Il Timone N. 10 – Novembre/Dicembre 2000
di Rino Cammilleri
Sul Corriere della Sera del 4 settembre u.s. ho trovato, nella cronaca di Milano, uno sfogo da parte di una mamma laureata, una che conosce due lingue straniere ed è pure in possesso di diploma di specializzazione. Donna in carriera. Era. Sì, perché dopo la seconda maternità la sua carriera è praticamente finita.
Cito testuale: “Improvvisamente sono diventata inaffidabile e incapace, eppure nessuno mi aveva mai mosso critiche prima della maternità”. E così prosegue: “Cosa faccio adesso? La tappezzeria in ufficio? Mi ignorano, mi levano il lavoro, alcune colleghe neppure più mi rivolgono la parola”. Già: la “coniglia” ha osato procreare ancora. Anziché concentrarsi sul bene dell’ufficio o dell’azienda, ecco che si è permessa di mostrare a tutti che lei lavora per vivere e non vive per lavorare. Si è permessa di assentarsi per maternità, ben sapendo che il suo lavoro sarebbe stato distribuito agli altri con un sovraccarico per questi ultimi.
Sì, perché non si assumono certo Supplenti: non è mica la Scuola. E come nei lager, mi si perdoni il paragone. Lo psicologo ebreo Viktor Frankl aveva ben studiato questo fenomeno: odii furibondi per un pezzo di patata in più, livore sconfinato per un compagno di sventura così “fortunato” da avere un kapò leggermente più umano. Anziché prendersela con la causa della propria condizione, si dà addosso al “profittatore”. Lo Stato? Interviene solo con i gendarmi, guardandosi bene dall’andare alla radice del problema.
Torniamo al Corsera, di cui sopra. Un buon venti per cento delle telefonate che giungono al Centro Donna della Camera del Lavoro riguardano difficoltà di reinserimento nel mondo occupazionale dopo la gravidanza. Così dice la responsabile: “In alcuni casi non vengono concesse le aspettative perché si discute sull’interpretazione della legge, in altri casi si fa fatica all’eccesso prima di poter ottenere i part-time, ma soprattutto ascoltiamo le denunce di donne che, dopo il parto, vengono discriminate malgrado siano più scolarizzate e più motivate dei loro colleghi uomini”.
Le donne che lavorano devono aggiungere questi problemi a quelli di sempre: trovare l’asilo, la tata, i soldi, la casa adatta e non giugulatoria. Naturalmente, non si contano i casi di donne che non vengono neppure assunte perché incinte o perché giovani spose (dunque, potenziali mamme a breve scadenza).
Che vi devo dire, che persino il Duce una politica seria per la maternità e l’infanzia l’aveva? No, lascio perdere, sennò mi danno del fascista. Ma diciamola tutta: di mangiare solo antifascismo siamo un po’ tutti stufi. Pane e lavoro, era lo slogan, no? Invece…
Ma c’è un’altra cosa, da dire tutta: il femminismo sessantottardo deve essere stato sponsorizzato dalle multinazionali della globalizzazione, non contente di avere solo i maschi al lavoro. E voglio essere perfido fino in fondo. Devono averci messo lo zampino anche quelle centrali che odiano la vita. E la famiglia. Infatti, è inutile nascondersi dietro un dito: le donne che lavorano è meglio che non procreino. Al massimo possono fare un figlio solo, dopo gli studi e la prima occupazione.
Se ne fanno due, corrono, come abbiamo visto, dei rischi. Per giunta, oltre al lavoro fuori casa, hanno anche quello in casa. C’è un circolo assurdamente vizioso: si lavora in due per poter pagare qualcuno che pulisca la casa, badi ai figli, cucini. I figli crescono in mani altrui. O in quelle dei nonni, se ci sono. Quanto ciò pesi sulla qualità del loro sviluppo psichico lo lascio alla vostra immaginazione.
E ancora una cosa voglio dire, anche se rappresenta il top del politicallly uncorrect il lavoro dei due coniugi costituisce una delle cause delle separazioni (forse la principale, ma non ci sono statistiche al riguardo; e non ci sono per ovvi motivi: nessuno statistico oserebbe tirarsi la croce addosso dedicando tempo e risorse allo studio del fenomeno). Ma sì, pensiamoci: i due si vedono solo la sera, stanchi dopo una giornata che hanno passato in luoghi di lavoro diversi. La maggior parte della loro vita la trascorrono a contatto con altre persone. Non c’entra la tentazione: questa viene, semmai, dopo. Dopo che il peso della vita familiare avrà lavorato ai fianchi.
Ai bei tempi, lui poteva permettersi di tornare a casa la sera nervoso: trovava lei che al massimo era solo stanca. Ora, spesso torna nervosa anche lei. Qualcuno dirà: se è meglio che uno dei due stia a casa, perché deve essere proprio la donna? Buona domanda. Da girare agli psicologi dell’età evolutiva. Essi sanno bene quanto conti la mamma nei primi anni della crescita. E poi: una breve indagine informale sui negozietti a conduzione familiare (sempre che ce ne sia rimasto qualcuno) mostrerà che i coniugi salumieri o ristoratori o macellai o fruttivendoli sono meno propensi al divorzio. Eppure lavorano entrambi.
Già, ma lavorano insieme, remano sulla stessa barca, portano in due l’unica croce. Ormai, solo i ricchi possono permettersi quel che un tempo era possibile anche ai poveri: farsi una famiglia quanto più possibile serena. Una tale famiglia, oggi come oggi, richiede, almeno, una casa spaziosa e una moglie casalinga. Certo, non è sempre così, ma le statistiche si fanno con le generalizzazioni, ed è inutile che pensiate al vicino di casa che fa eccezione.
Potrei spiegarvi con ricchezza di particolari che anche il vostro vicino, quello con la casa spaziosa e la moglie casalinga, possiede un televisore. E che è da lì che entra il veleno, tutti i giorni, nelle ore più indifese.