Il percorso della deportazione di Pio VI attraversò anche la nostra diocesi
di Don Maurizio Ceriani
Con queste poche righe Alexandre Dumas, nella sua opera “I Borboni di Napoli”, descrive il dramma della prigionia di Papa Pio VI ormai ottantenne, consumatosi tra il 1798 e il 1799. Anche la nostra diocesi fu testimone dell’oltraggio giacobino alla persona del Papa. Nei primi mesi del 1798 il generale Berthier, che aveva occupato la Romagna e le Marche, ricevette l’ordine dal Direttorio di porre fine al potere temporale del Papa e costituire in Roma un governo repubblicano rivoluzionario, cercando però di nascondere il più possibile l’iniziativa francese.
Non era cosa facile, essendo pochi i giacobini nella città, tuttavia i suoi incaricati riuscirono il 15 febbraio a radunar circa trecento persone, le quali, alla presenza del generale Cervoni, protetti da un drappello francese comandato dal Murat, dichiararono con atto rogatorio di tre notai, che il popolo romano, stanco dell’oppressione, deplorava gli assassini commessi dal governo papale, “rivendicava i primitivi diritti della sua sovranità” e prendeva nelle sue mani il potere per esercitarlo secondo “i principi di verità, di giustizia, di libertà, d’uguaglianza”.
Dichiararono inoltre di voler salva la religione e l’autorità spirituale del Pontefice ed affidarono in via provvisoria il governo a sette consoli. Invitato dai consoli, il 16 febbraio il generale Berthier entrò in Roma, tra una folla di curiosi; si recò in Campidoglio e riconobbe la Repubblica Romana indipendente sotto la protezione della Francia, chiudendo una sua arringa al popolo con le seguenti parole: “I figli dei Galli con l’ulivo di pace in mano vengono in questo luogo augusto per restaurarvi l’ara che il primo dei Bruti vi eresse alla libertà. E voi, Romani, che pur dianzi recuperaste i vostri legittimi diritti, ricordate il sangue che vi scorre entro le vene; volgete gli occhi ai monumenti gloriosi che vi stanno intorno: ripigliate l’antica grandezza e le virtù dei padri vostri”.
Lo stesso giorno dell’entrata del Berthier a Roma, il generale Cervoni si recò dal Papa per intimargli di riconoscere il governo repubblicano, ma Pio VI rispose che non poteva rinunciare ad una sovranità che gli veniva da Dio e non dagli uomini e che, alla sua età di ottant’anni, nulla aveva da temere ed era preparato a sopportare con fermezza qualsiasi sofferenza.
La dignitosa risposta del Pontefice non fece arrestare o mutare il corso degli avvenimenti né ebbe riscontro nel contegno del Sacro Collegio che fu a dir poco vergognoso: i cardinali presenti a Roma non levarono alcuna protesta, anzi il 18 febbraio quattordici di loro intervennero al solenne Te Deum con cui si volle consacrare il nuovo governo.
Quel medesimo giorno, il commissario francese Haller intimò al Papa che entro quarantotto ore doveva lasciare la Città e nella notte, dopo averlo fatto entrare in una carrozza con alcuni familiari, lo fece accompagnare fino ai confini della Toscana, dove il venerando vegliardo ricevette ospitalità in un convento di Agostiniani a Siena. Incominciava il penoso calvario di quello che i giacobini amavano ritenere “l’ultimo Papa”. A Siena Pio VI rimase fino al 1 giugno, quando venne trasferito alla Certosa di Firenze, dove restò segregato fino al 28 marzo dell’anno successivo.
Durante la prigionia fiorentina il Papa emanò precise disposizioni a riguardo del conclave che avrebbe dovuto eleggere il suo successore, indicando Venezia, difesa dalle armi austriache, come sede più appropriata per un’elezione libera del successore di Pietro. Il 28 marzo del 1799, nonostante le peggiorate condizioni di salute, si decide di trasferire il Papa a Parma, ma il progetto è già quello di trasferirlo in Francia, dal momento che la penisola italiana è scossa dai moti dell’Insorgenza e gli eserciti austro-russi sono pronti a invadere la pianura padana, mentre Napoleone è trattenuto in Oriente dalla campagna d’Egitto. Il Direttorio teme infatti che il Pontefice possa essere liberato da un colpo di mano o da un rovescio militare.
Da qui in poi il viaggio è all’insegna della fretta, senza alcun riguardo per l’anziano e malato prigioniero. In due giorni la carrozza papale, scortata da diciotto ussari, attraversò i valichi appenninici e raggiunse Bologna, il 31 marzo fu a Modena e il 1 aprile a Reggio; lo stesso giorno passò il confine con il Ducato di Parma, che conservava ancora un’effimera indipendenza, sia pur con i Francesi in casa.
Questo tuttavia bastò perché il Duca Ferdinando potesse pretendere di prendere in custodia l’augusto prigioniero e trattarlo con tutti gli onori dovuti. A Parma il Papa si fermò fino al 13 aprile, presso il convento agostiniano di San Giovanni, e poté ritemprare le forze; il Duca e il Vescovo cercarono di temporeggiare, confortati dalle notizie dell’incalzante avanzata degli Austro-Russi e dell’infiammarsi dell’Insorgenza.
Proprio per questi motivi, i Francesi costrinsero Pio VI a riprendere il viaggio la notte del 13 aprile e in tre giorni, nonostante le piogge torrenziali e la piena di molti torrenti, che andavano passati a guado, si lasciarono alle spalle Piacenza, prendendo la strada a sud del Po e deviando così dal percorso previsto, che puntava su Milano, nel timore di incontrare gli insorti di Branda de Lucioni. Dopo un periglioso attraversamento della Trebbia, il Papa giunse a Castelsangiovanni nella giornata del 17 aprile 1799 in un pessimo stato di salute che gli impedì di ricevere gli inviati del re di Spagna.
La mattina dopo, il viaggio fu ripreso e, usciti dal Ducato di Parma, il generale francese Mongen prese nuovamente il comando della scorta, comunicando che d’ora innanzi, in territorio cisalpino, l’alloggio del Papa sarebbe stato deciso di volta in volta dal locale comandante di piazza e non più dalle autorità religiose.
L’attraversamento dei borghi oltrepadani fu quanto mai commovente. Da Piacenza la notizia del passaggio del Papa era corsa rapida e aveva preceduto la carrozza, cosicché la gente uscì dai paesi e accompagnò in processione il convoglio pontificio di borgata in borgata in un tripudio di inni e al suono festoso delle campane. I comandanti giacobini avevano vietato ogni manifestazione e avevano mandato la guardia civica a presidiare i campanili, ma la determinazione della folla e l’atteggiamento conciliante delle stesse guardie, che spesso finsero di non comprendere gli ordini, fece fallire l’intento.
Furono giorni di piogge torrenziali che gonfiarono ogni corso d’acqua e trasformarono le strade in pantani, ma la gente accorse ugualmente sotto la pioggia e non temette di inginocchiarsi nel fango e tra le pozzanghere al passaggio del Papa, per rendergli l’onore dovuto al Vicario di Cristo.
Alle porte di Stradella un distaccamento di cavalleria piemontese rese addirittura gli onori militari a Pio VI, che alla sera del 18 aprile arrivò a Voghera. Qui alloggiò in casa dei Conti Dattili – oggi sede dell’Unione Industriali in via Emilia 166 dove si conserva ancora la camera papale – o, secondo il Manfredi, nel palazzo dei signori Della Tela.
Il comandante della piazza si comportò nobilmente e volle recare di persona l’omaggio al Pontefice e impose al generale Mongen di lasciarlo riposare tutta la notte, nonostante gli ordini contrari. Il Papa tuttavia non ebbe neppure la forza di rispondere all’indirizzo di saluto, né poté ricevere la delegazione del consiglio comunale e benedire il popolo che assiepava le vie attorno al palazzo.
Il mattino dopo, ritemprato dal riposo notturno, fu in grado di affacciarsi e benedire la folla che lo aveva vegliato e di ricevere il Capitolo di San Lorenzo. Il Papa ricompensò la calorosa accoglienza dei Vogheresi dichiarando privilegiato in perpetuo l’altare della Beata Vergine in Duomo.
Il viaggio riprese alla volta di Tortona, passando per Pontecurone e raggiungendo in fretta la città. Il comandante tortonese, forte del numero di soldati che presidiavano la fortezza del castello, si mostrò freddo e ostile e non voleva che il Vescovo, mons. Pio Francesco Fassati, ospitasse il Pontefice nel suo palazzo; anzi intimò l’immediata partenza per Alessandria, dove il convoglio era atteso per la sera di quello stesso giorno 19 aprile.
A nulla valsero le proteste della municipalità e dei maggiorenti cittadini e la mediazione dello stesso Mongen, che temeva per le precarie condizioni di salute di Pio VI; anche un commissario del Direttorio, giunto da Parigi, interpose inutilmente la sua autorità. Cedette solo davanti all’impossibilità di guadare lo Scrivia e concesse il ricovero del Papa in episcopio.
Alle porte della città era avvenuto un fatto increscioso: in mezzo alla folla, che riveriva il passaggio di Pio VI, si alzarono voci di scherno e insulto al Pontefice da parte di due militari, che si rivelarono essere due ex frati apostati passati alla rivoluzione. Questo episodio, insieme al comportamento del comandante, suscitò la reazione indignata dei Tortonesi che la mattina del 20 aprile, invasero la piazza del Duomo e le vie adiacenti in tumulto, disarmando alcuni drappelli della guardia civica, coll’intento di impedire la partenza del Papa.
I Francesi si ritirarono nel castello e minacciarono di cannoneggiare la città; l’intervento del Vescovo impedì lo spargimento di sangue e si venne al compromesso di accompagnare con tutti gli onori Pio VI fino allo Scrivia. La sera del 20 aprile il Papa giungeva ad Alessandria, dove veniva trionfalmente accolto e riceveva l’omaggio anche da parte del comando militare.
Le notizie dell’avanzata austriaca su Milano – che sarebbe capitolata il 29 aprile – devono aver portato a più miti consigli il comandante della piazza di Alessandria. Di lì a poco infatti nella Lombardia occidentale avrebbero suonato la campane dell’Insorgenza. Pavia sarebbe stata liberata il 4 maggio e anche Tortona sarebbe caduta il 9 dello stesso mese.
L’effimero governo cisalpino aveva ormai il fiato corto, ma intanto Pio VI passava le Alpi per consumare il suo martirio in terra francese. Per lui fu senz’altro motivo di consolazione l’omaggio di un popolo che, pur oppresso da chi si presentava come campione di libertà, non esitò a testimoniare la sua fede e il suo affetto al “dolce Cristo qui in terra”.