di Guido Vignelli
Anche l’osservatore più superficiale si accorge del fatto che il mondo moderno si trova in una situazione estremamente drammatica. Il recente crollo di illusori progetti politici, il declino delle certezze e delle sicurezze, anche economiche e sociali, sono solo l’ultima conseguenza di una crisi globale che ha lontane radici culturali, morali e religiose.
Il dilagare dell’idolatria dell’Uomo o della Natura, il diffondersi di sètte eretiche, riti satanici e falsi profeti e veggenti, il dominio politico di partiti e Stati laicisti, l’apostasia delle nazioni un tempo cristiane, la perdita della fede delle masse popolari, la corruzione dei costumi, la dissoluzione della famiglia, lo smarrimento della gioventù, le crescenti persecuzioni ai cristiani, gli sconvolgimenti nella società e nella natura (guerre, terrorismi, genocidi, terremoti, epidemie, carestie) e soprattutto la devastante crisi interna alla Chiesa, sono tutti segni preoccupanti che prospettano un fosco e angosciante scenario futuro.
Tale situazione critica induce molti cristiani a porsi questa domanda: non sarà che Dio si sta ritirando dal mondo abbandonando l’umanità corrotta e ribelle alla sua definitiva rovina? Non sarà che ci stiamo rapidamente avvicinando alla fine dei tempi, caratterizzata dalla universale apostasia, dall’avvento dell’Anticristo e dalla fine del mondo profetizzati dal Libro dell’Apocalisse
Già nella seconda metà del XIX secolo, menti chiaroveggenti sostennero che la società della certezza e della sicurezza, appena edificata con le forze della ragione, delle scienze e delle tecniche, era «un formicaio dalla base malferma, minato alle fondamenta» e destinato a prossima rovina (1); lungo il XX secolo, molte anime sensibili sospettarono che «forse il gran Giorno si approssima; …la Parusìa non può essere lontana» (2); il comune fedele potrebbe oggi ripetere l’angosciosa domanda rivolta a Gesù Cristo da un noto personaggio letterario: «Signore, che cos’è questo vento di pazzia? Non è forse che il cerchio sta per chiudersi e il mondo corre verso la sua rapida autodistruzione?» (3).
Quella se sia imminente la fine dei tempi è una domanda più i fusa di quanto si pensi e soprattutto più seria di quanto si creda in certi supponenti ambienti intellettuali. A questa domanda, comprensibile solo in una prospettiva cristiana, non può rispondere alcuna filosofia della storia; si può tentare una risposta solo facendo un’analisi dell’attuale situazione che abbia cura di usare le tre classiche fonti della conoscenza – soprattutto fìdes, ma anche ratio ed experientia -alla luce della Sacra Scrittura, della sapienza cristiana e della teologia della storia.
Lo studio della storia ci permette di cogliere e interpretare negli avvenimenti passati quegli elementi profetici che ci fanno scoprire il significato del tempo presente e intuire il corso di quello futuro; la storia sacra infatti ci dimostra che «la divina potenza parla anche mediante i fatti» (4) e che «il succedersi dei tempi non avviene per caso o per fortuna, ma contiene una gran luce e molte illuminazioni spirituali» (5).
Tuttavia bisogna considerare che, «se c’è un punto in cui la Scrittura usa un modo di esprimersi che le è interamente proprio, è quello che riguarda la cronologia del mondo», per cui «le cose stesse rivelateci da Dio accadono ordinariamente in modo ben diverso da come l’avevamo o l’avremmo immaginato»6. Pertanto, entrando in un argomento così delicato, bisogna imitare la prudenza di un Bossuet quando diceva: «io tremo nel porre le mani sull’avvenire» (7); nell’avventurarsi in un campo così oscuro e pericoloso bisogna esser molto cauti, come hanno affermato gli autentici veggenti e profeti.
Ad esempio, santa Caterina da Siena si lamentava che «molti …con l’occhio tenebroso vorranno intendere la Santa Scrittura e la profondità sua, e vorrannola esporre e intendere a loro modo; studieranno l’Apocalissi non con umiltà né col lume della fede, ma con infidelità s’avvilupperanno in cosa che non ne sanno uscire» (8); inoltre san Vincenzo Ferrer ammoniva che profezie, visioni e miracoli debbono risultarci tanto più sospetti quanto più ci avviciniamo al tempo dominato dall’Anticristo ingannatore (9).
L’accusa di “apocalitticismo”
II cristiano in attesa escatologica (10) viene spesso sprezzantemente liquidato con l’accusa di essere un malato di “apocalitticismo” o di “millenarismo”, un “profeta di sventura”, un fanatico in cerca di forti prospettive consolatorie che pretende di vivere in un’epoca decisiva della storia e s’illude che l’attuale crisi verrà automaticamente risolta da una catastrofe rigeneratrice. Egli viene preso di mira da quei «beffardi schernitori» che – come aveva profetizzato san Pietro (2Pt 3,3ss.) – soprattutto negli ultimi tempi derideranno chi fa pessimisti-che previsioni sulla rovina spirituale della società; a lui viene applicata la condanna recentemente pronunciata su coloro che «non sono capaci di vedere altro che rovine e guai; …a noi sembra di dover risolutamente dissentire da questi profeti di sventura che annunciano sempre il peggio, quasi incombesse la fine del mondo» (11).
Eppure, paradossalmente, questi stessi ottimisti considerano con molto rispetto quei catastrofisti alla moda, di matrice ecologista o comunista, che prevedono l’imminente fine del mondo dovuta alla crisi ambientale o a quella economica…
Questa liquidazione della mentalità escatologica non le fa giustizia, non è dottrinalmente fondata e mira ad eludere la serietà del problema. Pur se avanzata in nome della moderazione psicologica e della serietà dottrinale, tale liquidazione è invece emotiva, sbrigativa e antiscientifica, perché se la prende con una immagine caricaturale nella comoda prospettiva di eludere un problema serio. La corretta metodologia impone piuttosto che la questione della mentalità escatologica non venga liquidata riducendola alle sue manifestazioni palo-logiche, ma vada esaminata in quelle normali, per poi eventualmente criticare quelle abnormi (12).
Se nei primi secoli della Chiesa si esagerava nel considerare come imminente la fine dei tempi, oggi si tende piuttosto all’eccesso opposto, perché l’attuale idolatria della vita e della storia ci spinge a escludere la prospettiva escatologica nella illusione che questo nostro mondo e questa nostra epoca siano capaci di una durata indefinita o addirittura di un progresso indefinito, rendendoci ciechi davanti alla evidente precarietà della nostra società.
Eppure la fede cristiana è tutta tesa al respice finem. La sana teologia cattolica insegna che il fedele non può vivere alla giornata disinteressandosi degli avvenimenti, ma deve cogliere il disegno divino nella storia per capire in quale sua fase egli sta vivendo e quale compito riceve dalla Provvidenza; proprio a questo scopo egli deve cercare di scorgere e interpretare i famosi – e spesso fraintesi – “segni dei tempi” di cui parla il Vangelo (Le 12,56).
Anzi, il cristiano deve vivere nella prospettiva della parusìa, ossia nell’attesa del trionfale ritorno del Redentore sulla terra, anche se non può certo prevederne tempi e modi. Il fedele deve essere una sentinella che scruta l’orizzonte del futuro per vedere se incombe l’avvento dell’Anticristo o di un suo precursore, e deve mantenersi in vigile attesa del giudizio divino: non solo di quello personale (il “giudizio particolare”) ma anche di quello sociale (il “giudizio universale”); infatti possono accadere eventi storici interpretabili come una sorta di anticipazione e prefigurazione del “giudizio universale”; anzi ne sono già accaduti, come quella distruzione di Gerusalemme e quel crollo dell’impero romano di Occidente che segnarono la fine della cosiddetta “età antica”. Del resto, «la via che c’introduce all’ultima fase del Regno è tutta segnata da grandiosi avvenimenti e da parziali avventi del Signore» (13).
Gesù Cristo stesso ammonisce il fedele di essere sempre sveglio e vigile, per non rischiare di trovarsi impreparato quando Egli verrà a visitarlo senza preavviso. Se non alimenta questa vigilanza escatologica, il cristiano rischia di fare la fine dei “servi sciocchi” o delle “vergini stolte” delle note parabole evangeliche: non aspettandosi che il Padrone o lo Sposo tornasse per chieder conto del loro operato, tali servi e vergini non furono pronti per accoglierlo al suo arrivo; Egli quindi li sorprese nel sonno e li punì per la loro imprudenza (Le 12,35-36).
Giustamente quindi sant’Agostino sottolinea il legame che unisce il prepararsi al giudizio universale col prepararsi al giudizio particolare: «ogni cristiano deve vegliare affinchè il ritorno del Signore non lo trovi impreparato, e impreparato sarà trovato dal Signore chiunque sarà impreparato per l’ultimo giorno della propria vita» (14). Pertanto il Catechismo del Concilio di Trento ammonisce: «Come dal principio del mondo fu sempre massimamente desiderato da tutti il giorno in cui il Signore avrebbe assunto l’umana carne, e in quel giorno riposero la speranza della liberazione; così …oggi noi dobbiamo desiderare ardentemente quel secondo giorno del Signore, aspettando quella beata speranza e l’apparizione della gloria del sommo Dio» (15).
Quest’attesa escatologica presuppone che il cristiano abbia un sensus fidei e un senso della trascendenza capaci di sollevargli l’animo dalla trama delle contingenze, facendogli capire che questo mondo terreno, e tanto più questa società storica, per quanto possano sembrare solidi e stabili, in realtà sono fragili e precari, sono come uno “spettacolo” che può concludersi inaspettatamente e rapidamente: «è passeggero lo scenario di questo mondo!» (1Cor 7,31). Ascoltiamo quanto ci dicono sull’argomento alcuni noti cultori dell’escatologia.
Padre Ugo Vanni: «II libro dell’Apocalisse porta il cristiano a immergersi nella storia, a leggere la propria storia, il suo segmento nel grande fluire della storia in cui è immerso. Lo dovrà interpretare, dovrà leggere i “segni dei tempi” e trame poi delle conseguenze operative. L’Apocalisse tende a darci sempre quelle posizioni di fondo che ci rendono protagonisti della storia della Salvezza» (16).
Padre Candido Pozo: «Nessuna generazione può o deve escludere, come possibilità reale, la prospettiva di vivere la parusìa …Questo fa pensare che il cristiano debba fare qualcosa per affrettare la venuta della parusìa. L’uomo deve prepararsi alla parusìa con una separazione spirituale dal mondo, …perché “passa lo scenario di questo mondo”» (17).
Padre Marino da Milano: «L’escatologismo ci mette in uno stato di i perenne attesa, senza angosce di fini imminenti, ma con l’impegno di rendere sé stessi e il proprio tempo il più consoni possibili alla perfezione dell’ultima ora» .
Padre Michael Schmaus: «I segni [della Parusìa], attinti e intesi nella fede, insegnano a guardare gli avvenimenti del mondo alla luce del Cristo venturo. Essi scongiurano il pericolo di vivere troppo sicuri e tranquilli nel mondo con la sua cultura, che confida in un progresso perpetuo, e di considerare le catastrofi soltanto come disgrazie passeggere, e di relegare la venuta del Signore ai margini della coscienza, come una possibilità lontana e indeterminata» (19).
Padre Roger Calmel: «Vi sono cristiani più che soddisfatti e senza la minima inquietudine di fronte alla nostra attuale situazione. Ma la loro soddisfazione non è secondo il volere di Cristo. Essa deriva da un compromesso con il mondo, da un rifiuto di guardarlo in faccia per paura di riconoscervi l’opera del demonio e di doversi ricordare della Croce di Cristo» (20), ossia del dovere di combattere quel mondo.
Insomma, quella se la fine dei tempi sia vicina o lontana è una questione seria, che i cristiani sempre si posero e sempre si porranno, a buon diritto, in ogni fase cruciale della storia. Lo fecero numerosi santi e dottori della Chiesa, e nel XX secolo anche alcuni Papi come san Pio X (21) e Pio XI (22). Inoltre, il nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica afferma: «II tempo presente …inaugura i combattimenti degli ultimi tempi (1Gv 2,18); è un tempo di attesa e di vigilanza. …Questa venuta escatologica [di Cristo] può compiersi in qualsiasi momento, anche se essa, e la prova finale che la precederà, sono “impedite” (2Ts 2, 3-12). La venuta del Messia glorioso pende su ogni momento della storia» (23).
“Escatologismo” o “incarnazionismo”?
Bisogna ammettere tuttavia che questa posizione di attesa escatologica corre il rischio di favorire una pericolosa tendenza al fatalismo e quindi al disimpegno. Infatti sappiamo che, alla fine dei tempi, la Chiesa stessa verrà ridotta da florida città a tempio isolato, da stabile edificio a tenda nel deserto. Se dunque riteniamo di essere oggi alla vigilia dell’Apocalisse, rischiamo di cadere nella tentazione di rassegnarci alla prospettiva di una Chiesa sempre più emarginata e perseguitata, ridotta a un “piccolo gregge” costretto a ritornare nelle catacombe; rischiamo quindi di ritirarci a vita privata e in una posizione di mera sopravvivenza, rinunciando a combattere per il Regno di Cristo e per la civiltà cristiana.
Se ormai tutto è perduto, se siamo ormai vicini all’apostasia globale, e al ritorno di Cristo che sistemerà tutto chiudendo la storia, perché mai impegnarsi e sacrificarsi nella lotta? Non è forse meglio abbandonare la società al suo destino e ritirarsi nelle proprie case o sacrestie o conventi, limitandosi a pregare e a far penitenza, nella prospettiva di uscire dalle tane solo quando l’uragano sarà passato e questa epoca anticristiana finita, come sembra consigliare la stessa Apocalisse (Ap 18,4 ss.)?
La storia recente dimostra che questa tentazione “catacombalista” è molto pericolosa, perché ha favorito il diffondersi di una mentalità e di una strategia rinunciatarie che hanno spinto il mondo cattolico alla cosiddetta “scelta religiosa”, ossia al ripiegamento in sé stesso, al disimpegno temporale e infine alla resa al nemico (24).
A questa tendenza bisogna opporre che «l’attesa della terra nuova non deve indebolire, ma piuttosto stimolare, la sollecitudine nel curare la terra presente, dove cresce quel corpo della nuova famiglia umana che già riesce a offrire una certa prefigurazione adombrante il mondo nuovo» (25); «l’attesa della Parusìa di Gesù non dispensa dall’impegno in questo mondo, ma al contrario crea responsabilità davanti al Giudice divino circa il nostro agire in questo mondo» (26). Lungo la storia, il cristiano non può mai rinunciare a costruire o difendere o ricostruire la Cristianità, qualunque cosa accada.
A onor del vero, bisogna ammettere che la prospettiva dell’attesa escatologica può favorire anche un’altra tendenza, apparentemente opposta ma ancor più pericolosa. Se infatti siamo alla vigilia dell’Apocalisse, se il mondo sta diventando irrimediabilmente apostata, se la Chiesa è destinata a perdere sempre più influenza fino a diventare storicamente e socialmente irrilevante, perché mai rinchiudersi in un ghetto o rifugiarsi nelle catacombe?
Non è forse meglio invece, approfittando del poco tempo e spazio che ci resta, accettare la “sfida” lanciataci dal mondo moderno e inserirvisi per sfruttarne i vantaggi, per realizzare una rivoluzione politica che costruisca una “società più umana”? O perlomeno, nel caso che questa rivoluzione fallisca, per far valere i nostri talenti umani e riservarsi un “posto al sole”?
La storia recente dimostra che questa tendenza, meno nobile ma più realistica dell’altra, ha spinto molte élites cristiane ad una sorta di “scelta temporale”, ad un compromesso col mondo che è talvolta giunto fino alla collaborazione col nemico. È del resto inevitabile che, «se il senso delle “cose ultime” cade nell’oblio, la speranza teologale viene …sostituita da attese intramondane» (27).
Come si vede, la prospettiva dell’imminente fine dei tempi è pericolosa sia nella versione del disimpegno spiritualistico (“scelta religiosa”) che in quella dell’impegno mondano (“scelta temporale”). Nel pensiero teologico del XX secolo, questa opposizione corrisponde all’alternativa tra “escatologismo” e “incarnazionismo”, ossia tra la prospettiva della cosiddetta testimonianza profetica, che si concretizza nell’isolarsi dalla società, e la prospettiva del cosiddetto impegno sociale, che si concretizza nell’accettare la “sfida” storica e nel “compromettersi col mondo” (28); potremmo dire che si tratta di un’alternativa tra la “teologia della resa” e la “teologia della complicità”.
Ma così «l’azione della Chiesa, pendula tra il Cielo e la Terra, rimane divisa tra un’esigenza d’incarnazione nel mondo, che la tirerebbe all’ecumène umanitaria impregnando il mondo, e un’esigenza di disincarnazione, presa fallacemente come purificazione, coll’abbandono di tutte le temporalità, che viceversa dovrebbero essere investite dalla religione».
Abbiamo qui un’alternativa sicuramente falsa, perché in realtà quelle due opzioni sono due facce dello stesso errore. Entrambe presuppongono che “indietro non si torna”, che oggi sia impossibile rinnovare la Chiesa e restaurare la Cristianità, per cui non resti altro da fare che sopravvivere adattandosi alla situazione dominante allo scopo di “ridurne i danni” e magari trame un certo beneficio. Inoltre, ciascuna delle due opzioni tende a favorire, per reazione, quella opposta: il rinunciare alla battaglia temporale e l’isolarsi nelle catacombe provoca un logoramento che può finire col rovesciarsi nell’impegno mondano e nella complicità con la Rivoluzione; a sua volta, la delusione per il fallimento di questo impegno mondano può finire col rovesciarsi nel ritorno alle catacombe spirituali.
Bisogna quindi rompere questo circolo vizioso che condanna il mondo cristiano a oscillare tra la sterilità e la strumentalizzazione, finendo in ogni caso nella sconfìtta; bisogna superare questa falsa alternativa tra la missione spirituale e quella temporale della Chiesa e del cristiano, per ricomporre un’unica missione soprannaturale che s’incarna e s’impegna nel temporale allo scopo di ricondurlo allo spirituale (30). Ricordiamoci che «il concetto cristiano della storia è insieme escatologico e progressista: due concetti che, pur sembrando opposti, si completano a vicenda. La storia è escatologica, perché progredisce, ed è progressiva perché tende a un fine» (31).
Comunque sia, “l’abuso non toglie l’uso”: i pericoli della prospettiva escatologica non debbono spingerci a rinunciarvi ed anzi essa deve animare la nostra epoca non meno di quanto animava quella apostolica. Tanto più che, come vedremo, la prospettiva escatologica ha sempre avuto una terza tendenza, quella giusta, capace di stimolare i cristiani sia alla conversione personale che a un impegno sociale in favore della renovatio seeculi.
Fine del mondo o fine di un mondo?
Torniamo ora alla nostra domanda originaria, impostandola però in quest’altro modo: siamo alla fine dei tempi, oppure siamo solo alla fine di un tempo, per quanto importante e duraturo? Ossia, siamo alla fine del mondo, oppure siamo solo alla fine di un mondo, per quanto vasto e potente? Si ripropone oggi un’alternativa che si è posta più volte lungo la storia umana; ad esempio nel XV secolo, quando «tutto contribuiva a dare il senso che, se anche non finisce il mondo, certo un mondo è finito» (32); oppure nel XX secolo, quando alcuni sostenevano che «o l’Anticristo è già nato o, dopo l’uragano purificatore, ancora una volta la Croce brillerà sul mondo» (33), ed altri prevedevano che «avremo o la fine del mondo o un nuovo medioevo» .
A nostro avviso, la sapienza e la prudenza cristiane ci suggeriscono di propendere nettamente verso la seconda soluzione. Non ci troviamo cioè alla fine dei tempi, ma solo alla fine di un tempo o di un’epoca: quella della Rivoluzione anticristiana; non siamo giunti alla fine del mondo, ma solo alla fine di un mondo: quello della nuova Babele planetaria e secolarizzata. A questa epoca ne succederà una nuova: quella del trionfo della Chiesa; a questa società ne succederà una nuova: quelle della rinata Cristianità che realizzerà con maggior fedeltà e santità il Regno sociale di Cristo (35).
A dare questa risposta ci spingono numerosi argomenti. Fra di essi, le autentiche rivelazioni profetiche concesse dallo Spirito Divino a numerosi Santi, hanno una importanza che non è lecito sminuire. Pur denunciando la crisi e l’apostasia, pur accusando colpe e minacciando castighi, queste rivelazioni preannunciano anche un futuro di riscatto, riscossa e trionfo: il che smentisce il luogo comune, secondo cui la prospettiva apocalittica finirebbe col ripiegare in prospettive pessimistiche e fallimentari.
Prendiamo ad esempio la più autorevole e significativa profezia concessa all’età moderna: il messaggio del Sacro Cuore di Gesù. Nel 1689, il Divin Redentore preannunciò a santa Margherita Maria Alacoque un nuovo trionfo storico del Cristianesimo all’insegna del proprio Cuore: «lo regnerò, malgrado i miei nemici! Il mio Cuore adorabile vuole trionfare sui grandi della terra, …abbattendo tutti i nemici della Santa Chiesa». Nel riferire questa profezia trionfale, la veggente francese ne sottolineò l’aspetto politico: «Si vedranno i regnanti umiliarsi davanti al Cuore adorabile del Salvatore e attingere, dai tesori di grazie che vi sono racchiusi, il modello della loro condotta e il sostegno il più efficace del loro potere» (36).
Prendiamo ora ad esempio la più autorevole e significativa profezia concessa all’età contemporanea: il messaggio di Fatima. Nel 1917, la Madonna preannunciò ai veggenti portoghesi un nuovo trionfo storico del Cristianesimo all’insegna del proprio Cuore Immacolato. Ella ha denunciato l’apostasia del nostro tempo; ha minacciato castighi se il mondo non si pentirà e ha promesso benefici se invece si convertirà; in ogni caso, lo scenario che ha delineato non preannuncia la fine dei tempi ma anzi l’avvento di una nuova era cristiana.
La Beatissima Vergine ha infatti annunciato il trionfale avvento del proprio Regno, avvento che non chiuderà la storia ma anzi aprirà una nuova epoca: «Infine, il mio Cuore immacolato trionferà; il Santo Padre mi consacrerà la Russia, che si convertirà, e al mondo verrà concesso un tempo di pace» (37). Si noti che questo “tempo di pace” non potrà essere quello eterno e definitivo dell’aldilà, bensì dovrà essere un’epoca temporale e provvisoria su questa Terra. È quindi evidente che l'”era di Maria” profetizzata a Fatima non sarà la fine dei tempi, ma una nuova epoca di trionfo della Chiesa. Quello di Fatima è quindi un messaggio non solo di tragedia ma anche di speranza, sia celeste che terrena.
La stessa Sacra Scrittura suggerisce questa prospettiva storica. Secondo le oscure profezie della Bibbia, negli “ultimi tempi” accadranno i seguenti avvenimenti in probabile successione storica: graduale conversione del mondo alla Fede cristiana; epoca di vittorie della Chiesa; graduale apostasia delle nazioni dalla Chiesa; punizione divina di quest’apostasia; ritorno di tutte le nazioni alla Chiesa; conversione del popolo ebraico; nuova e maggior epoca di trionfo della Chiesa; nuova e più grave apostasia, culminante nell’avvento dell’Anticristo; sconvolgimenti terrestri e prodigi celesti; ritorno glorioso e vittorioso del Redentore (parusìa); infine resurrezione dei morti, giudizio universale, rigenerazione del cosmo e avvento del Regno eterno nell’aldilà (38).
Afferma un teologo contemporaneo, peraltro ostile ai millenarismi: «I luoghi biblici sembrano alludere a un periodo della storia degli ultimi tempi, in cui Satana agirà subdolamente con particolare virulenza fomentando l’apostasia, prima che s’inauguri un periodo particolarmente felice per i cristiani; solo dopo verranno i tempi della fine, in cui Satana si mostrerà in compagnia dell’Anticristo».
Quel periodo di prova svolgerà un ruolo provvidenziale, in quanto contribuirà «alla purificazione della Chiesa (lo svelamento dei segreti dei cuori!) e alla crisi definitiva di un modo incredulo e indifferente di vivere come se Dio non ci fosse; seguirà una nuova Pentecoste» (39).
Claude Arminjon, un teologo del XIX secolo reso famoso da santa Teresina di Lisieux, affermava: «II sentimento più accreditato e conforme alle Scritture, è che (…) la Chiesa cattolica entrerà ancora una volta in una lunga epoca di prosperità e di trionfo»40. Secondo lui, l’insorgere di questa epoca sarà favorita dalla conversione d’Israele, conversione che non chiuderà la storia ma ne aprirà una nuova fase; come l’uscita degli ebrei dalla Chiesa occasionò la conversione dell’antico mondo pagano alla Fede, così il loro ritorno alla Chiesa occasionerà la conversione del moderno mondo neopagano alla Fede, come sembra profetizzare un noto passo di san Paolo: «Se la caduta d’Israele ha risollevato i pagani e il suo impoverimento ha arricchito i popoli, cosa mai provocherà la sua conversione?» (Rm 11,12).
Va notato che anche il recente Magistero ecclesiastico ha ammesso che i “segni dei tempi” annunciano chiaramente l’avvento di una “nuova era”. Ad esempio, il Concilio Vaticano II è stato dominato dalla convinzione che, «ai nostri giorni, l’umanità è incamminata verso un nuovo ordine di cose» (41). Giovanni Paolo II ha annunciato per il terzo millennio una nuova fase storica che sarà caratterizzata da «una nuova primavera di vita cristiana» (42) e ha dichiarato di aver fiducia che «l’avvenire offrirà anche ai noi [contemporanei] la manifestazione di un nuovo aspetto della pienezza di Cristo» (43).
Benedetto XVI ha espresso ai partecipanti della Giornata Mondiale della Gioventù (2008) la sua convinzione che «il Signore vi sta chiedendo di essere profeti di questa nuova era, …capaci di attrarre la gente verso il Padre e di costruire un futuro di speranza per tutta l’umanità» (44). Bisogna però chiarire bene che questa “nuova era” non sarà in contrasto con quella cristiana bensì un suo sviluppo storico; non sarà l’era antropocentrica sognata dagli umanisti del XV secolo fino ai marxisti del XX secolo, tantomeno quella cosmocentrica sognata dagli odierni ecologisti, né una via di mezzo tra le due, bensì sarà un’era teocentrica ed anzi cristocentrica.
Possiamo quindi accettare la diagnosi del grande storico cattolico Christopher Dawson: «L’aspetto escatologico della dottrina cristiana …è divenuto ancora una volta rilevante e significativo; difatti, anche se noi possiamo non credere alla fine imminente del mondo, difficilmente ci è possibile dubitare che un mondo sta per finire. …Tutto quel che sappiamo, è che il mondo sta per essere radicalmente mutato e che la fede cristiana rimane il mezzo di salvezza: cioè un mezzo per il rinnovamento della vita umana mediante lo Spirito di Dio che non ha limiti e che non può essere impedito né da potenza umana né da catastrofe naturale» (45).
“Segni dei tempi”, “ultimi tempi” e “fine dei tempi”
Fra i biblici “segni dei tempi”, i teologi distinguono quelli che indicano gli “ultimi tempi” da quelli che indicano la “fine dei tempi”. Come abbiamo detto all’inizio, oggi vediamo manifestarsi dovunque numerosi “segni dei tempi” gravemente negativi e angoscianti. Ma questi segni, per quanto drammatici, non possono annunciare con certezza la “fine dei tempi”, perché si sono manifestati più volte in passato caratterizzando fasi storiche ormai superate; essi possono quindi solo annunciare una fase cruciale degli “ultimi tempi”, ossia dell’epoca messianica iniziata con la Redenzione, come ci avverte lo stesso Redentore (Mt 24,14).
I veri segni di una imminente “fine dei tempi”, ossia quelli che la caratterizzano in modo unico e quindi possono annunciarla con sicurezza, non hanno carattere tanto naturale quanto soprannaturale e sono soprattutto i seguenti, dalla incerta successione: la proclamazione del Vangelo a tutte le nazioni del mondo (Mt 24,14), la conversione d’Israele, la venuta dell’Anticristo (che provocherà il terzo “abominio della desolazione” (46) e l’ultima persecuzione della Chiesa) e la finale apostasia.
Orbene, è evidente che il popolo ebraico non si è ancora convertito ed anzi è ancor più ostinato nella sua illusione di realizzare un regno messianico di universale potenza terrena (47); è altrettanto evidente che l’Anticristo non è ancora venuto, anche se il XX ne ha visto all’opera alcuni degni precursori (come Hitler, Stalin e Mao) e ha visto pure la maggior persecuzione anticristiana della storia intera. Ma non si potrebbe sostenere che la proclamazione del Vangelo a tutte le nazioni sia già avvenuta?
Tutto dipende da cosa s’intenda per “proclamazione” del Vangelo. Secondo la tradizionale esegesi, perché l’evangelizzazione sia compiuta, non basta che i missionari portino all’intera umanità un ortodosso annuncio del Vangelo; bisogna pure che questo annuncio produca la conversione dei popoli (anche se non necessariamente completa e definitiva), integrandoli nella Cristianità intesa come grande famiglia di nazioni figlie della Chiesa. Da Regno di diritto, quello di Cristo deve tradursi in un Regno di fatto comprendente la plenitudo gentium, rendendo così a Dio quella gloria piena, globale e duratura che la natura, lo spazio e il tempo devono all’Assoluto, all’Immensità e all’Eternità (48).
«È necessario che il dominio di Cristo, che gli spetta per diritto di creazione …e per diritto di conquista, …si trasformi nel Regno di Cristo: il Regno importa che i sudditi riconoscano e accettino il Re e si lascino da Lui governare. …Il trionfo di Cristo si avrà quando il suo Regno, che è la Chiesa, si sarà esteso a tutto il mondo. …Il Regno di Dio sarà instaurato quando l’uomo avrà realizzato tutte le possibilità della propria natura e quando il Regno di Cristo, che ne è l’anticipazione, si sarà esteso a tutta l’umanità» .
Pertanto, la fine dei tempi potrà venire solo dopo che l’intera umanità avrà reso a Dio quell’omaggio che Gli deve: «Questo Vangelo del Regno verrà predicato su tutta la terra, per essere una testimonianza presso tutti i popoli. Solo allora verrà la fine» (Mt 24,14); «è necessario che Cristo regni, finché non avrà posto sotto i piedi tutti i suoi nemici. …Quando tutte le cose Gli saranno sottomesse, …allora verrà la fine» (1Cor 15.24-25) (50).
Secondo il grande esegeta controriformista Tomàs de Maldonado, prima della fine del mondo tutti i popoli dovranno aver raggiunto una tale conoscenza del Cristo, da essersi schierati per Lui o contro di Lui; ma questo presuppone che la Chiesa abbia prima regnato sull’umanità in modo globale, profondo e duraturo (51). Osserva un grande teologo contemporaneo, il card. Louis Billot: «L’epoca delle nazioni, quando si compirà? Quando il Redentore della Chiesa, il Santo d’Israele, verrà riconosciuto come Dio da tutta la terra, ossia quando …la Religione cristiana verrà riconosciuta, accettata e praticata dalle innumerevoli varietà della grande famiglia umana» (52).
Orbene, questo trionfo terreno e temporale della Chiesa è storicamente avvenuto? La storia stessa ci dimostra ch’esso, «di fatto, non si è ancora verificato» (53), né nel suo aspetto quantitativo né in quello qualitativo, perché non si è ancora vista un’epoca in cui l’umanità sia stata costantemente, globalmente e pienamente cristiana. Spieghiamoci meglio.
Incompiutezza del Medioevo
II trionfo della Chiesa non si è ancora realizzato nel suo aspetto quantitativo, ossia nella dovuta estensione temporale e spaziale, cioè storica e geografica. Difatti, dopo quella “dolce primavera della fede” che fu il Medioevo, non è arrivata una trionfante estate ma il declinante autunno della età moderna; a quella fase di giovinezza della Cristianità non è seguita la maturità, ma la precoce senilità tuttora in corso.
Certamente, nel Medioevo la Chiesa convertì ceti e popoli, regni e imperi, ispirandone i costumi, le leggi, i governi e le istituzioni. Certamente i neonati regni cristiani, a loro volta, facilitarono la missione evangelizzatrice della Chiesa e soprattutto la difesero dalle offensive sataniche (54); questi regni costituirono gli antemurali stabiliti dalla Provvidenza a protezione della Chiesa, affidati a «quei prìncipi secolari, investiti dei pubblici poteri, i quali dovranno anch’essi render conto del potere a loro concesso e destinato essenzialmente, nel divino progetto, ad assicurare la protezione materiale della Chiesa» (55).
Ma questa cristianizzazione della società fu imperfetta, inoltre fu limitata a un’area geografica ristretta, infine durò per un periodo storico relativamente breve. Il Medioevo fu infatti ambiguo, oscillante e caratterizzato dalla commistione di luce e tenebra, tanto da far quasi pensare di essere costituito da due epoche compresenti e conflittuali in una (56), come i gemelli Giacobbe ed Esaù che si contrastavano nel seno materno.
Proprio al culmine del periodo medioevale, san Bernardo si lamentò del fatto che «anche questo nostro mondo ha le sue tenebre, e non poche». A partire dal XV secolo, queste tenebre riuscirono a produrre la Rivoluzione anticristiana, che lentamente ma progressivamente riuscì ad allontanare dalla vera fede dapprima i ceti dominanti, poi gli Stati e infine interi popoli.
Lungo l’età moderna la Chiesa, pur conquistando un nuovo continente, perse proprio quelli in cui era nata. Dobbiamo quindi ammettere che sia il Medioevo che la successiva Controriforma, pur essendo stati periodi storici fausti, splendidi e sinceramente cristiani, restarono però imperfetti, limitati e transitori. Essi dunque non resero a Dio quella gloria piena, globale e duratura che Gli devono per rigoroso diritto.
Questa tesi è stata sostenuta da autorevoli teologi, storici e politologi. Secondo il padre Ramière, «anche in quell’epoca di fede, non tutte le nazioni erano sottomesse alla Chiesa. Un intero continente e la maggior parte di un altro restavano ancora immersi nelle tenebre dell’errore». Secondo il prof. Dawson, «la permeazione della civiltà europea da parte del Cristianesimo non fu mai completa e, in proporzione al suo incorporarsi nell’ordine sociale, la Chiesa ebbe la tendenza a secolarizzarsi e ad essere assorbita dal mondo» (58).
Secondo il prof. Corréa de Oliveira, «gli ammiratori del Medioevo mal si esprimono, quando sostengono che il mondo attinse in questa epoca il massimo del suo sviluppo; nella linea sulla quale avanzò la stessa civiltà medioevale, molto oltre ci sarebbe da progredire» (59). Lo stesso Pio XII ebbe a osservare: «Si pretende sovente d’identificare Medioevo e Civiltà cattolica. Tale identificazione non è del tutto esatta. …
Nessuna civiltà [storica] può vantarsi di essere tale, così totalitariamente, nemmeno la civiltà medioevale» (60); pertanto «a nessuno può sfuggire il fatto che, in questo mondo, la Chiesa militante e soprattutto l’umana società, non hanno raggiunto quella perfezione morale che risponde ai desideri manifestati da Gesù Cristo» (61).
Insomma, il tempo e lo spazio non possono finire prima di aver consacrato i propri secoli e i propri luoghi alla eternità e immensità divine; l’umanità non può finire prima di aver dato il proprio pieno contributo al trionfo della Chiesa. Ma è evidente che la storia non ha ancora reso a Dio quella piena gloria che Gli deve, se non altro perché la Chiesa cattolica annovera attualmente circa 1.166 milioni di battezzati, ossia appena il 17% della popolazione mondiale, meno di un quinto del totale (62).
Dobbiamo allora aspettarci l’avvento di un’ultima fase della storia che attuerà la promessa evangelica di realizzare pienamente il Regno di Cristo, riunendo «un solo ovile sotto un solo pastore» (Gv 10,16). Ciò non significa che nascerà una nuova Chiesa, ma solo che nascerà una migliore Cristianità.
Necessità di un trionfo sociale della Chiesa
C’è di più. Il Regno di Cristo e della Chiesa è rimasto finora incompiuto non solo nel suo aspetto quantitativo, ma anche in quello qualitativo, ossa nella sua integrità, pienezza e profondità. Bisogna infatti notare che «l’escatologia cristiana assume dimensione plenaria, scandendosi lungo quattro livelli: personale, collettivo, storico, cosmico, e allontana come insufficiente la versione dell’escatologia che, volgendosi solo al singolo e tematizzando conseguentemente la “salvezza dell’anima”, configura una privatizzazione delle “cose ultime”» (63).
Poiché Dio ha creato, redento e santificato l’uomo tutto intero, dunque anche nella sua natura sociale, l’umanità deve rendere al suo Signore un riconoscimento e un omaggio non solo individuale ma anche collettivo, glorificandolo non solo nei propri singoli componenti ma anche nella propria vita associativa. È stato giustamente ammonito che «una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta» (64); ma bisogna aggiungere che “una fede che non plasma la società è una fede non pienamente accolta né pensata né vissuta”, perché lascia sussistere una separazione tra religione e politica che impedisce la tanto auspicata “unione tra fede e vita”.
Infatti non solo le “culture” e le “civiltà”, ma anche le comunità, le società, i popoli, le strutture e le istituzioni politiche (compresi gli Stati) devono sacralizzarsi sottomettendosi al Cristo, onorandolo e imitandolo nelle loro usanze, strutture, leggi, autorità e gerarchie, ossia, in concreto, contribuendo alla edificazione della Cristianità, «fondando un novo regno / ove abbia la pietà sede secura» (65).
Proprio in questo consiste la Regalità sociale di Cristo, verità di fede proclamata dalla Sacra Scrittura: «Mi è stato dato ogni potere, come in Cielo, così anche sulla Terra» (Mt 28,18); Gesù Cristo è «Re dei re e Sovrano dei sovrani» (Ap 19,16); «è necessario che Cristo regni» (1Cor 15,25); «al solo Signore appartiene l’imperio, è Lui che comanda ai popoli; prostrandosi davanti a Lui, tutte le famiglie delle nazioni Lo adoreranno» (Sai 22,28-26); «tutti i Re della terra Lo adoreranno e tutte le nazioni Lo serviranno» (Sai 71,10-11); «Egli giudicherà i popoli e a tutte le nazioni detterà le sue leggi» (Is 2,4); «al Figlio dell’Uomo sono stati consegnati sovranità, maestà e regno, sicché tutti i popoli, le nazioni e le genti di ogni lingua Lo servono; il suo è un potere eterno che non passerà e il suo regno non verrà mai distrutto» (Dn 7,14).
Anche la liturgia sottolinea l’aspetto sociale e istituzionale del Regno di Cristo rivolgendogli questa preghiera: «fa’ sì che i capi delle nazioni / Ti diano pubblico onore, / i maestri e i magistrati Ti venerino, / le leggi e le arti Ti esprimano; / le insegne dei sovrani si glorino / nell’essere consacrati a Te, / il Tuo mite scettro governi / sia le patrie che le famiglie» (66). Lungo la storia, la Regalità sociale di Cristo va ufficialmente manifestandosi soprattutto nello spirituale dominio esercitato dalla Chiesa su popoli e nazioni; difatti Dio stesso dice rivolgendosi alla Sua Chiesa: «lo glorificherò te, o mia bella Casa. …I re stranieri ti serviranno; …le nazioni e i re che non vorranno servirti verranno annientati. …Le nazioni osserveranno la tua legge e tutti i re zeleranno la tua gloria» (Is 60,12; 62,2).
Ogni fedele deve porsi in questa prospettiva quando, recitando la preghiera del Pater noster comandataci dal Redentore, rivolge a Dio questa precisa richiesta: «venga il tuo Regno, sia fatta la tua volontà, come in Cielo, così anche sulla Terra» (Mt 6,10). Ora, la teologia insegna che il Regno di Dio in Cristo può essere considerato sotto tre aspetti: quello individuale, che va realizzandosi nella vita temporale della singola anima per impulso della Grazia; quello sociale, che va realizzandosi nella vita storica della Chiesa militante sotto la guida della Provvidenza; e quello escatologico, che si realizzerà solo nell’aldilà, una volta completata la famiglia dei predestinati.
Quando dunque chiediamo a Dio che venga il suo Regno, non alludiamo solamente al Regno escatologico (ossia celeste, perfetto e definitivo) che inizierà solo alla fine del mondo e che si realizzerà nella Chiesa trionfante, ma alludiamo anche al Regno temporale (ossia terreno, imperfetto e provvisorio) che va realizzandosi storicamente nella Chiesa militante e nella civiltà cn’stiana, Regno che dovrà compiersi prima della fine del mondo (67).
In questa preghiera, «chiediamo pure che, cacciati dal suo Regno gli eretici e gli scismatici, banditi gli scandali e le cause dei peccati, il nostro Padre celeste purifichi il campo della sua Chiesa, sicché questa, tributandogli un culto pio e santo, goda di una pace dolce e tranquilla. …Chiediamo dunque ardentemente allo Spirito divino …che abbatta il regno di Satana; …chiediamo che Cristo vinca e trionfi, che la sua Legge sia in vigore nel mondo intero e che i suoi decreti vengano posti in atto» (68).
Così san Giovanni Crisostomo spiega questa dimensione sociale della preghiera evangelica: «Ad ogni fedele che prega, Gesù Cristo comanda di farlo con respiro universale, cioè per tutto il mondo. Il fedele infatti chiede che la divina volontà sia fatta non solo in lui, ma anche su tutta la terra, e ciò affinchè dalla terra sia eliminato l’errore e sulla terra regni la verità, sia distrutto il vizio, rifiorisca la virtù, e la terra non sia diversa dal Cielo» (69).
San Cipriano ne conclude: «Facciamo bene a domandare l’avvento del Regno di Dio, cioè del Regno celeste che include anche quello terreno», perché «la volontà di Dio consiste in questo: nel subordinare il temporale allo spirituale e nel trionfo di quest’ultimo» (70). Pertanto un grande teologo del XIX secolo, il card. Edouard Pie, spiega che pregare affinchè venga il suo Regno, significa impegnarsi «a realizzare questo Regno temporale di Dio e ad abbattere ciò che l’ostacola» (71).
Del resto, insiste un noto teologo contemporaneo, se l’aspetto primario della speranza teologale consiste nell’attesa dell’altro mondo, «non bisognerebbe mettere in opposizione ad esso la speranza di vedere il compimento terreno della signoria divina. Dopo Cristo, tutta la Città di Dio è divenuta oggetto di speranza teologica. …Il cristiano dunque speri, senza timori e senza secondi fini, lo stabilimento della regalità terrena del Signore.
…La città terrena, anche se transitoria e peritura, dev’essere almeno un riflesso della Gerusalemme celeste. La società umana, se è essenzialmente imperfetta e miserevole, può essere tuttavia una immagine infedele della società intra-trinitaria» (72).
Questa glorificazione sociale di Gesù Cristo non può essere rinviata alla fine dei tempi e tantomeno esiliata nell’altro mondo, perché può realizzarsi solo durante la storia e su questa Terra. Leone XIII insegna che «le nazioni, non potendo propagarsi oltre la cerchia del tempo, devono ricevere la loro retribuzione su questa terra» (73); il padre Taparelli d’Azeglio spiega che «la società, se deve avere una ricompensa sociale, deve conseguirla in questo mondo, perché nell’altro non sussisterà nella specifica forma di società che ora la connota» (74). Mentre infatti gli uomini, pur meritando o peccando in questa vita, vengono premiati o puniti in maniera perfetta e definitiva solo nell’altra, i popoli invece, siccome vivono solo in questo mondo, possono ricevere il premio o la pena meritati solo lungo la storia.
Questo Regno terreno, temporale, sociale e militante, oggi viene ingiustamente sottaciuto, oppure pericolosamente travisato, da una predicazione e da un insegnamento che ricadono nella solita erronea opposizione e falsa alternativa tra “escatologismo” e “ìncarnazionismo”. La posizione “escatologista” riduce il Regno di Cristo al suo aspetto individuale, eterno e celeste, espellendolo dall’orizzonte temporale ed esiliandolo nell’aldilà (75); un tipico esempio di questa mentalità si manifesta oggi in un certo “carismatismo” soggettivistico, disincarnato e sentimentale.
La posizione “incarnazionista” invece riduce il Regno al suo aspetto sociale, storico e mondano, rinchiudendolo nell’orizzonte temporale e terreno; un tipico esempio di questa mentalità si manifesta in un certo “solidarismo” collettivistico e sociologistìco che predica la “teologia della liberazione”, se non direttamente quella della rivoluzione. Entrambe queste posizioni sbagliano per unilateralità, l’una rifiutando l’aspetto temporale del Regno, l’altra riducendo il Regno a questo aspetto; ne derivano le ben note conseguenze faziose e settarie, sia in campo religioso che politico.
Contro questa falsa alternativa riduzionistica, bisogna ribadire la dottrina cattolica tradizionale: Gesù Cristo possiede «assoluta signoria sulla storia e sul mondo» (76); da vero e proprio Re e Sovrano dell’umanità, Egli ne guida la storia fino al suo finale compimento, che consiste nello stabilimento definitivo del suo Regno. Quando Pio XI istituì la festa della Regalità di Cristo (1925), a chi gli obiettava che tale festa era superflua in quanto veniva già celebrata in quella dell’Epifania, il Papa rispose che «le prospettive escatologiche di quest’ultima non soddisfacevano coloro che volevano invece sottolineare la regalità attuale del Cristo sul mondo e lavorare alla restaurazione della Cristianità in terra» (77).
Va quindi respinta quella impostazione falsamente spiritualistica che vorrebbe ridurre il Cristianesimo a un escatologismo animato dalla “spiritualità della kenosis e dell’esilio” e che vorrebbe ridurre la Chiesa a una comunità che si limita a sopravvivere pellegrinando nel deserto accampata nelle tende e rifiutando di rinchiudersi in un Tempio e ancor più di stabilirsi in una Città terrena.
Questa era la prospettiva del popolo ebraico nella sua prima fase storica, ossia nell’epoca patriarcale e tribale del nomadismo e dell’Arca dell’Alleanza; ma poi, per volontà divina, lo stesso ebraismo progredì costituendo il regno politico di Davide attorno al Tempio nella città di Gerusalemme, come anticipazione e preparazione del Regno messianico della Chiesa costituito attorno all’altare eucaristico, a sua volta anticipazione e preparazione del Regno definitivo che si compirà solo alla fine dei tempi attorno al trono dell’Agnello nella Gerusalemme celeste (Ap 19).
Pertanto, quei teologi che predicano una malintesa renovatio cristiana consistente nell’ “abbattere i bastioni” dalla Città di Dio, nel dissolvere le istituzioni ecclesiastiche e nell’ “uscire dal Tempio” per tornare a vagabondare come esuli nel deserto della storia, contrastano il piano divino ormai compiutosi nella Chiesa negandole quel diritto di stabilità, sicurezza e conquista che le è stato concesso dal suo Fondatore per compiere la sua missione (78).
Tale tesi presuppone una errata concezione del Regno messianico, che viene qui ridotto al suo aspetto trascendente, ossia invisibile, spirituale ed eterno, escludendone quello immanente, ossia visibile, materiale e temporale; presuppone insomma quel!’ «errore moderno, che tenta di ridurre l’insegnamento e l’opera di Gesù ad una riforma morale del tutto inferiore, senza contenuto storico e sociale» (79): riforma quindi destinata al fallimento.