Il filo rosso che unisce matrimoni gay Usa e omofobia in Italia
Costantino Esposito
A una prima analisi, la questione risulta pesantemente condizionata dai contrasti di natura politica e ideologica (tot giudici liberali contro tot giudici conservatori) e dal peso delle lobby più attive circa una sempre più radicale omologazione ed equiparazione dei diritti degli individui rispetto alle differenze di genere. Ma penso che la semplice opposizione tra questi due fronti non spieghi ancora adeguatamente la posta in gioco di una sentenza da più parti definita «storica».
La novità sta piuttosto nella mutazione nel significato di alcune parole decisive, le quali racchiudono e veicolano una concezione e un sentimento determinato di sé e del mondo. Il progressismo di cui si ammanta la decisione della Corte sui matrimoni gay non è più sinonimo di libertarismo (come è stato di fatto a partire soprattutto dagli anni Settanta), quanto di un nuovo assetto borghese.
A essere rivendicata non è la libertà di ciascuno nel progettare, costruire ed esprimere pubblicamente la propria scelta autonoma di vita, quanto la garanzia di poter regolarizzare in via di principio ogni possibile differenza di progetto esistenziale in un canone neutro a livello giuridico e istituzionale.
Si è passati così dalla rivendicazione di diritti tendenzialmente assoluti, che non tolleravano alcuna delimitazione da parte di un ordine culturale e sociale visto come soffocante, alla rivendicazione del diritto di poter disporre di istituzioni e leggi che permettano a quei diritti assoluti di stabilizzarsi, di istituzionalizzarsi, di diventare addirittura doveri sociali. In un’intervista al “Corriere della sera” del 27 giugno scorso, lo scrittore David Leavitt ammetteva onestamente: «Negli anni 70 e 80 a molti gay interessava fare outing e vivere secondo [un] modello di liberazione e promiscuità sessuale», e il matrimonio restava «un’istituzione borghese per eterosessuali. Ma forse eravamo come la volpe e l’uva: ci eravamo convinti di non averne bisogno perché non potevamo averlo».
Ma poi, soprattutto «di fronte a una catastrofe sterminata come l’Aids, molti gay si sono rifugiati in stili di vita più conservatori», fino a «diventare coppie e famiglie affiatate». Ma c’è un secondo aspetto di questa mutazione antropologica e semantica, ed è che questo esito egualitarista-istituzionale dei diritti individuali si appella in definitiva a motivazioni «naturali» e «religiose», se non addirittura «evangeliche». E questo, paradossalmente, a dispetto dell’aspra polemica ingaggiata contro le basi naturali attribuite tradizionalmente dalle Chiese al solo matrimonio tra un uomo e una donna in vista della procreazione.
Commentando con toni commossi la decisione della Corte Suprema, il presidente Obama ha detto: «II nostro popolo ha dichiarato che noi siamo stati creati tutti uguali, e uguale dev’essere anche l’amore con cui ci impegniamo gli uni con gli altri». L’eguaglianza creaturale viene tradotta nella uniformità dell’amore. Ma cosa vuoi dire che l’amore dev’essere «uguale» per tutti? Forse nient’altro che la misura dell’amore è il sentimento soggettivo, e dunque l’emozione reciproca, e che questo e del tutto sufficiente a renderlo un’istituzione matrimoniale (e patrimoniale).
Insomma, love is love, l’amore è quello che è, senza alcun’altra “ragione” che il suo stesso feeling. Il carattere «naturale» del matrimonio gay esprimerebbe la naturale uguaglianza di tutti gli individui. Tralasciando però che la natura degli individui “creati” dice sì un’uguaglianza in ordine alla dignità e al valore del singolo, ma proprio all’interno di precise e costitutive differenze. Obama ha poi continuato: «Le leggi del nostro Paese si stanno approssimando alla verità fondamentale che milioni di noi americani conserviamo nel nostro cuore: quando tutti gli americani sono trattati come uguali – non importa chi sono o chi amano – siamo tutti più liberi».
Appunto, è la verità che rende liberi, secondo il detto del Vangelo: e la “verità” diventa che tutti devono essere trattati ugualmente. E qui non possiamo non pensare al secondo fatto di cronaca, stavolta italiano, di cui si parlava all’inizio, vale a dire la proposta di legge contro l’emofobia in discussione alla Camera.
L’obiettivo è quello di identificare come reato perseguibile qualsiasi comportamento o anche atto legislativo che non riconosca o penalizzi qualcuno a motivo.del suo «orientamento sessuale», intendendo però quest’ultimo non come un’oggettiva e naturale differenza sessuale, ma come una più culturale e soggettiva «identità di genere».
E per definire questa identità sarebbe sufficiente parlare della «percezione che una persona ha di sé come appartenente al genere femminile o maschile, anche se opposto al proprio sesso biologico». Da più parti si è denunciata la riduzione decisamente costruttivista dei diritti di un «genere» che si auto-determina in base ai feeling, e il rischio di vietare per legge ogni critica al sentimento, incontestabile solo perché è un sentimento avvertito soggettivamente (per cui sarebbe penalmente perseguibile il dissenso sui matrimoni gay o sull’adozione per coppie omosessuali).
Qui ci limitiamo a porre una questione: se siamo davvero uguali, – si dice – uguale dev’essere il valore e il trattamento delle nostre emozioni. Ma quando ciascuno di noi pensa a se stesso, che cosa pensa in verità? Solo di essere uguale agli altri? O più al fondo di questa (sacrosanta) uguaglianza sta quell’irriducibile impronta personale che ognuno ha, o meglio “è” per se stesso?
E non fa parte di questa irriducibilità il nostro essere maschi o femmine? O il nostro esser nati da un uomo e da una donna, da un padre e da una madre? Ciascuno penso debba essere libero di amare chi vuole; ma non di essere ciò che non è, di negare la sua storia personale e la sua differenza specifica. E il rilevarlo, in nome della stessa libertà, non può essere un reato.