disponibilità “[…] riflette la logica secondo la quale un occidente che progressivamente si allontana dal cristianesimo opta naturalmente per il materialismo” (31), la cui adozione implica altrettanto “[…] naturalmente il desiderio di avere notizie “scientifiche” che annuncino che l’universo […] non avrà mai un giorno del giudizio” (32).
La teoria dello stato stazionario, proposta nel 1947 da Thomas Gold e da Hermann Bondi e successivamente propagandata dalla radio britannica nel corso di quattro celebri trasmissioni, tendenziosamente orientate in suo favore, rispondeva a questo desiderio. Il cuore della teoria è la creazione continua di materia: atomi di idrogeno comparirebbero continuamente dal nulla in quantità tale da bilanciare la diminuzione di densità dovuta all’espansione dell’universo.
In questo modo il paesaggio cosmico, pur allargando il proprio orizzonte a causa dell’espansione, rimane identico a sé stesso e, quindi, immune al trascorrere del tempo. La teoria ebbe una notevole diffusione negli anni 1950, soprattutto grazie a una massiccia propaganda attraverso opere divulgative, per poi tramontare all’inizio degli anni 1960, di fronte all’incalzare dell’evidenza sperimentale – nessuno osservò mai un protone apparire dal nulla -, ma non, come ci si sarebbe atteso, sotto il peso della sua povertà metafisica. Tanto è vero che l’eternalismo, lungi dall’essere abbandonato, continua ancor oggi a rappresentare la speranza soggiacente di molte ricerche e il tema dominante delle teorie cosmologiche che comportano un universo chiuso.
La chiusura dell’universo implica che alla fase espansiva, originata da un’immane esplosione – il Big Bang, che molto verosimilmente ha dato origine all’universo -, debba seguire una fase di contrazione o collasso gravitazionale – il Big Crunch -, che si concluderebbe con la sua annichilazione. Alcune teorie si spingono a ipotizzare che tali cicli di espansione-contrazione si susseguano indefinitamente e che noi stiamo vivendo nella fase espansiva di una di queste infinite oscillazioni.
Secondo dom Stanley L. Jaki è facile scorgere nella teoria dell’universo oscillante una forma di eternalismo, dove l’eternità è assicurata dal numero infinito di cicli anziché riguardare la durata di un unico ciclo: una sorta di riedizione, in chiave scientifica, del mito dell’eterno ritorno. Ma proprio dal punto di vista strettamente scientifico egli rileva che non vi sono mai stati elementi sperimentali tali da suggerire l’idea del collasso gravitazionale o tali da far propendere per essa.
4. Il mito della teoria definitiva
Nel quarto capitolo, L’ombra di Gödel (33), l’autore approfondisce il tema della contingenza dell’universo, riapparso di prepotenza nel dibattito cosmologico attraverso le cosiddette “teorie del tutto” o “teorie definitive” (34): queste, nella loro versione estrema, tentano di ridurre a un’unica formula l’intera fenomenologia fisica, essendo fondate sul duplice postulato che l’universo non può non esistere e non può non essere quello che è.
In altri termini, secondo tali teorie, l’universo avrebbe in sé le ragioni della propria esistenza e questa autoconsistenza dovrebbe emergere dallo stesso apparato fisico-matematico con cui viene descritto il mondo fisico. Ma – sostiene dom Stanley L. Jaki – anche “[…] quando un fisico considera scontata l’esistenza di un universo molto reale, il quale esiste anche quando egli non ci pensa, lascia aperte questioni sulla sua contingenza, ossia sulla sua dipendenza ontologica da una Realtà che è al di là o dietro ad essa” (35).
La ricerca di una teoria definitiva è il tema conduttore di un’opera, Dal Big Bang ai buchi neri (36), divenuta ben presto un successo mondiale sia per la fama del suo autore, il fisico-matematico inglese Stephen W. Hawking, titolare della cattedra lucasiana di matematica a Cambridge, sia per l’imponente battage pubblicitario che ne ha accompagnato l’uscita, accreditandola come l’ultima parola in materia di questioni fondamentali come lo spazio, il tempo, la creazione e Dio.
La critica che lo studioso benedettino muove a quest’opera, esemplare di una pubblicistica scientifico-divulgativa molto diffusa, è costruita intorno alla confusione che il suo autore compie fra il piano della fisica e quello della filosofia nel corso dell’indagine cosmologica: si tratta di una confusione che rovescia l’ordine della conoscenza e lo stesso statuto ontologico degli enti e dei sistemi oggetto dell’indagine. Ignorando che “[…] l’universo esiste anche quando i cosmologi non scrivono equazioni esoteriche su di esso” (37), avviene che le equazioni, anziché presupporre l’esistenza dell’universo, finiscono per diventarne garanti.
Di qui, afferma dom Stanley L. Jaki, le domande, invariabilmente lasciate senza risposta, di cui è disseminato il libro di Stephen Hawking: perché l’universo esiste? La teoria definitiva può non esistere? Oppure ha bisogno di un Creatore? E chi ha creato il Creatore? Domande che testimoniano come anche la mente più brillante possa smarrirsi se rifiuta di compiere quel passo fondamentale verso la metafisica cui dovrebbe spingerla la ricerca della comprensione completa dell’universo. Tale ricerca costituisce infatti una “[…] domanda metafisica sull’esistenza di un Creatore che, scegliendo un mondo specifico, decide perché il mondo diventi quello che è, quale sia il motivo per cui esiste” (38).
Una teoria, come quella “definitiva”, che avanzi la pretesa di essere completa, cioè di spiegare tutto, e, quindi, anche sé stessa, non può, secondo dom Stanley L. Jaki, non confrontarsi con i teoremi di Gödel, evocati nel titolo del capitolo. Kurt Gödel, studioso austriaco di logica naturalizzato statunitense, pubblicò nel 1931 un articolo sulla completezza dei sistemi non banali di proposizioni aritmetiche: secondo quello studio, divenuto celebre, nessun sistema di tale natura può contenere la prova della sua coerenza.
Solo successivamente, però, si cominciò ad apprezzare l’enorme portata della “prova di Gödel” e a capire che il suo campo di applicazione andava ben oltre l’aritmetica, potendosi estendere a ogni insieme non banale di proposizioni, quindi anche alle “teorie del Tutto”, relative alla comprensione dell’universo. Ma tale estensione condanna irrevocabilmente ogni teoria definitiva: infatti, come può una teoria che si definisce necessariamente vera non contenere in sé la prova della propria coerenza, come appunto vietato dai teoremi di Gödel?
Si tratta, afferma lo studioso benedettino, di una “contraddizione in termini” (39) da cui deriva “[…] la principale conseguenza dei teoremi di Gödel sulla cosmologia, ossia che la contingenza del cosmo non può essere contraddetta” (40). Tuttavia egli mette in guardia anche da una eccessiva confidenza nel loro utilizzo, che porterebbe ad attribuire a essi quel carattere ontologico, che essi giustamente sottraggono ai sistemi di proposizioni.
Infatti, la coerenza di un sistema di proposizioni nulla aggiunge o toglie all’esistenza dell’oggetto cui si riferisce, in quanto, “[…] a meno che non si consideri la propria certezza della realtà immediatamente percepita come il primo fondamento affidabile, non c’è una base per ritenere con sicurezza una qualsiasi realtà, tanto meno la realtà dell’universo” (41).
5. Gli idoli della “nuova fisica”: il nulla, il caso, il “caos”
Nei due capitoli successivi lo studioso benedettino introduce il lettore alle questioni implicate dalla meccanica quantistica, la branca della fisica che ha come oggetto la dinamica dei sistemi atomici e subatomici e che, per questo, comporta una riflessione sulla struttura intima del mondo materiale, sulla nozione di causalità e, in ultima istanza, sulla relazione fra l’apparente determinismo che governa l’universo e la libertà della mente umana.
La critica che l’autore svolge nel quinto capitolo, Tartarughe e tunnels (42), riguarda, in particolare, l’interpretazione antirealista del principio di indeterminazione, il caposaldo concettuale di tutta la meccanica quantistica. Formulato nel 1927 dal fisico tedesco Werner Heisenberg, il principio di indeterminazione stabilisce l’impossibilità, a livello quantistico, di misurare con qualsivoglia precisione coppie di grandezze fisiche complementari come la posizione e la velocità oppure l’energia e il tempo.
È da notare che non si tratta dell’imprecisione o indeterminazione, inevitabile, dovuta allo strumento di misura: il principio intende sancire un’indeterminazione intrinseca al mondo subatomico, una specie di “soglia”, che divide il mondo osservabile da un mondo dove sono possibili anche comportamenti non fisici.
La critica che dom Stanley L. Jaki muove alla meccanica quantistica non mette in discussione gli innegabili successi operativi della teoria, quanto piuttosto le interpretazioni che uomini di scienza e di filosofia hanno dato del quadro concettuale da essa implicato. L’interpretazione ancor oggi dominante risale alle riflessioni prodotte, sul finire degli anni 1920, dalla Scuola di Copenaghen, il circolo scientifico raccoltosi intorno al fisico danese Niels Bohr, che per primo formulò un modello dell’atomo – per molti versi definitivo – fondato proprio sui princìpi quantistici.
Secondo la Scuola di Copenaghen il fattore quantico rende priva di senso ogni domanda sulla realtà del mondo atomico e subatomico, mentre il principio di indeterminazione sancirebbe, almeno a quel livello, l’inapplicabilità di ogni rapporto causale. Il misconoscimento del “[…] fatto importantissimo che la teoria fisica non riguarda l’”essere” di per sé, ovvero l’ontologia, ma solo gli aspetti quantitativi delle cose che esistono già” (43) è – secondo dom Stanley L. Jaki – all’origine della radicalità antimetafisica dell’interpretazione della Scuola di Copenaghen e delle sue aberranti conseguenze, anche in campo cosmologico. Infatti, una volta ammesso che “[…] la causalità di un processo fisico dipende dalla sua esatta misurabilità” (44), ovvero che “[…] l’incapacità dei fisici di misurare la natura con esattezza […] [dimostra] che la natura […] [è] incapace di agire con esattezza” (45), è stato possibile nascondere dentro il cappello a cilindro dell’indeterminazione tutto quanto la fisica non è in grado di spiegare.
A questo proposito dom Stanley L. Jaki attira l’attenzione sull’importanza che la nozione di nulla ha assunto nella teoria quantistica: dal nulla quantistico possono infatti apparire materia, energia e perfino lo stesso universo, anzi infiniti universi. L’esito di un simile modo di pensare è, naturalmente, la fantascienza, come suggerisce lo studioso benedettino commentando una sentenza divenuta celebre negli ambienti della cosmologia scientifica, e cioè che “l’universo in definitiva potrebbe essere un pasto gratis” (46): quasi a dire che l’apparizione dell’universo non è poi un fatto così singolare come si potrebbe credere.
L’affermazione è del noto cosmologo statunitense Alan H. Guth, autore della teoria inflazionaria dell’universo, il quale, molto coerentemente, sostiene pure che, per quel che ne sappiamo, “il nostro universo potrebbe essere stato creato nello scantinato di uno scienziato di un altro universo” (47).
Queste farneticazioni, soprattutto quando provengono da scienziati di grido, sono avvertite non come tali, ma come un’espressione dell’“umiltà” con cui la scienza, nel corso degli ultimi secoli, avrebbe rivelato agli uomini la marginalità della terra nell’universo. Secondo questa prospettiva, che trasforma inopinatamente la reale marginalità cosmica della terra in una marginalità assoluta, neppure l’universo può godere di uno statuto particolare e pertanto deve essere considerato un incidente del “caso”. Si tratta, con ogni evidenza – osserva dom Stanley L. Jaki -, di una “[…] farsesca dimostrazione di umiltà” (48), che nasconde il “[…] disprezzo per la capacità dell’uomo di dedurre dalla natura il Dio della natura” (49).
Nel sesto capitolo, Dadi truccati (50), l’autore sembra invitare il lettore a una sana cautela anche verso il dibattito aperto dall’irruzione dei concetti di caso e di caos nella fisica contemporanea. Si tratta di un dibattito che i mass media orientano costantemente in senso antirealista, attribuendo al caso e al caos possibilità ordinatrici e sorvolando sul fatto che “un caos non può mai essere un tutto, ovvero una coordinazione delle parti, senza con questo cessare di essere un caos degno di questo nome” (51).
L’opera Order out of Chaos. Man’s New Dialogue with Nature, “Ordine dal caos. Nuovo dialogo dell’uomo con la natura” (52), di Ilya Prigogine e Isabelle Stengers, è – secondo dom Stanley L. Jaki – un esempio rivelatore delle contraddizioni e delle difficoltà in cui si dibattono i sostenitori del caso: infatti, “l’indeterminazione radicale [che] avvolge tutto in quel libro” (53) non solo non offre una risposta su cosa sia il caso, anche solo come formalismo matematico, ma finisce per coinvolgere anche la nozione stessa di Dio.
Quindi non stupisce la conclusione del monaco benedettino, secondo cui “[…] non è il Creatore della Bibbia ma quello del Talmud che Prigogine e Stengers trovano congeniale al loro pensiero. Quel “creatore” non dice che tutto è andato molto bene, ma semplicemente: “Speriamo che funzioni”. E ciò che è peggio, lo dice solo dopo che ha fatto due dozzine di tentativi e di sbagli per creare un universo” (54).
6. Dalla terra al cosmo
Con il settimo capitolo, La fortuna della terra (55), si apre idealmente la seconda parte di Dio e i cosmologi. Dopo la critica circostanziata svolta nei capitoli precedenti, dom Stanley L. Jaki guida il lettore alla ricerca degli elementi sui quali è possibile fondare una cosmologia scientifica, che sia autentica scienza del cosmo e non occasione di esercitazioni filosofiche di basso profilo. Per questa impresa egli parte dalla terra e dalle sue immediate vicinanze cosmiche: solamente da qui, infatti, gli uomini possono occuparsi di cosmologia e, a partire da qui, cioè dalla terra, dalla luna e dal sistema solare, possono riscoprire quelle caratteristiche di specificità il cui riconoscimento è la condizione necessaria per lo sviluppo della scienza.
La “fortuna”, che costituisce il motivo conduttore del capitolo, è appunto la serie dei segni, naturali e storici, imprevedibili e inaspettati, attraverso i quali la scienza è giunta a vedere la luce nel Medioevo cristiano, dopo innumerevoli brancolamenti nel buio.
Secondo lo studioso benedettino, il primo caso di fortuna è quello di Eratostene di Cirene, che misurò con notevole precisione la circonferenza della terra grazie a una serie impressionante di circostanze geografico-astronomiche estremamente particolari: infatti, “[…] non fu possibile dare inizio proficuamente alla comprensione scientifica dell’universo finché la terra non fu letteralmente misurata più di duemila anni fa” (56).
Tuttavia, prosegue dom Stanley L. Jaki, le felici circostanze che permisero a Eratostene di elaborare il suo metodo, non sarebbero state sufficienti a far sì che la cosmologia si avviasse a diventare una scienza della natura “[…] se la terra non fosse stata accompagnata dalla luna, che merita di essere definita come la più grande fortuna della terra” (57).
Fortunata è anzitutto l’identità fra le dimensioni apparenti del sole e della luna, che consentì ad Aristarco di Samo, nel 150 a.C., di ricavare le dimensioni della luna, del sole e le distanze terra-luna e terra-sole in unità del raggio terrestre (58). Ma il punto in cui il sistema terra-luna rivela tutta la sua misteriosa specificità, con conseguenze inaspettate anche per la comprensione del sistema solare, riguarda l’origine stessa del nostro satellite.
Fino alla metà degli anni 1970 le teorie più accreditate sulla formazione della luna erano varianti di quella proposta da Pierre Simon de Laplace, verso la fine del Settecento, a proposito della formazione del sistema solare, nota come ipotesi della nebulosa e i cui “[…] aspetti più discutibili […] sono rimasti parte integrante della prospettiva scientifica” (59). Debole dal punto di vista scientifico, essa resistette al tempo solo a causa del suo retroterra ideologico, di cui è testimonianza la celebre risposta che lo scienziato francese dette a Napoleone Bonaparte, incuriosito dal fatto che Dio non era nominato in una teoria sull’origine del mondo: “Sire, non ho bisogno di questa ipotesi”.
Ma, “di fatto se c’è un aspetto del sistema solare che non si spiega tramite la teoria di Laplace, o tramite i suoi rimaneggiamenti successivi, è il sistema terra-luna” (60), che presenta vistose anomalie rispetto agli altri sistemi satellitari, soprattutto in termini di dimensioni e di rapporti di massa.
Ora, secondo lo studioso benedettino, proprio questa diversità infligge un colpo mortale non solo alle teorie derivate dall’ipotesi laplaciana della nebulosa, ma anche al suo principale retaggio, ovvero “[…] alla spiegazione del nostro sistema solare come un fatto tipico che si presenterebbe in ogni cantuccio dell’universo. Naturalmente – osserva l’autore – potrebbe essere proprio così, ma tutte le prove offerte dalla teoria e dall’osservazione negli ultimi cent’anni indicano il contrario” (61).
Tuttavia, se anche “[…] in questa situazione sconcertante fu chiaramente delimitata la direzione da seguire, ciò è collegato con l’origine della luna” (62), spiegata però mediante una teoria non riconducibile a nessuna ascendenza laplaciana, la teoria del megaimpatto, secondo cui la luna sarebbe stata originata da una gigantesca collisione fra la terra e un corpo celeste con una massa di circa un decimo di quella terrestre (63).
Ciò su cui l’autore richiama l’attenzione sono le numerose condizioni che devono essere soddisfatte simultaneamente affinché l’intero processo abbia luogo: se, da un lato, la teoria della collisione gigantesca “funziona” come spiegazione della formazione lunare, dall’altro essa suggerisce pure che un simile fenomeno è estremamente improbabile e che, a maggior ragione, è estremamente improbabile anche la formazione di un intero sistema planetario. Se ne deduce- afferma lo studioso benedettino – che è “essenzialmente aprioristica” la “[…] convinzione […] che i sistemi planetari debbano essere un aspetto onnipresente in tutto l’universo” (64).
Molte altre sono le coincidenze fortunate, elencate dall’autore, che fanno della terra un punto di osservazione privilegiato: tutto ciò – secondo dom Stanley L. Jaki – non è più soltanto una conferma dell’unicità del “fenomeno terra” dal punto di vista astronomico, ma lo è anche da quello biologico: e, a fare le spese di questa unicità, è il mito dell’evoluzione darwiniana, ovvero l’idea di un processo generalizzato e costante che pervaderebbe tutto l’universo e “[…] che ha necessariamente come risultato degli esseri intelligenti” (65).
A questo proposito, egli osserva che la prospettiva scientifica moderna è a tal punto asservita al dogma culturale dell’evoluzione da assecondarne anche gli sviluppi più fantasiosi. Solo così, infatti, si possono spiegare i novanta milioni di dollari destinati dal Congresso degli Stati Uniti d’America, sul finire degli anni 1980, per finanziare un ambizioso progetto di “ascolto” di emissioni radio intelligenti provenienti dallo spazio (66).
Le critiche, peraltro assai tiepide, che vengono mosse contro tali progetti e, in generale, contro l’idea del contatto con intelligenze extra-terrestri, secondo l’autore raramente colgono il cuore della questione, che è costituito, invece, dal significato stesso del comunicare. Infatti, “all’interno di una prospettiva genuinamente darwinista non ci sono i fondamenti per presumere che degli extra-terrestri […] possano comunicare, se non con i loro consanguinei. Di fatto, all’interno di questa prospettiva non ci sono i fondamenti per presupporre che svilupperebbero strumenti scientifici che, per come li conosciamo noi, sono intrinsecamente collegati con il nostro modo di concettualizzare e verbalizzare le nostre percezioni del mondo esterno” (67).
D’altra parte – conclude l’autore – non vi sono neppure i presupposti per immaginare che lo stesso sviluppo scientifico sia un esito inevitabile dell’evoluzione tanto della specie umana quanto delle presunte civiltà extra-terrestri, come invece postula un altro mito di matrice darwiniana. Al contrario, l’unico sviluppo scientifico osservabile, cioè quello avvenuto presso la specie umana, è a tal punto costellato di coincidenze, di casualità e di “fortuna”, che parlare di una sua inevitabilità sarebbe quanto mai temerario.
Ma ciò che rende assolutamente inaccettabile questa tesi evoluzionista è, secondo l’autore, la constatazione che la scienza, anche prescindendo dalle “fortune” di cui si è detto, non sarebbe stata possibile senza la conversione di un’intera cultura alla religione cristiana, cioè alla fede in un Dio personale, creatore di tutte le cose “dal nulla […] [e] nel corso del tempo” (68), come avvenuto nei secoli della Cristianità medioevale. Infatti, il cristianesimo, introducendo la distinzione fra “il soprannaturale ed il naturale” (69) in luogo della distinzione fra “le regioni celesti e quelle terrestri” (70), propria di tutti i paganesimi, “[…] permise […] di considerare le regioni celesti allo stesso livello del resto, e quindi governate dalle stesse leggi” (71).
È questa fede “la più grande fortuna della scienza” (72), ed essendo fondata in “[…] Cristo, come unico Figlio generato in cui il Padre creò tutto” (73), cioè “[…] su un evento che certamente si qualifica come l’esatto contrario dell’inevitabilità” (74), essa non solo si oppone a ogni ipotesi evoluzionista, ma rende anche conto dello “[…] sviluppo del tutto inaspettato, per cui un sottoprodotto che si potrebbe presumere accidentale di cieche forze materiali ha una mente che gli permette di avere la padronanza intellettuale del cosmo” (75).
7. Dal cosmo a Dio
Nell’ultimo capitolo del volume, Cosmo e culto (76), dom Stanley L. Jaki porta a conclusione la riflessione sull’intimo legame esistente fra la cosmologia scientifica e la fede nel Creatore, messo in evidenza nel capitolo precedente. “Che il riconoscimento di una totalità rigorosa e coerente di tutte le cose, ovvero dell’universo, spinga logicamente verso un culto” nei confronti del Creatore è “una storia con molte pagine rivelatrici” (77).
Infatti, se “[…] uno dei due culti che l’universo può ispirare” (78) è il panteismo, in cui è l’universo stesso ad assumere connotazioni divine; l’altro, “[…] che adora il Creatore dell’universo, forma la base di tutte le religioni monoteistiche, ma con differenze considerevoli: tutte professano di essere le destinatarie di una rivelazione particolare riguardo al coinvolgimento diretto di Dio nella storia dell’uomo; tutte hanno la loro storia particolare della salvezza, da cui derivano la loro forza principale e la loro occasionale e, in alcuni casi, sistematica illusione; sono invece notevolmente differenti nella specificazione della misura in cui una visione dell’universo puramente razionale può essere una fonte per il riconoscimento dell’esistenza del Creatore e quindi una parte integrante di un culto monoteistico” (79).
L’osservazione appare assai evidente se si considera l’accoglienza che l’argomento cosmologico ha ricevuto nelle diverse culture religiose monoteistiche. Secondo l’autore, “il solo luogo all’interno della cristianità in cui il culto del Creatore basato sull’argomento cosmologico è stato sistematicamente evidenziato è la Chiesa Cattolica Romana” (80).
Naturalmente “questo non vuol suggerire che molti teologi e filosofi della Chiesa Cattolica Romana non siano stati influenzati dalle onde sempre ricorrenti di “intuizionismo” o di qualcosa di anche peggiore” (81), ma si può affermare che la solenne dichiarazione del Concilio Vaticano I “[…] sulla certezza grazie alla quale la ragione può riconoscere l’esistenza del Creatore dall’evidenza del cosmo” (82) continua a essere un insegnamento ufficiale del Magistero.
Tuttavia l’argomento cosmologico, secondo lo studioso benedettino, non costituisce solo la via più affidabile per la riconquista della nozione di Dio creatore, ma rappresenta anche un sano “allenamento mentale” (83), un’occasione per ricostituire la fiducia nell’intelletto e il bisogno di certezza, che la moderna cultura dell’assurdo si compiace di distruggere: infatti, il bagno di realismo e di concretezza cui obbliga la semplice constatazione della specificità delle cose consente all’uomo (84) di sperimentare “[…] qualcosa di molto diverso da quel salto nel buio che tentano dolorosamente coloro che non hanno mai veramente sentito l’universo, e a volte nemmeno le semplici cose comuni, sotto i loro piedi. Il movimento verso Dio, per essere sicuro, non deve essere una separazione dall’universo. Il movimento consiste piuttosto nell’avvertire la pulsazione della contingenza cosmica, il fatto che l’universo indica implacabilmente qualcosa al di là di se stesso” (85).
Tale, del resto – ricorda dom Stanley L. Jaki -, è l’esperienza di conversione che sant’Agostino riporta nel decimo libro delle Confessioni: “[…] ho chiesto del mio Dio a tutta la massa dell’universo, e mi ha risposto: “Io non sono Dio. Dio è colui che mi ha fatto”” (86).
NOTE
(1) Per un primo accostamento al tema, cfr. Massimo Introvigne, La questione della nuova religiosità. In appendice la relazione generale al Concistoro Straordinario del 1991 di S. Em. il card. Francis Arinze, Cristianità, Piacenza 1993, con bibliografia.