La Croce quotidiano 4 ottobre 2017
Le vie che i poteri mondani tentano, dopo il naufragio del signo marxista, per annacquare la fede
di Giuseppe Brienza
Il PCI ha spesso tentato, soprattutto dopo il Sessantotto, d’infiltrare culturalmente la Chiesa e il mondo cattolico italiano attraverso la “Teologia della liberazione” e, ad essa connessa, con la “Teologia femminista”. Gli e le agit-prop comuniste, approfittando dell’ignoranza, hanno brandito persino figure come Don Romolo Murri (1870-1944), il fondatore della prima Democrazia cristiana, per avviare, attraverso la fumosa categoria del femminismo cristiano, le democratiche verso il “trasbordo ideologico inavvertito” (v. ad es. il libro di Francesco Maria Cecchini, Femminismo cristiano: la questione femminile nella prima democrazia cristiana: 1898-1912, Editori Riuniti 1979).
Peccato che Don Murri fu scomunicato da Papa san Pio X nel 1909 in quanto fautore del Modernismo, movimento dissolutore bollato nella sua enciclica Pascendi Dominici Gregis come la «sintesi di tutte le eresie» (anche Benedetto XVI ne ha rinnovato formalmente la condanna).
Ora che il marxismo non attrae (quasi) più, i neo-comunisti de il manifesto brandiscono le varie “pastore, diacone e vescove” di quel che rimane del protestantesimo per confondere, dissolvere, e cercare di far passare quella che è divenuta la loro priorità, cioè l’agenda Lgbt.
«Chiese ad elevata parità di genere» ha per esempio definito di recente il “quotidiano comunista” le mini-comunità valdese e metodista, «nelle quali le donne ricoprono ruoli e funzioni identiche a quelle degli uomini» (Luca Kocci, Pastore, diacone, vescove nella chiesa della Riforma, il manifesto, 25 agosto 2017, p. 8). Ma la stessa “pastora valdese” di Firenze Letizia Tomassone, che insegna “Studi femministi e di genere” alla Facoltà valdese di teologia di Roma, intervistata da il manifesto corregge questa versione ricordando che il sacerdozio ministeriale, cioè quello istituito da Gesù Cristo come sacramento, non esiste nelle comunità protestanti.
«La concezione del ministero nelle Chiese della Riforma – ha spiegato la prof.ssa Tomassone – non è sacrale, non si tratta di un sacerdozio, né il ministro deve svolgere una mediazione maschile – in quanto Cristo era un maschio – o paterna – in rappresentanza del Dio padre – verso la comunità. I ministri di culto sono parte della comunità dei credenti e del ministero che appartiene a tutte e a tutti e svolgono una funzione al servizio della comunità» (art. cit.).
Non c’è trippa per gatti, la “teologia femminista” protestante non può cercare di ottenere l’introduzione di un “ministero femminile” nella Chiesa cattolica, a meno di non “sbracare” la concezione stessa del sacerdozio, rendendolo di tipo impiegatizio come nelle c.d. chiese della Riforma. La denominazione protestante attualmente più di rilievo, vale a dire quella Pentecostale, come la stessa Tomassone ammette, sulla “teologia femminista” fa più orecchie da mercante degli stessi “gerarchi” vaticani.
«Buona parte delle Chiese pentecostali – ha ammesso la “pastora valdese” di Firenze – non accettano il ministero femminile, e dunque non accolgono le pastore protestanti in occasione di incontri ecumenici». Valdesi e metodisti cercano quindi l’aiuto, grazie al soccorso rosso de il manifesto, «delle teologhe cattoliche nella propria Chiesa» dalla quale, sperano, «ci saranno sicuramente degli sviluppi positivi». In questi tirano naturalmente fuori anche la possibilità del diaconato femminile, non come servizio istituzionalizzato alla comunità ecclesiale, concezione sulla quale Papa Francesco ha parzialmente aperto, bensì come primo gradino dell’ordine sacro alle donne, tesi incompatibile col Vangelo e inaccettabile da parte della Chiesa cattolica.
Non a caso in occasione del Sinodo dei vescovi sulla famiglia nell’ottobre 2015, la proposta estemporanea avanzata in tal senso del vescovo canadese mons. Paul-André Durocher non ha trovato nessun riscontro nel documento finale. Il manifesto se l’è presa quindi con Bergoglio accusandolo di «difficoltà nell’affrontare il problema» e di un immaginario a proposito del ruolo della donna «molto tradizionale».
«Anche al livello di discorso pubblico della Chiesa – rincarano la dose i “neo-comunisti” -, le uscite di papa Francesco non sono apparse particolarmente incisive e comunque non prive di punti problematici. Nel 2013, di ritorno dalla giornata mondiale della gioventù di Rio, Bergoglio spiegava ai giornalisti che la Chiesa è femmina utilizzando l’immagine della Vergine come esempio e auspicando una “teologia della donna” […]. Parlando pochi mesi dopo alla “Civiltà Cattolica”, ha biasimato un presunto “machismo in gonnella” e ha esaltato in maniera generica quello che definisce il “genio femminile” […] anche se non ci sono stati interventi dottrinali di rilievo e nel segno della discontinuità» (Alessandro Santagata, L’accesso al rito nella battaglia per il diaconato femminile, il manifesto, 25 agosto 2017, p. 8).
Le più note “teologhe femministe” italiane come Serena Noceti e Adriana Valerio, la prendono alla larga, accusando il Concilio Vaticano II di non aver nemmeno scalfito «l’impianto androcentrico della Chiesa». Siccome è stato in Germania che le donne hanno avuto per la prima volta la possibilità di iscriversi alle facoltà di teologia, sono state proprio le “teologhe” tedesche ad avanzare ai padri conciliari richieste di partecipazione e di riconoscimento sacramentale delle donne nella Chiesa, toccando ovviamente il nodo dell’ordinazione femminile.
Il tema, però, non venne nemmeno toccato, a eccezione di un improbabile intervento in materia del vescovo di Atlanta, Paul Hallinan (1911-1968). Anzi, negli ultimi decenni non sono mancate le condanne di “teologhe” e “neo-lingue” femministe. Per es., nel 2008 la Congregazione per la Dottrina della Fede dichiarò invalido il Battesimo conferito utilizzando due formule femministe in cui non si esprimeva chiaramente la formula con le tre persone della Santissima Trinità, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, perché considerata maschilista.
Nel documento di condanna, che venne pubblicato con l’approvazione di Benedetto XVI, si specificava che ogni «formula battesimale deve esprimere adeguatamente la fede trinitaria: non valgono formule approssimative». A rincarare la dose fu poi il cardinale Urbano Navarrete, S.I., ex Rettore della Pontificia Università Gregoriana, che pubblicando un commento di carattere giuridico al documento, spiegò che, in base alla definizione della Dottrina della Fede, «le persone che sono state battezzate o saranno battezzate nell’avvenire con le formule in questione in realtà non sono battezzate».
Negli scorsi mesi ha invece occupato abbondantemente i media di sinistra (soprattutto la Repubblica), la “teologa femminista” Teresa Forcades, benedettina, del Monastero di Montserrat a Barcellona. Nel suo libro più noto, “La teologia femminista nella storia” (tr. It., ed. Nutrimenti 2015), suor Forcades aveva già anticipato alcuni temi filo-Lgbt, esplosi quindi nell’ultimo suo saggio, tradotto a cura di Cristina Guarnieri e Roberta Trucco per i tipi di Castelvecchi Editore, dal titolo Siamo Tutti Diversi! Per Una Teologia Queer.
La suora catalana, che è stata anche Vicepresidente dell’Associazione europea delle ricercatrici in teologia, si dichiara favorevole all’aborto, al “matrimonio” omosessuale ed anche all’utero in affitto, pretendendo persino che tutte le donne possano usufruire liberamente della pillola del giorno dopo. Recentemente è scesa anche in politica, vicina all’estrema sinistra catalana, meritandosi finalmente la censura (2009) del card. Rodè, allora prefetto della Congregazione vaticana dei religiosi. Ma poi da Roma (era Papa Benedetto XVI) non ne seguì alcun intervento disciplinare o, almeno, chiarificatore.
Anche la Commissione Teologica Internazionale ha pubblicato nel 2012 un documento di condanna della teologia femminista, prendendo occasione da erronee prese di posizione della Leadership Conference of Women Religious (Assemblea delle Superiore Religiose) degli Stati Uniti. In pratica, l’unità del messaggio della Rivelazione e la necessità di mantenere l’unità nella Chiesa porta a rendere inaccettabile le «teologie femministe» che sono in sostanza promosse da ideologie esterne.
La teologia della liberazione così come quella femminista pongono in effetti l’interpretazione della fede sul piano dei fattori socioeconomici e culturali e, di conseguenza, pretendono che il progresso sociale e l’emancipazione della donna siano anche i criteri che decidono il senso dei dogmi cattolici. Si tratta dell’ennesimo intellettualismo d’élite che, avulso dal popolo, si è appropriato di alcune giuste istanze delle donne per portarle a sostegno della costruzione di una cultura “antagonista”.
Si tratta di una strumentalizzazione ideologica le cui radici si possono rintracciare fin dall’800, ma che negli ultimi decenni ha trovato uno sbocco e una copertura anche nella teoria “di genere”, una riformulazione dell’antropologia di cui la maggior parte delle donne non sente affatto il bisogno.
L’ideologia gender impone infatti un concetto di uguaglianza che in realtà porta all’uniformità, e si traduce pertanto in un indebolimento delle appartenenze e delle identità che formano la famiglia. Anche l’eco-femminismo che ne è derivato, oltre ad arricchire alcuni, finisce per favorire il ritorno a forme di panteismo neopagano. Questa teoria si è innestata nel terreno già dissodato da una parte della teologia femminista, che nelle sue forme più conseguenti ha dato luogo a gruppi neo-pagani, contribuendo oltretutto allo svuotamento dei conventi e dei seminari americani a partire dalla fine degli anni Sessanta.
Il vero “femminismo cristiano”? Quello di una Sára Salkaházi (1899-1944), suora ungherese beatificata nel 2006 da Benedetto XVI perché seppe aiutare in anni ben diversi dagli attuali tante donne e innocenti. Il Cardinale Peter Erdö, Primate d’Ungheria, ha sottolineato come Suor Sára, nel periodo difficilissimo della Seconda Guerra Mondiale, «ha scoperto l’estrema necessità delle donne di allora, che erano costrette a lavorare, pur avendo la famiglia da accudire, e che molto spesso vivevano in piena dipendenza e miseria. Ha organizzato diverse case per donne in situazione di crisi, dando luogo così a un femminismo cristiano caratterizzante sia il suo pensiero sia quello della casa a Budapest dove è stata Superiora alla fine della sua vita» (cit. in L’Arcivescovo di Budapest sottolinea l’esempio di vita cristiana della nuova beata ungherese, in Zenit.org, 19 settembre 2006).
Fatti, altro che chiacchiere!