Fedor Michajlovic Dostoevskij

Strumenti culturali di Litterae Communionis n.2 1981

I GRANDI DELLA CULTURA MODERNA RIVISITATI

Fedor_Dostoevskij

«L’uomo è un mistero. Se per tutta la vita tu avrai cercato di risolverlo, non dire: ho perso tempo. Io mi occupo di questo mistero, perché voglio essere uomo»

Testo di Daniela Cattaneo

La sua vita

Tutta la legge dell’umana esistenza sta solo in questo: che l’uomo possa inchinarsi all’infinitamente grande.

Persuaso di dover morire quello stesso giorno, il 9 febbraio 1881, F.M. Dostoevskij si rivolse alla moglie, Anna Grigor’evna Snitkina, e, pregandola di accendere una candela, le chiese il suo Vangelo. Quel libro lo aveva accompagnato nei momenti più dolorosi e difficili della sua vita. Gli era stato regalato quando, condannato a quattro anni di lavori forzati, stava per partire per la Siberia.

«F. M, Dostoevskij – racconta la moglie – non si separò mai, durante quei quattro anni, dal Vangelo, unico libro che gli consentivano di tenere. In seguito quel libro fu sempre sul suo tavolo, ed egli, quando dubitava di qualche cosa, apriva il Vangelo e leggeva le righe che gli cadevano sotto gli occhi». Anche la mattina di quell’ultimo giorno egli volle affidarsi alla Parola del Vangelo. Il libro si aprì al capitolo III di S. Matteo: «Ma Giovanni lo trattenne e disse: io debbo essere battezzato da te non tu da me. Ma Gesù gli rispose: non trattenermi».

Rivolto alla moglie, allora egli disse: Senti, Ari]a, non trattenermi vuoi dire che debbo morire e, dopo queste parole, richiuse il Vangelo. «L’espressione del suo viso – si legge ancora nelle memorie di Anna Grigor’evna – dimostrava che il pensiero della morte non lo abbandonava e che il passaggio da questo all’altro mondo non gli faceva spavento ».

Così, con un semplice atto di fede, si concluse la vita di un uomo che, giorno dopo giorno, si era trovato a dover lottare contro il dubbio e l’incredulità in una ricerca tormentata, ma non per questo meno appassionata, dell’infinitamente grande. Il problema che tutta la vita, coscientemente o incoscientemente, mi ha tormentato è quello dell’esistenza di Dio: la storia della sua vita è la storia di questo tormento e di questa ricerca.

Nato il 30 ottobre 1821 in uno dei quartieri più poveri e tristi di Mosca, F. M. Dostoevskij venne presto a contatto con le miserie e le sofferenze della vita umana. Fino all’età di dieci anni, cioè fino a che il padre non decise di trasferirsi in campagna, egli visse con la famiglia in uno dei padiglioni dell’ospedale per indigenti, in cui il padre, medico militare, esercitava la professione di chirurgo.

In quegli anni il giardino, le corsie, i padiglioni dell’ospedale costituirono tutto il suo mondo. Fu nella proprietà di TuT, acquistata dal padre nel 1831, che Dostoevskij incominciò a conoscere il popolo russo delle campagne. Lì avvenne l’incontro con il servo della gleba Marej, di cui vent’anni dopo, in Siberia, avrebbe ricordato il dolce sorriso materno, i segni di croce, e particolarmente quel dito grosso sporco di terra col quale il buon contadino lo aveva accarezzato e benedetto.

Anche gli anni trascorsi in campagna, tuttavia non furono anni felici. La madre, Mar’ja Fèdorovna Necaeva, era una donna sensibile, intelligente e buona, che amava profondamente il marito e i figli; ma il padre, Michajl Andreevic Dostoevskij, aveva un carattere tetro, collerico e violento. Facinoroso e facile agli scoppi d’ira, egli tormentava continuamente la moglie con infondate accuse di tradimento. Verso i servi aveva un atteggiamento dispotico e tracotante, per non dire crudele.

La morte della moglie segnò l’inizio della tragedia. Michajl Andreevic, già dedito all’alcool, divenne sempre più preda di questo vizio e di tutti i suoi peggiori effetti. Finché un giorno d’estate del 1839, fu assassinato, per vendetta, dai suoi contadini. L’animo di Fedor Michajlovic risentì dolorosamente di questo dramma familiare: nell’ideazione dell’assassinio di Fèdor Pavlovic Ka-ramazov, nella raffigurazione del carattere dissoluto, avido e sfrenato di questo personaggio dostoevskijano, è riconoscibile l’eco di avvenimenti personali che avevano procurato allo scrittore, negli anni della giovinezza, dolore, turbamento e angoscia.

S_PietroburgoAll’epoca della tragedia F. M. Dostoevskij si trovava con il fratello Michajl a Pietroburgo, per frequentarvi la Scuola di Ingegneria. Il padre aveva voluto indirizzare i due figli maggiori verso una brillante carriera militare, senza tener conto delle inclinazioni artistiche e letterarie che, già da alcuni anni, si erano manifestate in loro. Pur adempiendo i suoi obblighi scolastici, Dostoevskij prese a dedicarsi con tutte le sue energie alla propria formazione letteraria. Leggeva e studiava con passione i grandi autori della letteratura russa come Puskin, Lermontov, Gogol’, Odoevskiy, Zukovskij, ma, accanto a questi, anche i grandi autori della letteratura mondiale come Byron W Scott, Balzac, V. Hugo, G. Sand, E. Sue, Hoffmann, Schiller e Shakespeare.

Terminati gli studi nel 1843, Dostoevskij ricevette un modesto incarico di ingegnere disegnatore. Un anno dopo chiese di essere congedato dal servizio, giacché soltanto una cosa egli desiderava ardentemente: studiare la vita degli uomini, servire alla sete spirituale dell’umanità. Da quel momento tutta la sua vita e la sua attività furono consacrate all’arte e alla letteratura.

Nel 1845 ultimò la stesura del suo primo racconto, Povera gente. Il manoscritto fu fatto leggere a Belinskij, uno dei maggiori e più temuti critici del tempo. Fu il successo. Belinskij lo giudicò un capolavoro che, a venticinque anni, poteva essere stato scritto soltanto da un genio. Povera gente fu salutato come il primo «romanzo sociale» russo. Ricordando il suo primo incontro con Belinskij, trentadue anni dopo Dostoevskij avrebbe scritto: Fu quello l’istante più incantevole di tutta la mia vita. Quando lo ricordavo, ai lavori forzati, mi sentivo più forte d’animo ed anche ora lo ricordo ogni volta con entusiasmo.

A Povera gente seguì Il sosia che, a differenza del primo racconto, non incontrò il favore della critica. Dal 1846, anno di pubblicazione di queste prime opere, al 1849, anno in cui lo scrittore fu arrestato e deportato in Siberia, Dostoevskij pubblicò altri nove racconti fra cui Il signor Procharcin, La padrona, Un cuor debole, L’albero di natale e lo sposalizio, Le notti bianche; alcuni feuilletons dal titolo Cronaca di Pietroburgo; le prime due parti di Netocka Nexvanovna, romanzo di grosse proporzioni che rimase tuttavia incompiuto.

L’arresto e la conseguente deportazione interruppero infatti l’attività creativa dello scrittore fino al 1854. Ma le prove e le sofferenze di quegli anni ne maturarono la fisionomia interiore, aprendo il suo animo ad una nuova, più profonda esistenziale percezione del significato della vita e della morte.

Davanti al tribunale militare Dostoevskij era giunto per aver preso parte attiva alle riunioni del circolo di Petrasevskij, circolo progressista del tempo che, ispirandosi alle idee di Fourier, propugnava un socialismo di carattere utopistico. Pur essendosi pronunciato a favore della liberazione dei contadini e della libertà di stampa e di pensiero, Dostoevskij era ben lontano dall’essere un rivoluzionario nel significato politico del termine: mai aveva desiderato un rivolgimento violento e rivoluzionario della società.

Nei suoi sogni giovanili aveva prestato fede, secondo le sue stesse parole, Alla teoria e nell’utopia; aveva sperato in un’età dell’oro, in quella che nel 1876 avrebbe poi definito come la più inverosimile di tutte le fantasticherie.

fucilazioneIl processo intentato contro gli aderenti al circolo di Petrasevskij si concluse con la condanna a morte di alcuni di loro. Fra questi vi era anche Dostoevskij. Il 22 dicembre 1849 i condannati vennero condotti sul luogo della fucilazione, ma la sentenza non venne eseguita. Quando il plotone d’esecuzione era già pronto a far fuoco, fu dato pubblico annuncio che la pena di morte, per volontà dello zar, era stata commutata in una condanna ai lavori forzati. La sera di quello stesso giorno Dostoevskij scrisse al fratello Michajl:

Fratello!

Io non sono avvilito e non mi sono perso d’animo. La vita è vita dappertutto, la vita è in noi stessi e non fuori dì noi. Accanto a me ci saranno sempre degli esseri umani ed essere uomo fra gli uomini e restarlo sempre, in nessuna sventura avvilirsi o perdersi d’animo: ecco in che cosa consiste la vita, ecco il suo compito…

Riguardandomi indietro penso quanto tempo è stato speso inutilmente, quanto ne è andato perduto in aberrazioni, errori, futilità, incapacità di vivere; per quanto l’apprezzassi, quante volte ho peccato contro il mio cuore e il mio spirito – il cuore mi sanguina. La vita è un dono, la vita è felicità, ogni minuto poteva essere un secolo di felicità… Adesso, cambiando vita rinasco in nuova forma. Fratello! Ti giuro che non perdo la speranza e conservo il mio spirito e il mio cuore puri. Rinascerò migliore. Ecco tutta la mia speranza, tutto il mio conforto!

Dopo quella terribile, tragica esperienza la speranza di rinascere a nuova vita non lo avrebbe più abbandonato. «In quel minuto in cui Dostoevskij stette sul patibolo e guardò fisso negli occhi la morte – scrive il poeta e filosofo russo Ivanov – avvenne in lui un repentino e risolutivo mutamento spirituale… In quei minuti di attesa della morte sul patibolo… la persona fu strappata con violenza da ciò che è fenomenico e percepì, per la prima volta, la sostanzialità dell’essere sotto il velo dell’apparenza delle cose».

Anche nell’abisso del peccato, del dubbio e dell’incredulità, la speranza non lo avrebbe più abbandonato. Tale speranza era radicata in una nuova, mistica percezione della realtà della vita e del mondo e costituiva tutto il suo conforto, giacché egli era dolorosamente consapevole d’essere un figlio del secolo, un figlio della miscredenza e del dubbio: … Quante terribili sofferenze – si legge in una sua lettera del 1854 – mi è costata e mi costa ora questa sete di fede, la quale è tanto più forte nell’anima mia, quanto più sono gli argomenti contrari.

E tuttavia Dio mi manda talvolta dei minuti, nei quali io sono del tutto sereno; in questi minuti io amo e trovo di essere amato dagli altri e, in questi minuti, io ho creato in me stesso il simbolo della fede, nel quale tutto mi è chiaro e sacro. Questo simbolo è molto semplice; eccolo: credere che non c’è nulla di più bello, di più profondo, di più simpatico, di più ragionevole, di più virile e perfetto di Cristo e non solo c’è, ma con geloso amore mi dico che non può non esserci.

Scontati i quattro anni di lavori forzati nella prigione di Omsk, Dostoevskij fu arruolato come soldato semplice e inviato, per un imprecisato periodo di tempo, in una remota località della Siberia, non lontana dal confine cinese. La terribile esperienza di quegli anni in cui, secondo quanto egli stesso scrisse al fratello Andrej, era stato sepolto vivo e chiuso in una tomba, aveva messo a dura prova la resistenza fisica, psichica e morale dello scrittore.

I disturbi nervosi, di cui egli aveva già sofferto in precedenza, si erano intensificati e aggravati, causandogli dei frequenti attacchi di epilessia. Ma l’isolamento, l’assoluta solitudine spirituale in cui era vissuto lo avevano indotto, lo avevano anzi costretto, a riguardare e giudicare tutta la sua vita passata fino alle più piccole minuzie, a osservare e studiare più attentamente la natura dell’uomo e quella dell’uomo russo in particolare, ad indagare la verità di un popolo che, nonostante la sua bestialità e il suo peccato, aveva saputo conservare integra in sé la capacità di guardare religiosamente al mistero della vita umana. Con un tale arricchimento in cuore, Dostoevskij fece ritorno alla vita; nel 1855 egli riprese a scrivere.

A Semilpalatinsk, la remota cittadina in cui era stato inviato, egli pose subito mano ad un romanzo dal titolo Memorie da una casa di morti, che rappresenta il frutto di quattro anni di sofferenze, privazioni e umiliazioni. Fu in quello stesso periodo che egli compose due racconti di genere farsesco: // villaggio di Stepancikovo e i suoi abitanti e // sogno dello ziuccio. Nel 1857 sposò una vedova di nome Mar’ja Dmitrevna Isaeva. Tisica ed estremamente fragile, Mar’ja Dmitrevna aveva un carattere geloso e volubile, appassionato, suscettibile e morbosamente fantastico. Ella mi amava sconfinatamente – avrebbe scritto Dostoevskij qualche tempo dopo la sua morte – io l’amavo ugualmente, non avevamo vissuto felici insieme, sebbene fossimo positivamente infelici…

Nel 1859 Dostoevskij ottenne di poter risiede a Pietroburgo. Contemporaneamente gli fu a cordato il permesso di pubblicare. Dopo un così lungo periodo di silenzio forzato, lo scrittore diede a una frenetica attività giornalistica e letteraria. Divenuto uno dei principali collaboratori della rivista politico-letteraria Il tempo, fondata da suo fratello Michajl e dal critico N. N. Strichov, Dostoevskij ne scrisse nel settembre del 18 un articolo programmatico. Tale suo articolo costituì un vero e proprio manifesto del «pocvennicestvo» (dal sostantivo «pocva» che in russo significa «suolo», «terreno»), nuovo indirizzo culturale che propugnava una conciliazione del civiltà con il principio popolare, della verità delle classi colte con la verità del popolo e che auspicava la creazione di un’idea russa, sintesi di tutte le idee che l’Europa aveva sviluppato nelle sue singole nazionalità.

Tutte le opere che Dostoevskij scrisse in quel periodo furono pubblicate nella rivista: le già citate Memorie da una casa di morti (1861-1862), il romanzo Umiliati e offesi (1862), lo scritto a carattere pubblicistico Note invernali su impressioni estive (1863) in cui lo scrittore rievocava le impressioni suscitategli dal suo primo viaggio Europa. Nel 1863, per decreto dell’autorità imperiale, venne proibita la pubblicazione de Il tempo. Ottenuta nel giro di pochi mesi l’autorizzazione pubblicare una nuova rivista, Michajl Dostoevskij fondò L’epoca, su cui apparvero le Memorie dal sottosuolo (1864), opera che costituì un punto di svolta nel processo di maturazione artistica e nello sviluppo del pensiero di Dostoevskij, scrittore.

Da una percezione sempre più acuta e sofferta della dimensione tragica dell’esistenza umana, che trovava la sua massima espressione artistica nello stato di sdoppiamento e interiore dissociazione proprio dei personaggi dostoevskijani, nacquero tutti i più grandi romanzi di Dostoevskij: da Delitto e castigo (1866) a L’idiota (1868), da I demoni (1871) a L’adolescente (1875) fino a I fratelli Karamazov (1880).

I grandi romanzi

Delitto e castigo, il romanzo che lo avrebbe reso celebre in tutto il mondo, fu pubblicato in un periodo in cui Dostoevskij era angustiato da gravi preoccupazioni di carattere finanziario. Nel 1864, pochi mesi dopo la scomparsa di Mar’ja Dmitrevna, era deceduto anche il fratello dello scrittore, Michajl. Questi aveva lasciato la famiglia in uno stato di assoluta rovina. Impegnatosi a pagare tutti i debiti del fratello, Dostoevskij si era poi trovato nell’impossibilità di far fronte a tutte le richieste dei creditori. L’assillo dei debiti non gli avrebbe più dato requie per tutta la vita.

Ai debiti del fratello si aggiunsero ben presto i debiti di giuoco. Nel 1863, durante un soggiorno all’estero, Dostoevskij aveva infatti incominciato a frequentare le sale da giuoco con un’assiduita e una passione che, col tempo, si sarebbero fatte sempre più grandi. Frutto di queste amare esperienze fu il romanzo II giocatore (1866) che Dostoevskij, per mantener fede al suo contratto con l’editore Stellovskij, scrisse in soli ventiquattro giorni. La posta in giuoco era stata alta. Allo scadere dei termini di consegna l’editore si sarebbe infatti impadronito di tutti i diritti di autore sulle opere che lo scrittore aveva pubblicato fino a quel momento. Una giovane stenografa lo aveva aiutato nell’impresa: Anna Grigor’evna Snitkina che, di lì a pochi mesi, sarebbe divenuta sua moglie.

Recatisi all’estero subito dopo il matrimonio per sfuggire ai creditori, i due sposi vi sarebbero rimasti per quattro anni e cioè dal 1867 ai 1871. Nonostante le preoccupazioni finanziarie, i sempre più frequenti attacchi di epilessia e la dolorosa perdita della figlioletta Sof’ja, questi furono anni di intensa attività creativa per lo scrittore.

In questo periodo, oltre a L’idiota, egli ideò e compose un breve racconto intitolato L’eterno marito (1870), lavorando nel frattempo a un progetto grandioso, all’idea di quello che fu da lui stesso definito come un enorme romanzo filosofìco-religioso, il cui titolo avrebbe dovuto essere dapprima L’ateismo, poi La santa vita di un grande peccatore. Mai realizzato secondo il piano originario, questo romanzo avrebbe dovuto incentrarsi sulla crisi della coscienza dell’uomo russo del XIX secolo, dell’uomo cioè che, perdendo la fede, era rimasto completamente privo di radici. Per molti loro aspetti, I demoni, L’adolescente e I fratelli Karamazov  costituirono un riflesso di questa sua idea primitiva.

Divenuto direttore responsabile del settimanale il cittadino, Dostoevskij, dopo il suo rientro in patria, incominciò a pubblicare il Diario di uno scrittore, raccolta di scritti giornalistici sugli avvenimenti politici, sociali, giudiziari e letterari del momento. Nel Diario, che dal 1876 sarebbe uscito come pubblicazione a sé, apparvero anche alcuni racconti dello scrittore fra cui La mite (1876), che A. Gide definì come «una delle cose più potenti di Dostoevskij», e II sogno di un uomo ridicolo (1877), sogno di un’età dell’oro ormai perduta e di un’età dell’oro ancora da costruire sulla immagine vivente della verità. L’ideale di un mondo felice governato dalle leggi dell’amore e della misericordia era radicato fortemente nell’animo dello scrittore. Il sogno dell’uomo ridicolo era già stato, sia pure con accenti diversi, il sogno di Stavrogin, eroe de I demoni, e di Versilov, uno dei personaggi principali de L’adolescente.

I fratelli Karamazov

karamazovAll’apice della fama e tuttavia sempre più debole a causa delle precarie condizioni di salute, Dostoevskij dedicò gli ultimi anni della sua vita a I fratelli Karamazov, «la vetta da cui a noi si schiude – scrive il Moculskij – l’unità organica di tutta la creazione dello scrittore», «l’immensa sintesi» in cui trova posto «tutto ciò che da lui è stato vissuto, meditato e creato».

I fratelli Karamazov furono questa sintesi così come, nel campo della pubblicistica, sintesi del suo pensiero sui futuri destini della Russia e dell’umanità fu il di­scorso su Puskin, che egli pronunciò a Mosca nel giugno del 1880. In quell’occasione egli lanciò un appello al suo popolo, all’uomo russo del suo tempo affinchè, nella riscoperta delle radici più profonde della tradizione, ritrovasse il significato della sua missione universale: diventare fratello di tutti gli uomini, dire la definitiva parola della grande armonia universale, dell’accordo definitivo, fraterno di tutte le razze, secondo la legge evangelica di Cristo.

Nonostante tutte le sue cadute e le sue debolezze, Dostoevskij aveva posto a fondamento della sua vita questa legge di amore e misericordia. La coscienza dell’infinitamente grande non lo aveva mai abbandonato, neppure nei momenti di buio e di incertezza. Egli aveva sempre creduto nella presenza misericordiosa di un «Padre», cui far ritorno. Ce lo testimoniano le parole che egli, in punto di morte, rivolse ai suoi figli:

Conservate una fede senza riserve in Dio e non disperate mai del Suo perdono. Io vi amo molto, ma il mio amore non è nulla in confronto all’infinito amore di Dio per tutti gli uomini da Lui creati. Se anche vi accadesse nel corso della vostra vita di compiere un’azione delittuosa, nonostante questo non perdete la speranza in Dio. Voi siete Suoi figli: sottomettetevi a Lui come a vostro padre, implorate il Suo perdono ed Egli si rallegrerà del vostro pentimento, così come Egli si rallegrò del ritorno del figliuol prodigo.

 

L’idolo sociale

S’insegna dacché mondo è mondo, ma che cosa si è insegnato di buono, perché il mondo fosse una dimora più bella e allegra e piena di ogni gioia? E dirò ancora: non hanno bellezza morale, anzi non la vogliono; tutti sono perduti, solo ciascuno loda la propria posizione, ma di rivolgersi all’unica Verità non pensa, mentre vivere senza Dio non e che tormento. E n’esce che malediciamo proprio quello che c’illumina e non lo sappiamo nemmeno. E poi, che costrutto c’è mai? Non può nemmeno esistere un uomo che non si pieghi, un uomo simile sarebbe impari a se stesso, a qualunque uomo in generale, E se rinnega Dio, si in­chinerà a un idolo di legno o d’oro, oppure immaginario. Sono tutti idolatri e non atei, ecco come bisogna chiamarli.

(Il pellegrino Makarij in L’adolescente)
Il Mistero

– Che cos’è il mistero? Tutto è mistero, amico mio, in tutto, c’è il mistero di Dio. In ogni albero, in ogni filo d’erba è racchiuso questo mistero. Se un uccellino canta, o se tutte le stelle splendono in folla di notte in cielo, è sempre lo stesso identico mistero. E il mistero più grande è in quello che aspetta l’anima dell’uomo all’altro mondo. E’ così, amico mio!   (…)

– Fai male, amico, a non pregare; è bello, il cuore si  rallegra, e prima  del sonno, e appena svegli, e destandosi la notte. Ora ti dirò una cosa. D’estate poi, nel mese di luglio, ci affrettavamo al monastero della Vergine per la festa. Quanto più ci avvicinavamo al luogo, tanta più gente si univa a noi ed alla fine ci ritrovammo quasi in duecento, tutti ansiosi di adorare le sante e integre reliquie di entrambi i grandi taumaturghi Anikji e Grigorij. Ci addormentammo, fratello, in aperta campagna, e mi destai la mattina presto. Tutti ancora dormivano e nemmeno il sole aveva fatto capolino da dietro il bosco. Adersi, mio caro, i! capo, girai intorno lo sguardo e sospirai!  Una bellezza indicibile dovunque! Tutto è quieto, l’aria è  leggera; cresce l’erba — cresci, erbetta del Signore; canta un uccellino — canta pure, uccellino del Signore; un pargolo in braccio a una donna ha vagito — il Signore sia con te, piccolo omino, cresci per essere felice, bambinello! Ed ecco che fu come se allora per la prima volta, dacché ero al  mondo, avessi racchiuso tutto ciò in me … Mi chinai di nuovo, mi addormentai così leggermente. E’ bello il mondo, caro! lo, per esempio, se mi sentissi meglio, andrei di nuovo in giro per la primavera.

E, quanto al mistero, è anzi meglio: da sgomento al cuore e meraviglia, pure anche questa paura fa allegrezza al cuore: «Tutto è in Te, Signore, e io stesso sono in Te, accoglimi!». Non mormorare, giovane, è tanto più bello che ci sia il mistero — soggiunse intenerito.

(Il pellegrino Makarij in L’adolescente)

 

La sua opera

Senza bellezza l’umanità non potrebbe vivere, poiché non ci sarebbe nulla da fare al mondo. Tutto il segreto è qui. Tutta la storia è qui

Fra i primi esperimenti artistici di Dostoevskij e l’opera della sua maturità è possibile cogliere una continuità ideale. Ci troviamo di fronte ad una medesima posizione umana, più ingenua ed inconsapevole prima, più tragicamente sofferta poi. L’uomo è un mistero – scrive Dostoevskij agli inizi della sua carriera di artista – se per tutta la vita tu avrai cercato di risolverlo, non dire: ho perso tempo. Io mi occupo di questo mistero, perché voglio essere uomo.

Svelare il mistero dell’uomo è il compito che Dostoevskij si prefigge per essere veramente uomo e per questo, fin dagli inizi, è il suo primo interesse, la sua prima occupazione. Il suo cammino e la sua attività di artista si collocano esattamente a questo livello, come risposta a ciò che egli sente essere la sua vocazione umana, adempimento di una missione cui egli fino alla fine si sentirà chiamato.

Con pieno realismo trovare l’uomo nell’uomo… – scriverà lo scrittore già affermato, pochi mesi prima della morte – Mi chiamano psicologo; non è vero, io sono soltanto realista nel senso più alto, cioè raffiguro tutte le profondità dell’animo umano. L’arte di Dostoevskij si caratterizza come un realismo teso a cogliere e rappresentare la realtà della vita nelle sue dimensioni più profonde, nei suoi fondamenti ultimi, nella sua relazione con la realtà assoluta ed eterna della vita divina.

Nei primi racconti Dostoevskij rivela tutta la sua profonda umanità. Egli volge uno sguardo pieno di compassione agli uomini dimenticati, umiliati e offesi, uomini calpestati dalla vita, schiacciati dalle inquità del mondo. Narrandone le vicende dolorose, egli si fa interprete della loro intima sofferenza. .Si concentra sul mondo interiore di questa umanità infelice, umanità che, sotto le forme più degradanti e paradossali, conserva tuttavia una sua dignità, una sua consapevolezza morale ed esistenzale. Povera gente è tutto questo.

il sosiaE’ la storia di due vite senza speranza: un cuore d’impiegatuccio, onesto e puro, morale e devoto all’autorità; ed insieme ad esso una fanciulla, offesa dalla vita e triste. Ne Il sosia, il suo secondo racconto, lo sguardo dell’artista si fa più penetrante. Egli non giunge più solo a comprendere e rappresentare l’intima sofferenza dell’uomo, ma si spinge a ricercarne le motivazioni ultime. Ciò che rende infelice il destino dell’uomo non sono più soltanto le condizioni esteriori, sociali della vita, ma qualcosa di intrinseco, di connaturale all’esistenza stessa dell’uomo, qualcosa di terribile e di tragico.

E’ infatti ne Il sosia che Dostoevskij per la prima volta rivela e analizza il dualismo tragico della natura umana, raffigurando artisticamente quello che costituirà il tratto caratteristico di tutti i suoi più grandi personaggi: lo stato di divisione, di autentica dissociazione dell’animo e della coscienza umani. Il  racconto narra la storia della pazzia del Signor Goljadkin, un modesto, inoffensivo impiegato che, rendendosi conto di quale ruolo insignificante rivesta la sua persona nell’ingranaggio della vita, prova un sentimento di angoscia e di terrore al pensiero che la sua personalità possa essere totalmente annullata.

Per affermare la sua identità, egli si chiude allora in un suo mondo fatto di solitudine; per difendere il suo diritto alla vita, egli si isola dalla vita degli altri. Da questa condizione di paura e di estraneità prende avvio il processo che conduce il signor Goljadkin alla pazzia, allo sdoppiamento della sua personalità: davanti a lui sorge l’immagine di un sosia, incarnazione vivente di tutto ciò che di meschino e di ignobile si cela nel suo animo, un altro perfettamente simile e, per la depravazione del cuore, ripugnante signor Goljadkin.

Il tema della pazzia dell’eroe sarà ripreso ne Il signor Procharcin, ma ciò che più conta è che Il problema dell’identità dell’«io» e della definizione della persona nel suo rapporto con la vita e la realtà del mondo continuerà ad essere il perno attorno a cui Dostoevskij costruirà tutte le sue opere successive.

Nel racconto La padrona questo problema è affrontato da un punto di vista nuovo rispetto ai racconti precedenti: qui Dostoevskij per la prima volta delinea il tipo del so-gnatore pietroburghese che, per sfuggire alla volgarità e banalità di un mondo spesso dominato da interessi meschini, si rifugia in un suo mondo di sogni e visioni deliranti, finendo per diventare non uomo, ma un certo strano essere di genere neutro.

Dopo Ordynov, il protagonista de La padrona (figura di intellettuale squattrinato che, divorato da una profonda ed insaziabile passione per la scienza, rivela nella sua misantropia, nella selvatichezza e nella debolezza di cuore una radicale estraneità alla vita), saranno altri personaggi ad incarnare, sia pure in forme diverse, questo tipo d’uomo incline alle fantasticherie e ai sogni: dal protagonista de Le notti bianche a Vanja, eroe di Umiliati e offesi, dall’uomo del sottosuolo a Raskol’nikov, protagonista di Delitto e castigo, fino a L’adolescente e a tanti altri personaggi che Dostoevskij ha raffigurato nei suoi romanzi maggiori.

Nel protagonista de Le memorie del sottosuolo la crisi di identità si manifesta come affermazione esasperata del proprio libero ed autonomo volere. Il racconto si divide in due parti: nella prima, sotto forma di monologo il protagonista presenta se stesso e il suo punto di vista, esponendo la filosofia della vita che egli si è costruito in vent’anni di sottosuolo, egli racconta alcuni avvenimenti della sua vita e, in particolare la storia dell’offesa da lui arrecata a Liza, una fanciulla che, nella sua depravazione, aveva tuttavia conservato tutta la sua purezza e dignità interiore.

L’uomo del sottosuolo è un uomo dalla coscienza ipertrofica che, nella consapevolezza di tutta la sua nullità, di tutta la sua tragica inconsistenza – non seppi diventare niente del tutto: né cattivo né buono, né furfante né onesto, né eroe né insetto -, afferma il suo incontestabile diritto ad essere tale. Nel suo freddo e disperato stato di mezza disperazione e mezza fede, egli vuole essere libero di amare alla follia anche la distruzione e il caos, qualunque cosa questa libertà gli possa costare, ed è per questo che non può risolversi ad accettare nessuna legge, nessun principio razionale o morale, nessun palazzo di cristallo costruito sull’utopia) sogno dell’uomo di pervenire, con l’ausilio della sola ragione, ad una formula perfetta di ordinamento della società umana.

La difesa dell’illimitata libertà del singolo individuo conduce il protagonista di Delitto e castigo a compiere un crimine. La logica di questo delitto è abnorme: traendo le conseguenze ultime della filosofia del sottosuolo, Raskol’nikov, come sottolinea il filosofo russo Bercijaev, con questo suo atto «mette a prova i confini della propria natura e, in generale, della natura umana».

La ricerca di una piena realizzazione della propria persona degenera in un rifiuto della propria condizione umana: Raskol’nikov uccide per diventare un Napoleone, per sentirsi non un pidocchio come lutti, ma un uomo, un uomo tuttavia con degli attributi particolari, attributi che appartengono soltanto alla natura di Dio.

attoriIl protagonista di Delitto e castigo è un giovane studente che, lasciata l’università per mancanza di mezzi, vive in estrema miseria, abbandonandosi ad un’idea che diventa ben presto l’ossessione della sua vita: uccidere una vecchia usuraia avida, la cui esistenza gli appare priva di ogni utilità, di ogni valore. La sua tragedia si consuma tutta nell’ideazione, nella realizzazione, nella confessione e nell’espiazione di questo delitto, la cui motivazione teorica – diventare un Napoleone – è sorretta da una serie di motivazioni pratiche e contingenti: derubare la vecchia e, con il suo denaro, assicurare una vita finalmente felice alla madre, che per lui si è sempre sacrificata, e alla sorella, che per amor suo ha deciso di accondiscendere ad un matrimonio di convenienza; finire l’università, andarsene all’estero e diventare un benefattore dell’umanità.

La salvezza di Raskol’nikov si compirà attraverso l’espiazione del delitto, cioè percorrendo una strada di sofferenza, innanzi tutto inferiore, che lo porterà a riconoscere quel principio di unità mistica dell’essere che egli ha calpestato e violato con il suo crimine. Strumento della sua redenzione è Sonja, una giovane fanciulla che, per sfamare il padre alcolizzato, la madre tisica e tutti i suoi fratelli, si è data alla prostituzione.

La coscienza di Sonja è pura, come puro è il suo sguar do sulle cose. Se pecca, ha coscienza del suo peccato, provandone un dolore profondo, in un anelito di redenzione che passa attraverso una sofferta accettazione del suo destino e, incontrando Raskol’nikov, attraverso il sacrificio a lui della sua stessa vita. L’amore di Sonja risveglia in Raskol’nikov quel sentimento di moralità che è insito nella natura stessa dell’uomo e che permane nell’animo del delinquente, tanto da fargli desiderare di essere punito per il suo delitto.

L’idea che sia il delinquente stesso ad esigere dal punto di vista morale la sua punizione anche giuridica, secondo quanto afferma Dostoevskij stesso in una lettera, è sviluppata in Delitto e castigo sulla base di osservazioni da lui compiute personalmente durante i quattro anni di lavori forzati. Qui si rivela il legame di Delitto e castigo con Memorie da una casa di morti, l’opera di Dostoevskij in cui più palesemente si manifesta la sua profonda conoscenza dell’umanità dei reietti. Credimi – egli scrive al fratello – vi sono caratteri profondi, -forti, bellissimi e fu molto piacevole cercare l’oro sotto la rozza scorza.

Cercando questo oro, Dostoevskij da vita al suo realismo: Delitto e castigo non è un semplice racconto della meccanica di un delitto e neppure una analisi della psicologia di un delinquente, pia la raffigurazione dei moti più interiori della coscienza umana posta di fronte al dilemma della sua contraddittoria esistenza.

La lacerazione, la dicotomia in cui si dibatte la coscienza umana vengono messe a nudo da Dostoevskij in quelli che, nella sua opera, rappresentano i momenti di più elevata e sofferta tragicità: sono questi i monologhi interiori dei personaggi, le loro confessioni, le loro autoaccuse, resi artisticamente sotto forma di veri e propri monologhi-confessioni, come nel caso dell’uomo del sottosuolo, o sotto forma di visioni e deliranti sogni, come nel caso di Raskol’nikov.

In questi momenti di più intensa verità, in cui l’uomo si ritrova solo davanti a se stesso, la lotta fra i due contraddittori principi operanti nella natura umana, il principio divino e quello demoniaco, si fa più serrata. L’uomo del sottosuolo, sognatore deluso, con la sua psicologia da topo offeso, battuto, deriso e la cattiveria con cui vuole vendicarsi di tutti i torti subiti, prende coscienza di tutta la demonicità del suo essere.

Perché un’inerzia tenebrosa ha infranto ciò che avevo di più caro? – grida il protagonista della novella La mite davanti al cadavere suicida della moglie, ed egli sa che è stata l’inerzia tenebrosa della sua anima, chiusa in una tetra e altera solitudine, a spingere la mite al suicidio. L’inerzia dell’uomo che non combatte contro la demonicità del suo essere conduce l’uomo stesso alla disperazione, alla rottura di tutti i suoi legami più cari, quei legami di unità che facevano di lui un uomo vivo.

Gli uomini sono soli sulla terra – egli grida ancora ecco il male!… Tutto è morto e dappertutto non ci sono che morti. Soltanto uomini e intorno a loro il silenzio; ecco la terra! «Uomini, amatevi l’un l’altro»: chi disse questo? di chi è questo precetto? Batte il pendolo, insensibile, odioso. Le due di notte. Le sue piccole scarpe sono accanto al letto, sembra che l’aspettino… No, sul serio, quando domani la porteranno via, che mai farò?.

La crisi della coscienza dell’uomo del sottosuolo è una crisi religiosa e, più propriamente, la crisi religiosa dell’uomo russo-europeo del XIX secolo. Da Delitto e castigo in poi si fa più approfondita e palese la analisi della crisi della coscienza umana nella sua dimensione sociale e culturale. Nel romanzo Il giocatore, il cui soggetto è la vita dei russi all’estero cólta in un’atmosfera particolare, quella delle case da giuoco europee, traspare la povertà spirituale di una società che si è estraniata dalle radici religiose della sua cultura.

Così, nel romanzo successivo a Delitto e castigo, L’idiota, appaiono considerazioni sul liberalismo, quale fenomeno culturale incapace di indirizzare la società verso un’autentico sviluppo della vita umana. Come sarà anche ne L’adolescente, la sete di potere dell’uomo della nuova generazione, espressione della perdita della fede in Dio, si manifesta in particolare nella sua avidità di denaro. Pazzi, vanitosi! – grida Lizaveta Prokof’evna, uno dei personaggi femminili de L’idiota, parlando degli uomini progressisti del suo tempo – Non credono in Dio, non credono in Cristo! Siete tanto vanitosi, l’orgoglio vi ha tanto corroso le anime, che finirete per divorarvi a vicenda.

Contrapposta a tutto questo mondo di prepotenze, scandali e caos morale è, ne L’idiota, la figura del principe Myskin. In lui Dostoevskij vuole rappresentare un uomo positivamente buono. Questo – scrive Dostoevskij – è compito smisurato. Il bello è un ideale, ma l’ideale non è nostro, né la civile Europa l’ha minimamente elaborato. Nel mondo c’è una persona positivamente buonaCristo, così che l’apparizione di quest’uomo smisuratamente, sconfinatamente buono è naturalmente un miracolo sconfinato.

Nell’epilettico, idiota, Myskin la figura di Cristo, incarnazione ideale e perfetta della Bellezza, è ancora solo adombrata. Ma la sua personalità, nonostante vivano ancora in lui dei doppi pensieri, irradia Lina forza di luce interiore che attira a sé tutti coloro con cui egli entra in rapporto. Nonostante permangano in lui la duplicità e la debolezza insite nella natura dell’uomo, per la sua sconfinata capacità di contemplazione All’infinitamente grande Myskin vive un’esperienza di unità interiore tanto profonda e vera, da costituire una fonte inesauribile di calma suprema. In questa esperienza il suo cuore si spalanca alla compassione verso tutti, giacché la compassione è la più importante e forse l’unica legge di vita di tutta l’umanità. E la sua compassione che per le sofferenze di chi gli è accanto è infinita.

Egli scambia le croci della fratellanza con Rogozin, dispodendosi a farsi carico del doloroso destino che attende l’amico. Dopo che Rogozin tenta di ucciderlo, Myskin riconosce in questo suo atto un nostro peccato comune. Rogozin ucciderà Nastasja Filippovna, la donna per cui egli prova un sentimento d’amore torbido e perverso, e Myskin precipiterà insieme con lui nella follia.

I demoniIn questa intricata storia di amori e passioni, Myskin sa penetrare a fondo nell’animo di ciascun personaggio, cogliendone tutta l’interiore tragica lacerazione, fino ad accorgersi di tutto ciò che agli altri sfugge. Il problema di tutti, sotto la folla di problemi da cui tutti gli animi appaiono più immediatamente afferrati, è quello dell’esistenza o non esistenza di Dio, quello del riconoscimento, non solo a livello intellettuale, ma anche e soprattutto a livello esistenziale, della realtà di Dio.

Questo è il problema che tormenterà indistentamente tutti i personaggi de I demoni. Il caos, la demonicità della loro vita si comprende sullo sfondo di questo tormento irrisolto. Tema del romanzo è l’attività clandestina del movimento rivoluzionario sorto in Russia nella seconda metà del secolo XIX. Ma l’emergere di questo movimento è guardato nel romanzo come un dramma innanzi tutto religioso, come la lotta della fede contro l’ateismo.

Frutto dello spirito nichilista, cioè di quello spirito che è stato definito dal filosofo russo Frank come «la disposizione tendente ad eternare ed assolutizzare “l’umano, il troppo umano”», la rivoluzione non si risolve per Dostoevskij in un compito politico, ma ha un ben definito risvolto spirituale: la negazione di Dio da un lato e l’affermazione dell’assoluto, indiscriminato potere dell’uomo dall’altro, poiché è una assurdità insopportabile per l’uomo capire che non c’è Dio e non capire nello stesso momento d’essere diventato tu stesso un dio.

In Stavrogin, la figura centrale del romanzo, si vede attuato in modo macroscopico il processo di distruzione di una personalità, il cui sentimento di moralità è stato soffocato da una razionalità smisurata. La sua capacità di vivere risulta come paralizzata; e difatti, nel romanzo, egli non appare come una persona viva, ma come una maschera, indifferente sia al bene che al male, da cui non è uscita che la negazione, senza nessuna magnanimità e nessuna forza, da cui non è uscita, anzi, nemmeno la negazione, giacché tutto in lui è sempre minuto e fiacco.

Attorno a lui ruotano tutti gli altri personaggi, che appaiono come dei riflessi, quasi dei frammenti, della sua anima divisa. Seducendoli con idee diverse e spesso opposte fra loro, Stavrogin non fa che manifestare l’inconsistenza assoluta della sua persona. Tutti possono identificarsi in lui, perché tutto in lui è astratto; egli vive di idee astratte, in cui crede e, netto stesso tempo, non crede.

Unica fra la folla di figure che lo circondano a non lasciarsi ingannare dalla maschera di Stavrogin è Mar’ja Timofeevna Lebjadkina, la zoppa idiota che, per la innata capacità di contemplazione interiore, ha una percezione intuitiva, ancora quasi pagana, eppure reale, esistenziale, vera, della misteriosa presenza di Dio nell’universo creato. La fede della zoppino nella gran madre terra, speranza del genere umano è preludio alla fede cristiana che si incarnerà in figure come quella del pellegrino Makarij ne L’adolescente, dello starec Zosima o del novizio Alësa ne / fratelli Karamazov.

Nel romanzo L’adolescente la figura del pellegrino Makarij si erge a simbolo di una realtà, quella del popolo russo ortodosso, che per le profonde radici religiose della sua cultura, si contrappone alla realtà divisa, caotica, causale dell’intelligencija russa progressista. Nell’ampio quadro che Dostoevskij dipinge della realtà sociale del suo tempo, la vita dell’uomo in tutti i suoi aspetti, individuale, familiare e sociale, appare dominata da questo sentimento di causalità, di indeterminatezza, di sconnessione. Così accade anche alla vita dell’adolescente.

Nello scontro quotidiano con la realtà, egli scopre quale biunivoca e terribile corrispondenza esista fra le contraddizioni, cui egli stesso si sente oggetto – io sono un mìsero adolescente, e non so io stesso sempre che cosa sia bene e che cosa sia male – e le contraddizioni ancora irrisolte, cui sono soggette le figure enigmatiche di adulti, prima fra tutte quella del padre Versilov, che gli è capitato di incontrare nel breve, ma già tormentato corso della sua esistenza.

Solo nel pellegrino Makarij l’adolescente trova qualcosa che gli era prima sconosciuto, qualcosa di perfettamente nuovo per lui: in quell’essere del popolo, come egli lo definisce, c’era la letizia del cuore e perciò anche «la bellezza morale».

Ne I Fratelli Karamazov alla brama di bellezza morale,che è sete d’infinito, sdi assoluto,di eterno, si contrappone l’istinto carnale, passionale, tutto terreno e sensuale dei Karamazov. La bellezza diviene così una cosa terribile e paurosa. Paurosa, perché è indefinibile, e definirla non si può perché Dio non ci ha dato che enigmi. Qui le due rive si uniscono, qui tutte le contraddizioni coesistono… La cosa paurosa è che la bellezza non solo è terribile, ma è anche un mistero. E’ qui che Satana lotta con Dio, e il loro campo di battaglia è il cuore degli uomini. La Bellezza è nella santità.

La Bellezza già vive nell’immensità del cuore dell’uomo, ma l’uomo, che ancora vive dentro le strette pareti della sua meschinità, della sua abiezione, della sua strutturale limitatezza, continuamente ne profana e ne calpesta l’immagine. C’è forse bellezza nell’ideale di Sodoma? – eppure, proprio nell’ideale di Sodoma la trova l’enorme maggioranza degli uomini. Questo è il più grande tormento della vita umana. Anche per l’animo più forte è insopportabile che un uomo, magari di cuore nobilissimo e mente elevata, cominci con l’ideale della Madonna e finisca con l’ideale di Sodoma, insopportabile che l’animo umano sia così immenso, che in un cuore da angelo continui ad insinuarsi il verme della voluttà, che, anelando all’infinito, l’uomo continui a precipitare nell’abisso della più umiliante vergogna. Insopportabile è tutto questo per l’uomo che non conosce la misericordia di Dio, per l’uomo che, ribellandosi a Dio, confida soltanto nelle sue forze, per l’uomo dallo spirito euclideo che non conosce altre misure all’infuori di quella che la ragione stessa gli detta.

La rivolta dell’uomo contro Dio e la ricerca appassionata di Lui: fra questi due poli, entro cui scorre l’esistenza umana, si costruisce tutta la trama, la storia, il contenuto dell’ultima grande fatica, dell’ultima grande opera che Dostoevskij ha donato all’umanità:  I fratelli Karamazov.

Questo romanzo, come scrive il Moculskij, «si schiude davanti a noi come una biografia spirituale dell’autore e una sua confessione artistica. Ma, trasformata in opera d’arte, la storia della personalità di Dostoevskij diventa la storia della personalità umana in generale. Scompare il casuale e l’individuale, compare l’universale che abbraccia tutta l’umanità. Nel destino dei fratelli Karamazov, ognuno di noi riconosce il suo destino ». La storia di ognuno di loro, che si compenetra e si fonde con la storia degli altri, formando « un’unità spirituale», è la storia di ognuno di noi.

La figura di Ivan è caratterizzata da un esasperato razionalismo, che determina ogni atto della sua coscienza. Egli restituisce il suo biglietto a Dio, poiché la sua ragione non può risolversi ad ammettere ed accettare la disarmonia, che ancora regna nel mondo di Dio. La sua rivolta è la rivolta del Grande Inquisitore che, dopo essere insorto contro Dio in nome dell’uomo, formula un sistema di ordinamento del mondo basato sulla negazione della libertà e dignità umane.

Lussuria e passionalità definiscono il personaggio di Dmitrij, così che egli ama la depravazione e la depravazione più ignobile. Non giudicarmi – egli grida a Dio – perché io stesso mi sono condannato: non giudicarmi perché Ti amo! Sono abietto, ma Ti amo; se mi manderai all’inferno anche là Ti amerò e di là griderò che Ti amo per l’eternità… Ma lasciami amare fino all’ultimo… Dmitrij ama Dio, ma come Dio e forse più di Dio, egli ama il suo fango, il suo puzzo, la sua abiezione e la sua viltà. Si riscatterà, accettando un destino di sofferenza, consapevole che solo la sofferenza può ricondurlo là dove il suo spirito anela ad essere.

Per la purezza dell’amore racchiuso nel suo giovane cuore. Alësa, il cherubino, tende all’ideale in modo esclusivo fino all’oblio di tutto e di tutti. Nella sua giovanile esaltazione, egli resta ferito e scosso nella sua fede di fronte al lezzo della putrefazione che si sprigiona dal corpo del suo amato, santo, starec, giacché una suprema giustizia è stata, secondo lui, offesa. Proprio da questa esperienza egli uscirà temprato per sempre, pronto a lottare e ad andare a vivere nel mondo, per adempiere la sua missione in mezzo agli uomini.

La storia di Ivan, di Dmitrij, di Alësa e di tutti gli altri personaggi del romanzo è la storia del cammino dell’uomo verso il possesso definitivo del suo destino. Nella figura di Alësa, così come in quella dello starec Zosima, questo cammino si fa luminoso, tanto da non temere più l’ombra del peccato, né quella della morte. Al di sopra di tutto infatti ecco, è la verità divina, che da la gioia, la pace, e tutto perdona.

Cieli e terra nuovi

Secondo la mia povera intelligenza terrena, euclidea, so soltanto che la sofferenza esiste e che i colpevoli non esistono, che ogni cosa infatti, deriva semplicemente e direttamente da un’altra, che tutto scorre e tutto si equilibra, ma queste non seno che sciocchezze, euclidee, lo so bene e non posso accontentarmi di vivere in base a simili sciocchezze. Cosa mi importa che non esistano colpevoli, che ogni cosa derivi semplicemente e direttamente da un’altra, e che io lo sappia, io ho bisogno di un compenso se no mi distruggo e di un compenso non nell’infinito, astratto, chissà dove e chissà quando, ma qui, sulla terra e voglio vederlo coi miei occhi.

Io ho creduto e perciò voglio vedere anch’io e se allora sarò già morto, mi devono resuscitare perché se tutto accadesse senza di me, sarebbe una cosa avvilente, sarebbe la distruzione di tutto. Non ho sofferto per concimare con le mie colpe e le mie sofferenze una armonia futura in favore di chissà chi. Voglio vederlo coi miei occhi il daino che gioca accanto al leone e l’ucciso che si rialza e abbraccia l’uccisore, voglio esserci anch’io quando tutti sapranno finalmente perché le cose sono andate così.

(da / fratelli Karamazov)

 

La nostra gioventù
Ho proprio la segreta convinzione che fa nostra gioventù soffra e languisca da noi proprio per mancanza di fini elevati nella vita. Ne-lle nostre famiglie non si fa quasi cenno a fini elevati nella vita e quanti all’idea dell’immortalità non solo in gene­rale non ci si pensa, ma abbastanza spesso la si considera ironicamente, in presenza dei ragazzi, fin dall’infanzia e forse addirittura a scopo educativo.
«Ma da noi la famiglia non esiste per nulla» mi faceva osservare di recente uno dei nostri più dotati scrittori. Da certi punti di vista è anche vero; dato il nostro generale indifferentismo per i fini elevati della vita, può darsi benissimo che in certi strati della nazione abbia cominciato a essere scossa anche la famiglia. In ogni modo, è del tutto chiaro che la nostra giovane generazione è condannata a cercarsi ideali propri e fini elevati di vita propri. Ma è terribile che la gioventù sia così isolata e abbandonata alle proprie forze.
E’ una questione molto importante nell’attuale mo­mento della nostra vita. La nostra gioventù si trova in una situazione tale che non trova in nulla accenni a un senso superiore della vita. Dai nostri sapientoni e in generale dalle sue guide, la gioventù del nostro tempo può tutt’al più prendere a prestito una concezione satirica, ma niente di positvo in cui credere, a cui portar rispetto, qualcosa da adorare, a cui aspirare; e intanto tutto ciò è così necessario per la gioventù, di ciò sol­tanto essa ha sete, ha avuto sempre sete nei secoli e ovunque!
(da Diario di uno scrittore, Dicembre 1876)

DALLA RIVOLUZIONE NICHILISTA ALLA RESURREZIONE DEI MORTI 

di Carlo Giannetto

La grandezza della vita e dell’opera di Dostoev-skij sono oggi universalmente riconosciute. Scopo di queste note non è dunque quello di sottolinearne un’ennesima volta i pregi, quanto piuttosto il tentativo di invitare attraverso i testi dell’autore a una lettura che sia esperienza d’autentico incontro con l’opera d’un artista che di sé avrebbe potuto dire, come fa uno dei suoi personaggi: «Dio mi ha tormentato tutta la vita» (in I taccuini].

Questa osservazione di O. Clément illumina la stretta connessione tra la ricerca lunga e tormentata d’una qualsiasi fede primaria in un socialismo utopistico, (pagata da Dostoevskij con la condanna a morte e la deportazione) e l’emergere dell’eterna domanda sul proprio destino; ricerca questa che troverà la strada della fede rivelata solo nell’ultimo dei grandi romanzi, che segnano la sua maturità di uomo e d’artista, / fratelli Karamazov.

Dostoevskij deve la sua enorme popolarità di critica e di pubblico anche all’estrema complessità della sua opera, che ha reso possibile le interpretazioni più opposte. Si cercherà ora di esaminare quest’ambiguità attraverso il concetto di mistero.

Solo Bernanos forse ha dato tanta potenza e felicità creativa agli eroi negativi e alle forze del male. Anche il lettore più sprovveduto e casuale sarà colpito dalla potenza, quasi ispirata, delle argomentazioni ateistiche di Ivan Karamazov. Il mistero del nostro destino viene qui concepito nichilisticamente: «II Cristo stesso non ha trovato nulla dopo la sua croce». Un altro personaggio ne L’adolescente dirà «II tempo non serve a nulla». Al termine della sua grandiosa requisitoria sul rifiuto di accettare il dolore nei bambini, Ivan «restituisce il biglietto d’invito» e rifiuta la fede.

La grandezza di Dostoevskij e la sua fecondità per noi lettori d’oggi sta nel fatto ch’egli proprio nei suoi personaggi demoniaci, mantiene chiara la coscienza che l’uomo non può dire impunemente no a Dio, suo Destino. Infatti Ivan impazzisce, Svidrigailov e Stavrogin si uccidono perché se nessuno è colpevole, è anche vero che nessuno ti perdona. Allora anche l’incontro di Stravrogin con il santo monaco Tichon — / demoni — come il fidanzamento di Svidrigailov — in Delitto e Castigo — invece che in salvezza si tramutano in occasione di condanna.

Infatti è l’incontro con le varie forme di santità che provoca nei personaggi negativi di Dostoevskij un giudizio sulla loro vita. La purezza di Alèscia fa dire alla dissoluta e avara Gruscenka «Egli mi ha rovesciato il cuore». L’incontro col Destino, se accolto, cambia la vita. Famoso meritatamente il celebre episodio della prostituta Sonia che legge a un assassino, Raskolnikov, il Vangelo della resurrezione di Lazzaro e con la sua fede sincera provoca il suo pentimento. Si pensi, a ulteriore prova di quanto detto, sull’inscindibile legame d’una specie di trinità narrativa — mistero, destino, nulla — (i suicidi di Stavrogin, Svidrigailov, Kirillov); al caso positivo della conversione di Stefan Trofimovich I Demoni), figura moralmente deprecabile, eppure così grande nell’oggettività religiosa di questa sua affermazione: «Dio mi è necessario perché egli è la sola realtà che si possa amare eternamente».

Qualche critico ha giustamente osservato che i buoni troppo spesso in Dostoevskij fanno discorsi sentimentali e inconcludenti. La stessa figura di Alëscia convince il lettore solo nel celebre episodio conclusivo de / fratelli Karamazov dove finalmente la fede diventa luogo dell’altra vita. L’ambiguità teologica di certi esiti specie ne L’idiota e nello stesso / Demoni, già rilevata tra gli altri con chiarezza persuasiva dal De Lubac nulla toglie, anzi avvalora l’utilità di guida al lettore della trinità interpretativa mistero-destino-nulla. De Lubac si riferisce allo sviluppo della figura di Cristo ne L’idiota, data dalla quale è assente la potenza della Grazia divina e la cui bellezza è intesa in modo già decadente, come umanità esangue ed impotente di fronte al male, tanto che il principe Myskin non impedisce il delitto di Rogozin.

Resta ora da specificare come la tensione verso il mistero e il destino ultimo dell’uomo si traduca in Dostoevskij in moralità che giudica, limpida, tagliente e sicura, tutte le idolatrie sia teistiche (vedi le frequenti polemiche stringenti e vittoriose di Ivan e del protagonista delle Memorie del sottosuolo contro l’illuminismo), sia con forza ancor più attuale contro l’ateismo e il progressismo, sia umanitari che terroristici.

Efficace e profetica la forza di polemica non tanto e non solo antiromana, ma anche e soprattutto anti-totalitaria della leggenda del Grande Inquisitore. L’ateismo di stampo socialista, al pari di ogni altro sforzo di costruire una società presuntuosamente perfetta conduce inevitabilmente ad una torre di Babele, una realtà umana ridotta ad un formicaio («Se Dio non c’è, tutto è permesso»).

Affinchè il lettore non si perda nell’immensità dell’opera di Dostoevskij occorre rivelarne un’ultima chiave di lettura emergente dal destino dei suor personaggi. Si tratta dell’estremo realismo dell’altra vita, della bellezza e della grazia della santità, che comincia qui e si realizza in un al di là, nient’affatto vago ed esangue, ma trasfigurato in letizia: «… E’ vero forse, quanto dice la religione, che noi risorgeremo dai morti e ci rivedremo gli uni gli altri?» «Certo, noi risorgeremo e ci rivedremo, ci racconteremo gioiosamente quello che ci è accaduto» (finale de / Fratelli Karamazov}. In questo senso la santità per Dostoevskij corrisponde a quella bellezza che — come lui stesso ha scritto — salverà il mondo.

Rapporto col Destino

Da principio, proprio agli inizi, sì, mi sentivo attirato e provavo una grande inquietudine. Pensavo sempre quale sarebbe stata la mia vita; volevo scrutare il mio destino e in certi momenti specialmente ero inquieto. Voi lo sapete, ci sono di questi momenti, specie quando si è soli. Là da noi c’era una cascatella che scendeva dall’alto d’un monte come un filo sottile, quasi perpendicolarmente: candida, rumorosa, spumeggiante; cadeva dall’alto, ma pareva abbastanza in basso, era a una mezza versta e pareva a cinquanta passi.

La notte mi piaceva ascoltare il frastuono; ed ecco, In quei momenti, giungevo talvolta a un punto di grande inquietudine. La stessa cosa mi accadeva talora a mezzogiorno, quando andavo in qualche posto sui monti e mi trovavo solo in mezzo alla montagna, e all’intorno c’erano antichi pini, grandi e resinosi; in alto, su una roccia, le rovine di un vecchio castello medioevale; il nostro villaggio appena visibile lontano, in basso; il sole splendente, il cielo azzurro, e un silenzio pauroso.

Ecco, in quei momenti, mi sentivo chiamato sempre non so dove, e mi pareva che, se fossi andato sempre diritto, se fossi andato a lungo, a lungo, e avessi oltrepassato quella lìnea, proprio quella linea dove il cielo si incontra con la terra, là avrei trovato la chiave dell’enigma e avrei subito veduto una nuova vita mille volte più intensa e tumultuosa che da noi; sognavo sempre una grande città come Napoli, in cui c’erano palazzi, chiasso, frastuono, vita … Sì, erano forse poche le cose che sognavo? Ma poi mi parve che sì potesse trovare una vita Immensa anche in una prigione.

(Il principe Miskin in L’idiota)

 

Presenza riconosciuta

Scese rapidamente la scala esterna. La sua anima colma di gioia aveva bisogno di libertà, di spazio, di vastità. Sopra di lui, a perdita d’occhio, si spalancò l’immensa volta celeste, piena di quiete stelle scintillanti. Dallo zenit all’orizzonte si stendeva in due strisce la via lattea, ancora indistinta; una notte fresca e calma fino all’immobilità avvolgeva la terra. Le bianche guglie della basilica e le sue cupole dorate luccicavano in un cielo zaffiro.

I magnifici fiori autunnali delle aiuole attorno alla casa si erano addormentati, in attesa del mattino. La pace della terra sembrava si fon­desse con la pace del cielo, e il mistero della terra si riallacciava a quello delle stelle … Alésa era in piedi e guardava. A un tratto, come se l’avessero falciato, si gettò con la faccia a terra.

Non sapeva nemmeno lui perché abbracciasse la terra, non si rendeva conto del perché avesse tanto desiderio di baciarla, di baciarla tutta, ma la baciava, piangendo, singhiozzando, la bagnava delle sue lacrime, e nella sua esalazione giurava di amarla, di amarla, di amarla teneramente. «Bagna la terra con le tue lacrime di gioia, e amale, queste tue lacrime…» gli riecheggiò nell’anima. Perché piangeva?

Oh, nella sua ebrezza egli piangeva perfino al pensiero di tutte quelle stelle che risplendevano per lui dall’infinito, e «non si vergognava di questa sua esaltazione». Pareva che i fili di tutti quegli innumerevoli mondi divini si fossero ricongiunti insieme nella sua anima, e l’anima era tutta un palpito a quel.«contatto con altri mondi». Egli voleva perdonare tutti e tutto, e chiedere perdono, oh, non per sé, ma per tutti e di tutto! «Per me lo chiederanno gli altri», riudì dentro di sé come in un’eco.

Di attimo in attimo sempre più distintamente e quasi tangibilmente, sentiva che gli entrava nell’anima qualcosa di certo e di incrollabile come quella volta celeste. Un’idea pareva si stesse impadronendo del suo spirito, e ormai per tutta la vita e per tutta l’eternità. Quando era caduto con la faccia a terra era un debole ragazzo, ma quando si rialzò era un uomo pronto a lottare, temprato per sempre, e lo sentì subito, ne ebbe coscienza proprio in quel momento di gioia. E mai, mai, finché visse, Alésa potè dimenticare quel momento! «Qualcuno in quell’ora visitò l’anima mia», diceva più tardi fermamente convinto.

Dopo tre giorni lasciò il monastero, e ciò si accordava anche con le parole del suo starec, che gli aveva ordinato di «vivere nel mondo».

(in / fratelli Karamazov)

BIBLIOGRAFIA

Edizioni in italiano delle opere di F. M. Dostoevskij:

Romanzi e taccuini, a cura di E. Lo Gatto, 5 voll., Sansoni, Firenze, 1958.

Racconti e romanzi brevi, a cura di M. B Luporini, 3 voll., Sansoni, Firenze, 1963.

Diario di uno scrittore, a cura di E. Lo Gatto, Sansoni, Firenze, 1963.

Dostoevskij inedito (Quaderni e taccuini: 1860-1881), a cura di L. Dal Santo, Vallecchi, Firenze, 1980.

L’epistolario, a cura di E. Lo Gatto, Edizioni Scientifiche di Napoli, 1953.

 I romanzi maggiori si possono trovare anche nella collana I Grandi libri della Garzanti – Milano.

BACHTINM., Dostoevskij, Piccola Biblioteca Ei-naudi, Torino, 1968.

BRRDJAEVN., La concezione di Dostoevskij, Ei-naudi, Torino, 1977.

EVDOKIMOV  P., Gogò/ e Dostoevskij, Edizioni Paoline, Roma, 1978.

GUARDINI R., Il mondo religioso di Dostoevskij, Morcelliana, Brescia, 1980.

BULGAKOV  S. N., Ivan Karamazov come tipo filosofico, in «Rivista del Centro Studi Russia Cristiana», n. 2, Marzo-Aprile 1979.

FRANK S., La leggenda del Grande Inquisitore, in «Rivista del Centro Studi Russia Cristiana », n. 6, Novembre-Dicembre 1976.

TAGLIABUE F., / demoni, in «Rivista del Centro Studi Russia Cristiana», n. 5, Settembre-Ottobre 1980.

U. von BALTHASAR, Dostoevskij, in Gloria, vol. V, «Nello spazio della metafisica: l’epoca moderna», Jaka Book, Milano, pp. 172-183.

DOSTOEVSKAJ A. G., Dostoevskij mio marito, Tascabili Bompiani, Milano, 1977.