di Luca Topi
Il primo «albero della libertà» fu piantato nel maggio del 1790 in un villaggio della Vienne. La Rivoluzione francese, che già all’indomani della Bastiglia sentì il bisogno di simboli per trasmettere i suoi messaggi ed «educare» ai valori rivoluzionari i francesi, ne fece piantare tantissimi. Non soltanto in Francia, ma anche nelle «Repubbliche sorelle». Proprio uno di questi simboli è alle origini di una Vandea italiana, a lungo sconosciuta che fu repressa nel sangue. Luca Topi, giovane storico, ricercatore della Sapienza a Roma, ha ricostruito i giorni dell’insorgenza nel dipartimento del Circeo, la nostra Vandea.
Lo ha fatto nella migliore tradizione della storiografia francese degli Annales, utilizzandone i metodi, prima di tutti, l’indagine sociale ed economica del Circeo, uno degli otto dipartimenti nei quali fu divisa la Repubblica Romana nel triennio giacobino (1796-1799) che inizia con la discesa del giovane Bonaparte.«Ci si figuri – scrive Goethe -un’ampia vallata che si stende in lievissima pendenza da nord a sud e a oriente si abbassa verso i monti…».
È la Pianura Pontina, terra di malaria e di povertà, perché la «proprietà privata – scrive Topi – era suddivisa in piccolissimi fondi, così frazionati da non poter essere sottoposti a colture redditizie». Il che significa che la gran parte degli abitanti non aveva di che sfamarsi a sufficienza: «L’alimentazione base è costituita da una focaccia di grano duro o di farina di castagna, impastata con acqua melmosa e cotta in forni improvvisati». Topi nella «mappatura» dell’ area si sofferma poi sul clero. Il dato numerico è difficile da formulare. Insistono sul territorio sette diocesi e l’abbazia nullius di Subiaco. Specie tra il clero la repressione giacobina fece sentire il suo pugno di ferro.
Da tempo, per le condizioni di miseria, cominciava a manifestarsi verso la Repubblica una sorda ostilità. Il malcontento serpeggia fino al 25 luglio 1798, quando esplode ad Alatri. È un mercoledì, ed è il giorno di san Giacomo. Si teme il saccheggio, e si diffonde la notizia che per evitarlo i francesi e i repubblicani vogliano utilizzare per riscatto la statua di san Sisto.
Il malcontento esplode in «terribile rivoluzione», come scrive un cronista contemporaneo. Il popolo di Alatri insorge in difesa della religione. Sarà abbattuto l’albero della libertà per innalzare al suo posto la croce. Per il dipartimento è un ossessivo gridare: «A morte tutti i giacobini». A nulla valgono i tentativi dei vescovi di riportare la pace. Il rivolo di violenza investe gli altri paesi: Ferentino, Terracina. Inizia la caccia all’uomo.
La vampata è rapida e violenta. A Sezze, la rivolta arriva il 29 luglio. Anche qui si abbatte l’albero della libertà. Il giorno prima 10 termidoro dell’anno VI la macchina della repressione militare si mette in moto. Il generale Girardon, che ha il compito di reprime il moto, si rende subito conto della situazione. In un rapporto al generale Macdonald la riassume con la frase: «C’est absolumment la Vandée», che dà il titolo alla lucida e puntuale ricostruzione di Luca Topi.
Sedata la rivolta, inizia la repressione giudiziaria. Alla popolazione del distretto, innanzi tutto, venne imposto il mantenimento delle truppe che l’avevano occupato. Poi, con i sistemi sbrigativi della giustizia sommaria che furono quelli propri della Rivoluzione, si provvide ad estirpare la ribellione tra il clero. La legge del 22 fiorile è paragonabile alla legge di pratile che in Francia portò al grand terreur prevedeva l’arresto di tutti i preti nelle città in cui si era verificata un’insorgenza e confermava la pena di morte per tutti quelli che avessero contribuito a verificarla.
Le sentenze inappellabili, dopo un processo farsa, erano eseguite entro le 24 ore. Fu un bagno di sangue. Finirono davanti al boia in centinaia. Si salvarono quei pochi che riuscirono ad abbandonare il territorio della Repubblica. Si calcola che in tutta la Francia furono piantati 60 mila di questi alberi. Saranno poi estirparti con la Restaurazione.