di Marco Tangheroni
1. Equivoci e travisamenti
In un precedente articolo, pubblicato su questa stessa rivista, ho ricostruito la progressiva formazione, a partire dal Rinascimento fino a giungere all’illuminismo e alla Rivoluzione Francese, di quella “leggenda nera” sul Medioevo cristiano, ancora oggi, e non casualmente, diffusissima, nonostante la infondatezza e il sistematico travisamento della realtà su cui essa riposa (1); ho, inoltre, mostrato come tale progressiva formazione coincida con lo sviluppo del processo rivoluzionario.
Un analogo, sistematico travisamento della realtà è possibile constatare a proposito della nozione di “feudalesimo”; anzi, si può dire che le menzogne, le falsificazioni, i luoghi comuni accettati e diffusi, per passività o per convenienza, su questo tema, formano il cuore della “leggenda nera” sul Medioevo.
Anche in questo caso è, in proposito, illuminante l’esame dell’uso o, meglio, dell’abuso linguistico quotidiano: come Proudhon parlava di feudalesimo a proposito della monarchia assoluta e il Manifesto del partito comunista parlava di “assolutismo feudale” e di “socialismo feudale” (questa seconda espressione era usata a proposito della politica sociale dei legittimisti in Francia), così oggi si parla correntemente di “feudalesimo dei partiti” o “feudalesimo delle banche“, di “feudalesimo dei trusts” o, magari, “della feudalità dei distillatori di acquavite” (2).
Vengono, cioè, impiegati sia il sostantivo che l’aggettivo per indicare realtà o tendenze del tutto estranee, anzi, spesso, opposte a ciò che veramente fu, nei secoli della civiltà cristiana, il feudalesimo, sulla base, evidentemente, di una immagine negativa, in particolare connessa all’idea di arbitrio, di sopruso.
Se è vero che l’avversione al feudalesimo è il frutto dell’odio nei confronti della civiltà cristiana costruita dagli uomini del Medioevo, è allora anche vero che la considerazione dei tratti fondamentali di questo sistema di organizzazione sociale non può essere trascurata da coloro che vedono, invece, in quella civiltà, un insieme di fatti storici estremamente importante quale punto di riferimento per la loro azione culturale, civica e politica, volta, appunto, a edificare, in luogo dell’attuale “dissocietà” su basi atee, una nuova società cristiana, fondata sul diritto naturale e cristiano; da ciò le brevi osservazioni del presente articolo.
Elemento tipico e tra i principali della società medioevale, il feudalesimo può riacquistare connotati precisi soltanto se ci liberiamo, oltre che degli abusi linguistici cui accennavo sopra, anche delle utilizzazioni arbitrarie e generiche del concetto.
Esemplare (in questo senso) l’uso che del termine fece Marx e hanno poi fatto e fanno i marxisti. Per essi, com’è noto, a caratterizzare e a distinguere le varie epoche storiche sono i rapporti di produzione, che determinano tutti i più vari aspetti della vita umana, da quelli spirituali a quelli istituzionali, da quelli sociali a quelli politici.
Per essi, dunque, il feudalesimo è individuato non da elementi come il vassallaggio o il feudo, considerati del tutto secondari, in quanto “sovrastrutturali”, ma dall’appropriazione del lavoro delle masse rurali da parte dei “signori”; esso sarebbe, dunque, una delle fasi che ogni popolo, nel suo fatale sviluppo economico, deve attraversare, dopo il sistema basato sullo schiavismo e prima di quello basato sullo sfruttamento capitalista, opera della borghesia, cui seguirà l’avvento della mitica società senza classi, la quale dovrebbe realizzare il paradiso su questa terra e porre fine, sopprimendo ogni contraddizione economica, alla storia.
Ora, non è questa la sede per dimostrare la fallacia della teoria o per esemplificare la debolezza delle sue applicazioni. Basterà dire che gli storici seri e liberi prescindono ormai totalmente da queste categorie, cui la realtà medioevale si ribella in modo particolare. Del resto, è possibile trovare una conferma immediata di questa affermazione da un lato nella inconsistenza e nella genericità delle opere che tentano di mantenersi fedeli a questa impostazione, e dall’altro nelle divergenze che tra gli storici e i teorici marxisti si sono avute e si hanno sia nella caratterizzazione del sistema feudale sia nella definizione dei tempi e dei modi che avrebbero segnato la transizione dal sistema feudale a quello capitalistico (3). Ma già lo stesso Marx si era espresso su questi temi in modo confuso, generico e contraddittorio (4).
A queste considerazioni occorre però aggiungere che, anche in storici non marxisti, si ritrova una eccessiva dilatazione del concetto che viene impiegato per etichettare realtà diverse e inassimilabili, come per esempio ogni periodo in cui si assista a un indebolimento del potere statale centrale (5). Di qui l’uso del termine a proposito delle società di certi periodi di crisi dell’antico Egitto o della Cina, o, magari, a proposito di società africane o dell’America pre-colombiana.
L’approfondimento degli studi impone, viceversa, sempre più un uso del termine limitato al Medioevo cristiano (6); anche il caso che più potrebbe essere avvicinato a quello europeo, il caso del Giappone, presenta tuttavia differenze di sostanza tali da richiedere un discorso a parte (7).
2. Per una definizione
Nato non per imposizione arbitraria dall’alto e in base a un disegno astratto, bensì dal fluire stesso della vita, dall’incarnarsi e articolarsi dei princìpi informatori di un’epoca, dal solidificarsi di una consuetudine che tardi raggiunge la codificazione in testi scritti e tardi conosce la riflessione sistematica dei giuristi, il feudalesimo pone indubbiamente alcune difficoltà a chi voglia tentare una definizione.
Questa, tuttavia, è necessaria per chiunque si preoccupi della correttezza del discorso (8); ed è d’altronde possibile ove si ricerchino i tratti costanti, i denominatori comuni, senza perdersi nelle differenze locali e temporali, le quali, pur interessanti e significative, appartengono – variazioni sul tema – alla storia interna del fenomeno e non concorrono, quindi, alla sua definizione.
Secondo la prospettiva qui assunta non può essere vista l’essenza del feudalesimo nell’immunità, cioè nella esenzione amministrativa, fiscale e giuridica che spesso, e in modo crescente, si accompagnò ai feudi. Siamo, in questo caso, di fronte a una delle conseguenze più significative e interessanti del fenomeno, ma non già alla sua genesi o alla sua essenza (9). E, a rigore, tale carattere non può essere riconosciuto neppure al beneficio, cioè all’elemento cessione terriera, data non in libera e assoluta proprietà, ma in godimento: anche il beneficio è, preso isolatamente, insufficiente a dare un’idea precisa del feudalesimo, pur essendone indubbiamente un aspetto.
Ciò che è veramente centrale è il rapporto di vassallaggio, ossia la diffusione e istituzionalizzazione di un tipo particolare di rapporti personali e bilaterali ai diversi livelli della struttura sociale. Molto opportunamente lo storico francese Robert Boutruche da inizio alla sua ampia opera sulla signoria e sul feudalesimo con questo quadro: “Ogni anno, dal IX al XVI secolo, migliaia di volte nella maggior parte dell’Occidente, si ripeteva questo rito. Davanti ai testimoni riuniti nella sala grande di un castello o di una residenza ecclesiastica, si fronteggiavano due personaggi: uno destinato ad obbedire, l’altro a comandare. Il primo, a testa nuda e disarmato, pone le sue mani giunte tra quelle del secondo, si dichiara suo uomo, suo vassallo e qualche volta scambia con lui un bacio sulla bocca. Poi giura, “toccando cuti la mano destra” una reliquia o un Vangelo, di rimanergli fedele. A sua volta il signore promette di essere buono e leale. Di solito la cerimonia è chiusa da un ultimo atto […]: il subordinato ottiene l’investitura di un feudo […]. Spesso i due contraenti sono dei potenti di questo mondo; ma possono essere anche modesti signori e poveri vassalli” (10).
Questo è veramente l’elemento generatore e comune che ci consente di parlare, in epoche e luoghi diversi della Cristianità, di feudalesimo. Questo è anche il punto dal quale prendere le mosse per la comprensione del fenomeno. E’, del resto, l’elemento che ritroviamo alla base della definizione data dallo storico belga Ganshof: “Il feudalesimo [la féodalité] può essere definito come un insieme di istituzioni legate a obblighi di obbedienza e di servizio principalmente militare da parte di un uomo libero, detto “vassallo”, verso un uomo libero, detto “signore”, e da obblighi di protezione e di mantenimento da parte del “signore” nei confronti del “vassallo”” (11).
Intorno a questo sistema di relazioni si articolò tutta una società, caratterizzata, sempre secondo le definizioni di Ganshof, dallo sviluppo dei rapporti tra uomo e uomo, dalla esistenza di un ceto militare specializzato, da uno spezzettamento estremo del diritto di proprietà e da un frazionamento del potere pubblico che dette vita “a una gerarchia di istanze autonome” (12). In questo senso è preferibile parlare non più di feudalesimo in senso proprio e ristretto bensì di società feudale (13).
3. Il rapporto feudo-vassallatico
Come abbiamo visto, il rapporto feudo-vassallatico può essere stretto soltanto tra uomini liberi. Di, più, esso deve essere concluso per spontanea scelta dei due contraenti. Troviamo questo principio espresso molto chiaramente da un sovrano carolingio, Carlo il Calvo, nipote di Carlo Magno, nell’847: “noi vogliamo anche che ogni uomo libero nel nostro regno possa scegliere come signore chi egli vorrà, noi stessi o uno dei nostri fedeli” (14). Ma, una volta concluso, il contratto – espresso, secondo il diritto altomedioevale, non già da testi scritti, ma da gesti intensamente simbolici quali l’immixtio manuum, il giuramento e il bacio – non poteva essere rotto unilateralmente.
Certamente, ci sono noti alcuni casi in cui, in realtà, l’omaggio fu forzato, ma essi ci sono segnalati dai cronisti sempre come una biasimevole rottura dell’ordinamento consuetudinario: eccezioni, sono appunto sentite come tali dai contemporanei. Accanto alla libertà, elemento essenziale di questo rapporto è la sua bilateralità. A seguito dell’omaggio sorgevano dei doveri tanto per il vassallo quanto per il signore; questi doveri hanno, al di là dei contenuti concreti, che possono su certi punti cambiare a seconda dei luoghi e dei tempi (perché strettamente uniti al diritto consuetudinario locale), una base unica: la reciproca lealtà.
Ciò porta, innanzitutto, una conseguenza negativa, cioè l’obbligo di astenersi da azioni che possano nuocere all’altro uomo, quello al quale si è prestato omaggio o, all’inverso, quello del quale si è accettato l’omaggio, prendendolo sotto la propria protezione.
Ma accanto a questo contenuto negativo vi erano anche dei contenuti positivi. Il vassallo deve al suo signore auxilium et consilium, cioè il servizio militare (in tempi e modi fissati dalle consuetudini) e l’aiuto materiale in casi particolari (per esempio: un contributo per il riscatto del signore caduto prigioniero), nonché l’obbligo di assistere il signore con i propri consigli, in particolare nella discussione delle cause giudiziarie presso il tribunale del signore, ma, in generale, anche per altre decisioni da prendere.
Così, per esempio, nel 1122 il conte di Fiandra si rivolse ai suoi riuniti per giudicare un conflitto tra una abbazia e un cavaliere: “Miei signori, ve ne prego per la fede che mi dovete, ritiratevi e decidete con un giudizio inattaccabile, ciò che conviene rispondere a Engelberto da una parte e ai monaci dall’altra” (15). Quanto al signore, egli deve al suo vassallo “protezione, difesa e garanzia” (16).
Gli scrittori medioevali insistono fortemente su questa reciprocità. Così, in una lettera indirizzata nel 1020 al duca di Aquitania, il vescovo Fulberto di Chartres afferma chiaramente: “Dominus quoque fideli suo in his omnibus vicem reddere debet“, il signore deve obbedire nei confronti del vassallo a tutte regole cui questi è tenuto verso il signore (17).
E’ la formula che troviamo ripresa, quasi alla lettera, nello Speculum Iuris di Guglielmo Durant: “il vassallo è tenuto verso il suo signore alla stessa fedeltà cui è tenuto il signore verso il vassallo“(18). E, ancora, è esplicita l’affermazione di Filippo sire di Beaumanoir: “secondo la nostra consuetudine, tanta fede e lealtà deve l’uomo al suo signore, in ragione del suo omaggio, altrettante ne deve il signore al suo uomo” (19). Allorché uno dei contraenti veniva meno ai suoi impegni, si aveva quel comportamento che veniva chiamato fellonia.
Questo comportamento giustificava la rottura del vincolo della fidelitas o fides, con tutte le sue conseguenze: la confisca del feudo, da parte del signore al vassallo fedifrago, o il passaggio del vassallo, col suo feudo, al servizio di un altro signore. Naturalmente, nella pratica, i contrasti di interpretazione potevano essere frequenti; tuttavia, la lettura sia delle cronache che dei poemi dell’epoca ci convince della forza di dissuasione che queste norme erano capaci di esercitare.
A sostegno di questo rapporto vi era indubbiamente, oltre alla sacralità di un impegno preso sul Vangelo, anche un profondo sentimento, che nell’epoca d’oro del feudalesimo (secoli IX-XII) appare generalmente diffuso e anche prevalente rispetto ad altri sentimenti. “In questo periodo – scrive Lewis – il più profondo dei sentimenti è l’amore dell’uomo per l’uomo, la reciproca affezione di guerrieri che muoiono vicini, combattendo contro ogni ostacolo, il sentimento del vassallo verso il suo signore” (20).
4. Trasformazioni e decadenza
La trasformazione principale che il feudalesimo conobbe fu quella di un’accentuazione progressiva dell’elemento reale, il feudo, a danno dell’elemento personale, il rapporto feudo-vassallatico. Una deplorevole tendenza di molti storici ha portato, per la verità, a troppo anticipare e troppo generalizzare questa tendenza; l’importanza centrale del rapporto personale fu a lungo sentita, ancora per secoli come carattere essenziale e fondamentale del feudalesimo.
Tuttavia la tendenza vi fu, con le sue conseguenze: gli obblighi del vassallo considerati piuttosto come oneri gravanti sui beni e il possesso del feudo visto da un punto di vista patrimoniale, nonché la pluralità degli impegni vassallatici da parte di un solo vassallo nei confronti di vari signori.
Peraltro, quest’ultimo comportamento veniva avvertito come un problema da superare, come dimostra la nascita di un tipo di impegno che era considerato, in caso di conflitto, superiore all’omaggio semplice, cioè l’omaggio detto “figio”. Fino al periodo di crisi generale della società medioevale, questo tipo di omaggio assoluto permise al feudalesimo di conservare il suo carattere di struttura portante dal punto di vista istituzionale e sociale, pure in presenza di una più complessa e articolata rete di rapporti umani.
Si è voluto vedere un segno precoce di decadenza nell’ereditarietà dei feudi, già riconosciuta – limitatamente ai benefici maggiori – da Carlo il Calvo nell’877 e poi – per tutti i vassalli – dall’imperatore Corrado II il Salico nel 1037.
In realtà non si può assolutamente parlare di decadenza del feudalesimo per questo periodo, nel quale si ebbe, anzi, una sua maggiore diffusione con la conquista normanna dell’Inghilterra, con la formazione: del Regno di Napoli nell’Italia meridionale, con la nascita, in seguito alla Prima Crociata, degli stati cristiani nel Vicino Oriente e in Terrasanta. Come osservò a suo tempo Bloch, dove di per sé potrebbe trovare il signore un vassallo più fedele se non nella famiglia di colui che lo aveva fedelmente seguito per tanto tempo?
D’altronde, la ereditarietà dei feudi non era meccanica e non toccava il carattere vitalizio del rapporto; l’omaggio doveva essere ogni volta prestato nuovamente dal nuovo vassallo. Piuttosto, la vera decadenza va vista nel progressivo venire meno del nesso beneficio-funzione. Si trattò di un processo complesso e secolare, legato al venire meno della funzione militare della cavalleria feudale, allo sviluppo della monarchia assoluta, alla patrimonializzazione sempre più crescente del feudo (21).
Tuttavia, occorre guardarsi dal sottovalutare i residui feudali nelle società di ancièn regime. Per quanto profonde fossero state le trasformazioni operate dall’assolutismo monarchico, la Rivoluzione francese non combatteva soltanto fantasmi allorché stabiliva: “l’assemblea nazionale elimina completamente il regime feudale” (22). Senza dubbio, i deputati rivoluzionari, nella famosa notte tra il 3 e il 4 agosto 1789, intendevano sotto il nome feudalesimo realtà molto varie, spesso meglio definibili come diritti signorili. E quando Napoleone si prefiggeva di combattere e fare combattere “ogni azione tendente a ristabilire il regime feudale” intendeva riferirsi semplicemente alla restaurazione dell’Ancièn Regime (23).
Tuttavia è significativo che si continuasse a vedere nel feudalesimo il tratto essenziale di una società di cui si voleva cancellare ogni traccia, così come è significativo che, insieme ai residui feudali e ai diritti signorili, l’Assemblea Nazionale procedesse contemporaneamente alla eliminazione delle corporazioni e delle comunità cittadine. Il liberalismo assoluto, che non concepiva altre realtà che l’individuo e lo Stato, veniva così introdotto dall’alto, per legge rivoluzionaria, preparazione, neppure troppo remota, alla successiva fase totalitaria.
5. Feudalesimo e autorità
Come si è accennato, si considera normalmente il feudalesimo come a un tempo effetto e causa ulteriore della scomparsa del potere pubblico o statale. Tipico esempio di disgregazione della società, dovrebbe tendere a scomparire non appena, e a suo dispetto, l’autorità si riorganizza. In realtà, questa unione, per quanto diffusa nei manuali e nei libri di storia in genere, non ha fondamento e nasce da preoccupazioni ideologiche e da pregiudizi moderni, per i quali l’unico modello valido di Stato – con il quale comparare tutte le altre forme di organizzazione politica esistenti nel passato – è quello moderno.
Analogamente, si attribuisce al Medioevo una confusione tra il pubblico e il privato, solo perché la distinzione che gli uomini medioevali facevano tra questi due concetti era basata su criteri nettamente diversi da quelli oggi correnti (24). Jacques Ellul ha scritto che “la società medioevale è una società anarchica” (25). L’affermazione, apparentemente paradossale, significa trattarsi, come lo stesso Ellul precisa, di “una società […] senza potere politico centralizzalo e unico“, in quanto i diritti e i poteri attualmente considerati come necessariamente appartenenti allo Stato erano allora ripartiti tra diverse autorità.
D’altra parte, lo stesso autore aggiunge, subito dopo, che allo stesso tempo “la società medioevale è una società gerarchica“, tutt’altro che disordinata, grazie, da un lato, alla presenza, come punto di riferimento, al vertice, della monarchia o, meglio, del re e, dall’altro, proprio alla catena delle gerarchie feudali (26).
Non siamo di fronte a una pura descrizione teorica, a un modello astratto. In realtà, le ricerche storiche ci mostrano la grande importanza avuta dal feudalesimo nei paesi cristiani sotto il profilo della organizzazione o riorganizzazione della società civile sia nel periodo precedente la nascita del Sacro Romano Impero (secolo VIII), sia in quello successivo alla sua crisi, quando, tra l’altro, una nuova ondata di invasioni pagane (Vikinghi, Ungari, Slavi, Saraceni) si abbatté sulla Cristianità (secoli IX-X).
In seguito, ancora, le monarchie nazionali si costituiranno in Francia, Inghilterra, Castiglia, Aragona, non contro, ma anzi, in una certa misura grazie ai ceti feudali; tanto che gli storici parlano ormai di “monarchie feudali“, sia in contrapposizione ai vecchi concetti che volevano queste monarchie frutto esclusivo dell’intesa tra i sovrani e le borghesie mercantili, sia per distinguere questa fase dalla successiva fase assolutistica (27).
Si può anche aggiungere che gli stessi comuni, frutto della forte ripresa cittadina dopo il Mille, né nacquero, né si svolsero in chiare antifeudale, come vorrebbero certi vecchi e ripetuti schemi; ciò anche nella stessa Italia centro – settentrionale, nella quale, pure, essi arrivarono a costituirsi in centri di minuscoli Stati, largamente autonomi, anche se di diritto inseriti nella struttura feudale dell’Impero.
La nascita stessa del comune fu un fenomeno aristocratico, incomprensibile senza la ricchezza di vita e la libertà d’azione che sempre più appaiono essere i connotati della società feudale (28). Ed è anche significativo che i rapporti tra i vari Stati (compresi i comuni), come anche i rapporti tra le città e i signori del territorio circostante, venissero definiti ricorrendo al diritto feudale, che divenne, in certo qual modo, una specie di diritto internazionale universalmente riconosciuto (29).
6. Conclusione
La rapida presentazione fatta dei tratti fondamentali del feudalesimo quale la Cristianità lo conobbe nei secoli della sua splendida fioritura non esaurisce certo il tema; anzi, a esso soltanto introduce. Ma, se il lettore desideroso di un approfondimento dei fatti e dei problemi troverà nelle note una prima guida, qui soprattutto premeva chiarire la natura deformante e mistificatrice dei luoghi comuni che continuano a oscurare, nel linguaggio e nella coscienza dei più questo termine e questo concetto.
Recuperarne la realtà storica e l’essenza concettuale non è una operazione da oziosa accademia, come conferma, del resto, lo sforzo mistificatore del pensiero rivoluzionario. Se è lecito fare un discorso sull’attualità ed esemplarità del Medioevo (30), in esso rientra senza dubbio anche un discorso sull’attualità del feudalesimo, nella misura in cui, avvertendo l’insopportabilità del rapporto freddo, anonimo e burocratico che caratterizza la nostra vita sociale a ogni livello – da quello politico a quello economico – noi aspiriamo, giustamente, a un ritorno a una società basata, al contrario, sui rapporti personali; e, ancora, nella misura in cui, avvertendo la pericolosità dell’isolamento dell’individuo abbandonato in balia dello Stato, sentiamo la necessità di una ricostruzione della società fondata sui corpi intermedi e sul principio di sussidiarietà, cardine della dottrina sociale cristiana.
Note
(1) Cfr. M. TANGHERONI, La “leggenda nera” sul Medioevo, in Cristianità, anno VI, n. 34-35, febbraio-marzo 1978, pp. 6-9.
(2) Una buona esemplificazione in R. BOUTRUCHE, Signoria e feudalesimo, trad. it., Il Mulino, Bologna 1973, vol. I, Introduzione. L’opera, anche per la sua aggiornata bibliografia, merita di essere considerata un buon punto di riferimento.
(3) Cfr. per esempio, le divergenti posizioni di M. DOBB, Problemi di storia del capitalismo, trad. it., Editori Riuniti, Roma 1972 e P. SWEEZY, La teoria dello sviluppo capitalistico, trad. it., Boringhieri, Torino 1972.
(4) Infatti Marx, nel capitolo XXIV del Capitale, in contrasto con la sua stessa dottrina, indica una serie di fattori che niente hanno a che vedere con le contraddizioni del sistema feudale, per chiarire il fenomeno della cosiddetta accumulazione originaria. Molto nebulose sono anche le considerazioni sulla funzione del mercato. Cfr. A. CAVALLI, Le origini del capitalismo, Loescher, Torino 1963, pp. 9-14 e 37-41, nonché i testi di Marx ivi riportati.
(5) E all’origine di questo errore si ritrova, non certo casualmente, Voltaire: cfr. R. BOUTRUCHE, op. cit., p. 31.
(6) Ma bisogna pure guardarci dall’atteggiamento opposto: restringere talmente l’uso da limitare l’utilizzazione a periodi e regioni ristrette. Contro questa tendenza, che nega l’esistenza di feudalità mediterranee, si è espresso un recentissimo Colloquio, dell’ottobre 1978, organizzato dall’Ecole Française di Roma e consacrato proprio alla discussione di questo tema. Tra i relatori Violante, Tabacco, Duby, Toubert, Bonassic; gli atti saranno stampati entro il 1979.
(7) M. BLOCH consacrò l’ultima parte della sua classica opera La società feudale, trad. it., Einaudi, Torino 1962, alla discussione del tema Feudalesimo o feudalesimi? Il feudalesimo come IL.po sociale: cfr. pp. 627-636; in particolare, sul Giappone, cfr. le pp. 634-636.
(8) Anche se “il nostro secolo non è sicuramente il secolo delle definizioni; si compiace di essere vago, incerto, viscerale“, come osserva giustamente M. DE CORTE, Una definizione della destra, in La Destra, n. 1, 1972, p. 3. La vocum proprietas era, invece, la prima preoccupazione degli autori medioevali: cfr., per esempio, G. LE BRAS, La Chiesa del diritto, trad. it., Il Mulino, Bologna 1976, p. 3.
(9) Come riconobbe già E. BESTA, Il diritto pubblico nell’Italia superiore e media dalla restituzione dell’Impero al sorgere dei comuni, Pisa 1925, p. 80.
(10) R. BOUTRUCHE, op. cit., p. 23.
(11) F. L. GANSHOF, Qu’est-ce que la féodalité?, 4a ed. riveduta e ampliata, Presses Universitaires de Bruxelles, Bruxelles 1968, p. 12.
(12) Ibid., p. 11.
(13) Come in M. BLOCH, op. cit., e J. CALMETTE, La société féodale, Armand Colin, Parigi 1952.
(14) Cfr. F. L. GANSHOF, op. cit., p. 37.
(15) Ibid., p. 87.
(16) La formula si trova, per esempio, nell’opera del giurista HENRY DE BRACTON, De Legibus et consuetudinibus Angliae, ed. G. E. Woodbine, New Haven e Londra 1922, II, p. 232; l’opera fu scritta intorno alla metà del secolo XIII.
(17) L’interessante lettera di Fulberto di Chartres, edita anche nella Patrologia Latina del Migne, è riportata e tradotta da R. BOUTRUCHE, op. cit., pp. 368-369.
(18) G. DURANT, Speculum juris, ediz. di Francoforte, 1592, p. 304.
(19) Cfr. F. L. GANSHOF, op. cit., p. 88. Il sire di Beaumanoir fu il più grande dei giuristi francesi dell’età di san Luigi IX.
(20) C . S. LEWIS, L’allegoria d’amore, trad. it., Effiatidi, Torino 1969, p. 11.
(21) Per il passaggio dallo Stato medioevale allo Stato di tipo moderno cfr. diversi saggi nel volume di O. BRUNNER, Per una nuova storia costituzionale e sociale, trad. it., Vita e Pensiero, Milano 1970. Attiene in particolare al nostro tema il saggio Feudalesimo. Un contributo alla storia del concetto.
(22) O. BRUNNER, op. cit., p. 84.
(23) R. BOUTRUCHE, Op. Cit., p. 35.
(24) Per un approfondimento di questo punto si può partire da alcuni saggi contenuti in G. ROSSETTI, Forme di potere e strutture sociali in Italia nel Medioevo, Il Mulino, Bologna 1977.
(25) J. ELLUL, Storia delle istituzioni. Il Medioevo, trad. it., Mursia, Milano 1976, p. 80.
(26) Ibidem.
(27) Cfr., per esempio C. PETIT-DUTALLIS, La monarchie féodale en France et en Angleterre. Albin Michel, Parigi 1971 (ma la prima edizione era del 1933); H. MITTEIS, Le strutture giuridiche e politiche dell’età feudale, trad. it., Morcelliana, Brescia 1962.
(28) Interessante, in questo senso, la lettura di C. VIOLANTE, La società milanese nell’età precomunale, Laterza, Bari 1974 (ristampa dell’edizione del 1953). Utile anche la lettura di G. Volpe, Studi sulle istituzioni comunali a Pisa nel Medio Evo, Sansoni, Firenze 1970; il volume, scritto nel 1902, conserva una grande freschezza.
(29) Cfr. , per esempio, P. BRANCOLI BUSDRAGHI, La formazione storica del feudo lombardo come diritto reale, Giuffré, Milano 1966, parte II, cap. 6, nonché la mia relazione al Colloquio citato alla n. 6 (in corso di stampa).
(30) Cfr. la mia presentazione di R. PERNOUD, Luce del Medioevo, trad. it., Volpe, Roma 1978