pubblicato su La Critica Sociologica,
n° 140, gennaio-marzo 2002, pp. 100-112
di PierLuigi Zoccatelli
Lo scenario religioso italiano
Lo scenario di continua mutazione del quadro socio-religioso nell’attuale contesto postmoderno ha imposto ormai da alcuni anni la necessaria presa in considerazione non solo di quell’ambito comunemente circoscritto dalla categoria dei “nuovi movimenti religiosi” e del soggiacente fenomeno della “nuova religiosità”, ma ancor più – e in generale – l’analisi approfondita delle minoranze religiose e delle religioni di minoranza.
In tal senso, uno strumento auspicabilmente utile nella quotidiana verifica dello specifico caso italiano è ora a disposizione, dopo la pubblicazione dell’Enciclopedia delle religioni in Italia, curata dal CESNUR, il Centro Studi sulle Nuove Religioni, nella quale sono raccolte in schede – premesse da ampie introduzioni storiche, dottrinali e sociologiche – oltre seicento religioni (e vie spirituali che, benché non religiose, rientrano tuttavia in una fenomenologia degli accostamenti contemporanei al sacro) presenti in Italia.
Fra i dati significativi che emergono dall’enciclopedia appena menzionata – frutto di un lavoro sul campo durato alcuni anni – si rileva come significativo quello secondo cui, in un paese come l’Italia, nel quale il pluralismo religioso è tutto sommato recente, le minoranze religiose rappresentano una percentuale sul totale della popolazione (fissato a 57.440.000 cittadini italiani) dell’1,92 per cento dei cittadini italiani e circa il 3,50 per cento se si considerano i residenti sul territorio (valutati tra i cinquantanove e i sessanta milioni, cifra comunque più incerta per la difficoltà di precisare il dato dell’immigrazione clandestina (http://www.cesnur.org/2002).
Come si può osservare, anche solo questo dato contribuisce a salutare e congedare l’informazione – molte volte ripetuta, ma che almeno dagli anni 1980 non è mai stata vera – secondo cui le minoranze religiose in Italia rappresentano globalmente l’uno per cento della popolazione.
Scendendo nel dettaglio, e per venire all’argomento di cui ci vogliamo qui occupare, dell’1,92 per cento di cittadini italiani che appartengono a minoranze religiose, il CESNUR ha reperito circa 74.000 buddhisti italiani praticanti, oltre a circa 25.000 buddhisti praticanti non cittadini italiani, ma residenti sul territorio. Per rimanere ai praticanti cittadini italiani, il dato di 74.000 buddhisti tiene conto di cinquantamila fedeli dell’area concettualmente rappresentata dall’Unione Buddhista Italiana (theravada, zen e vajrayana: peraltro non tutti fanno parte di centri U.B.I.), ventunomila membri della Soka Gakkai, tremila buddhisti di altre tradizioni (la stessa area Nichiren non si riduce alla sola Soka Gakkai); il tutto suddiviso in un’area che comprende allo stato attuale 70 centri distinti e organizzati, diffusi sostanzialmente su tutto il territorio http://www.cesnur.org/2002/.
Il buddhismo in Italia
Tra le figure alle origini dell’interesse per il buddhismo in Italia [4] vanno segnalati l’italo-americano Salvatore Ciuffi (“Lokanatha”, 1897-1966), una figura nota e rispettata in Birmania e in India come monaco itinerante, e il professore Giuseppe Tucci (1894-1983), insieme insigne studioso e divulgatore, sulla base di un interesse personale, del buddhismo tibetano in Italia.
I praticanti buddhisti in Italia sono attualmente, come si è detto, circa cinquantamila (esclusi i membri della Soka Gakkai – che da sola costituisce l’organizzazione buddhista con il maggior numero di membri presenti in Italia [5] – e di altre tradizioni), oltre a circa venticinquemila buddhisti “etnici” immigrati dai paesi asiatici. Vi sono anche, distribuiti fra le varie tradizioni, una trentina di monaci ordinati italiani, e alcune monache che hanno pronunciato i voti minori.
La presenza buddhista in Italia comincia a farsi notare negli anni 1960, con la fondazione a Firenze della Associazione Buddhista Italiana e con la pubblicazione, dal 1967, della rivista Buddhismo Scientifico. Negli anni 1970 e 1980 questa presenza cresce, sia con l’influsso di maestri di scuola vajrayana profughi dal Tibet, sia con la diffusione dello zen, che si affianca alla già esistente presenza theravada. Per vie autonome, arrivano in Italia anche gruppi di tradizione Nichiren.
Nel 1981 Vincenzo Piga (1921-1998) fonda la rivista Paramita. Quaderni di Buddhismo per la pratica e per il dialogo, che continuerà la sua esistenza fino alla morte del fondatore. Vincenzo Piga è alle origini della nascita della Unione Buddhista Italiana (U.B.I.), mosso dal desiderio di una spinta unitaria nel buddhismo italiano, con l’idea di un’associazione che, rappresentando tutte le tradizioni buddhiste, si possa porre come tramite per i vari centri e nel contempo come referente unico del buddhismo italiano di fronte allo Stato.
È così che il 17 aprile 1985 si perviene a Milano alla formale costituzione, con atto pubblico, dell’Unione Buddhista Italiana (U.B.I.) con la partecipazione di nove centri di diverse tradizioni (saranno già diciotto nel 1986, trentacinque oggi, ma con varie domande di associazione pendenti). Con decreto del 3 gennaio 1991, successivamente modificato con decreto del 15 giugno 1993, l’U.B.I. ottiene il riconoscimento giuridico come ente di culto. Nel 1992 la sede legale passa da Pomaia (Pisa) a Roma.
Per norma dello statuto, l’U.B.I. non rappresenta alcun gruppo buddhista particolare, ma si propone di sostenere l’insieme del movimento buddhista italiano nel rispetto di tutte le tradizioni. Le finalità sono infatti principalmente quelle di riunire e assistere i diversi gruppi buddhisti, contribuire alla diffusione degli insegnamenti e delle pratiche della dottrina buddhista, sviluppare la collaborazione fra le diverse scuole buddhiste, favorire il dialogo con le altre comunità religiose, con i centri di impegno spirituale e con istituzioni culturali e accademiche su argomenti di interesse comune.
Attualmente i centri che aderiscono all’U.B.I. sono di tradizione theravada, zen e vajrayana. Sono prevalentemente dislocati nel Centro-Nord e a essi fa capo la grande maggioranza dei praticanti italiani (una cifra – come accennato – che non comprende i buddhisti “etnici” immigrati e quelli di tradizione Nichiren), cui vanno aggiunti circa diecimila simpatizzanti, che frequentano i centri in modo discontinuo.
Negli ultimi anni, l’U.B.I. ha promosso la creazione di reti regionali e interregionali di centri associati al fine di consentire una migliore reciproca conoscenza e collaborazione. Ogni anno i centri associati all’U.B.I. si radunano per la celebrazione del Vesak, e ogni quattro anni si tiene un congresso a livello nazionale su temi di interesse spirituale, al quale intervengono maestri di meditazione (anche stranieri) oltre che studiosi. L’U.B.I. è a sua volta associata, dal 1987, all’Unione Buddhista Europea (U.B.E.).
Il 20 marzo 2000 l’U.B.I. ha firmato con l’allora Presidente del Consiglio Massimo D’Alema l’Intesa ex articolo 8, III comma della Costituzione, accordo che – quando sarà trasfuso in legge – sostituirà nei confronti dell’U.B.I, degli organismi che essa rappresenta e di coloro che ne fanno parte, la normativa sui “culti ammessi” fino a oggi applicata. Tale accordo costituisce una novità: per la prima volta, lo Stato italiano ha avuto come interlocutore una religione che non proviene dal solco della tradizione ebraico-cristiana.
Un accordo quindi, come è stato rilevato, simbolo di integrazione in una società multireligiosa, multietnica e multiculturale. L’Intesa si sviluppa su linee guida comuni alle altre già stipulate: l’assistenza spirituale assicurata negli istituti ospedalieri, nelle case di cura e di riposo e negli istituti penitenziari; l’istruzione religiosa; il riconoscimento degli enti; la partecipazione alla ripartizione della quota dell’otto per mille dal gettito IRPEF; la possibilità di dedurre dal reddito imponibile delle persone fisiche fino a due milioni di lire all’anno per erogazioni liberali a favore dell’U.B.I.
Altre previsioni dell’Intesa attengono invece specificamente all’identità buddhista: così la tutela delle regole tradizionali per il trattamento delle salme, pur nel rispetto della normativa vigente in materia di polizia mortuaria; il riconoscimento della festività del Vesak, fissata convenzionalmente all’ultimo sabato e domenica del mese di maggio di ogni anno.
Non si rileva, nell’Intesa siglata, il riferimento al “maestro di dharma” (figura complessa che, pur differenziandosi nelle varie tradizioni, indica colui che è incaricato di trasmettere gli insegnamenti che da maestro a discepolo – secondo un lignaggio ininterrotto – sono pervenuti sino a noi), che era presente invece nelle precedenti bozze che l’U.B.I. aveva portato all’esame della Commissione interministeriale per le Intese con le confessioni religiose presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Vi è ora invece un ripetuto richiamo al “ministro di culto”, figura – con questa denominazione – invero ignota alla tradizione storica del buddhismo, ma più facilmente riconducibile al contesto italiano delle Intese.
Il buddhismo rappresentato dall’U.B.I. si connota per il forte spirito di apertura verso le altre religioni. In particolare sono intensi i rapporti con il mondo cattolico, con la frequente organizzazione di conferenze comuni, rapporti diretti con il Pontificio Consiglio per il Dialogo Inter-religioso, scambi di esperienze monastiche e inserimento di pratiche di meditazione buddhista in ambito cristiano. Importanti sono anche i rapporti con università italiane (a partire da Roma, Bologna, Napoli e Genova) che hanno specifiche cattedre dedicate al buddhismo. La rivista Dharma – Trimestrale di Buddhismo per la pratica e per il dialogo continua l’opera di Paramita. All’interno dell’U.B.I. opera anche una struttura con finalità più specificamente culturali: la Fondazione Maitreya di Roma.
Cenni sul buddhismo shingon
Nel periodo di Nara (710-784) il buddhismo giapponese sperimenta un tempo di crisi. Come reazione a questa crisi emergono due “sistemi” (chiamati in genere dagli studiosi, senza intenti peggiorativi, “sètte”), tendai e shingon. Se il “sistema” tendai comprende un esoterismo, lo shingon è – nella sua natura e nella sua essenza – esoterico. Shingon è la traslitterazione giapponese dell’espressione cinese chen-yen, un sistema di buddhismo tantrico con cui il monaco giapponese Kobo Daishi (Kukai, 774-835) entra in contatto durante un viaggio in Cina compiuto fra gli anni 804 e 806.
A sua volta, chen-yen è traduzione cinese della nota espressione sanscrita mantra (“parola vera”, o “parola di verità”), la quale allude al fatto che la verità ultima è contenuta, o almeno può essere catturata, da un suono. Lo shingon distingue fra mikkyo (insegnamento esoterico) e kengyo (insegnamento exoterico, fondato sulle scritture).
Secondo Kukai, l’insegnamento kengyo si riferisce a quanto è stato trasmesso dal Buddha storico, mentre l’insegnamento esoterico mikkyo deriva direttamente dal Buddha Mahavairocana, il “Buddha cosmico” che è la personificazione della verità. Benché lo shingon si interessi a un gran numero di scritture preesistenti alla sua fondazione, due sutra di carattere tantrico composti in India fra il VII e l’VIII secolo hanno particolarmente attirato la sua attenzione: il Mahavairocana Sutra e il Tattvasamgraha Sutra [6] .
Secondo una tradizione – la cui storicità è messa in dubbio dagli studiosi contemporanei – la prima scrittura viene dall’India del Nord e la seconda dall’India del Sud; i loro rispettivi principali traduttori cinesi, Subhakarasimha (637-735) e Vajrabodhi (671-741) si sarebbero incontrati per mettere insieme i rispettivi insegnamenti. Dal punto di vista storico, l’emergere di Kukai e dello shingon deve essere comunque letto nel contesto della decadenza di un buddhismo che offriva come prospettiva l’illuminazione solo al termine di un lunghissimo processo di numerose reincarnazioni.
In una prospettiva tantrica, lo shingon presenta invece l’illuminazione come qualcosa che può essere ottenuto da chiunque e in questa vita. Sulla base della dottrina dei tre corpi del Buddha, lo shingon afferma che la natura del Buddha Mahavairocana è presente in ogni uomo come “seme” dell’illuminazione (bodhicitta). Un’altra espressione centrale nel buddhismo shingon è tathagata, sulla cui traduzione ed etimologia gli studiosi contemporanei sono sovente in disaccordo.
Sulla base di una radice tathata, che indica l’”esserci”, il fluire della realtà ultima che non è né “questo” né “quello”, ma è insieme vuoto e manifestazione (“acqua e onda”), tathagata può essere reso come “essere andato” (nel mondo dell’illuminazione) o “essere venuto” (nel mondo della realtà empirica, per portarvi i benefici dell’illuminazione), e in questo senso è un epiteto del Buddha.
Nello stato di consapevolezza tathagata si fondono il cosmo conosciuto e la mente che lo conosce (che non sono veramente distinti). Lo shingon parla di sei elementi: i primi cinque (terra, acqua, fuoco, vento e spazio) costituiscono il conosciuto; il sesto (la consapevolezza) il conoscente. Due mandala – di origine cinese – sono particolarmente importanti nella tradizione shingon. Il primo, il garbhakosadhatu (o “matrice”) rappresenta il mondo conosciuto, o il contenuto del Mahavairocana Sutra, e consta di dodici riquadri. Il secondo, il mandala vajradhatu, si riferisce al conoscente (vajra, “cercatore della verità”) ed è a sua volta distinto in nove riquadri che rappresentano i livelli della consapevolezza.
La pratica dello shingon è divisa in due cammini: l’adhisthana, o realizzazione del mondo conosciuto, e la via del bodhisattva, nella quale i frutti della realizzazione si manifestano nella vita quotidiana. La parola adhisthana ha un significato esoterico, e si riferisce all’acquisizione di poteri eccezionali. In genere, fa riferimento ai “tre misteri” (sanmitsu) necessari per l’illuminazione del corpo, della parola e della mente: i mudra (una serie di posizioni), i mantra e la meditazione yoga.
Attraverso questi strumenti il praticante si identifica completamente con il corpo, la parola e la mente del Buddha Mahavairocana. Questa identificazione è dimostrata dall’ingresso nella via del bodhisattva: nella vita individuale fioriscono la carità, la moralità, la pazienza, l’alacrità, e la capacità di meditare.
Come studiosi recenti hanno mostrato, in questo quadro di origine cinese Kukai e la scuola shingon integrano una serie di elementi tipicamente giapponesi o derivati dalla più ampia tradizione del buddhismo mahayana. Dopo la morte di Kukai, il successo dell’esoterismo tendai relega lo shingon in una posizione secondaria. Kukai, peraltro, continua a essere venerato come uno dei grandi maestri del buddhismo giapponese e del buddhismo esoterico in genere.
La tradizione shingon – fra alti e bassi – continua fino al XX secolo, quando conosce un vero e proprio risveglio con una serie di movimenti che si diffondono anche in Occidente. Diversi dei movimenti che si possono chiamare neo-shingon sono presenti in Occidente, e particolarmente negli Stati Uniti; uno solo fra i maggiori, Shinnyo-en, è presente anche in Italia.
Shinnyo-en
L’oggetto del presente studio è, quindi, il resoconto di un’osservazione partecipante presso il tempio italiano – a Milano – di Shinnyo-en, un movimento buddhista giapponese, che si è protratta da gennaio ad aprile 2001, dopo precedenti incontri e contatti, avviati fra il 1999 e il 2000. Durante il periodo preso in esame, ho visitato il tempio nel capoluogo lombardo almeno due volte al mese, assistendo così alle cerimonie e ai rituali, condividendo la vita della comunità e svolgendo articolate interviste personali con dodici praticanti “selezionati”.
Come si è accennato, l’unica tradizione buddhista presente in Italia che origina la sua dottrina dalla scuola shingon, nata con il monaco giapponese Kobo Daishi (o Kukai) e considerata una variante del buddhismo tantrico a matrice esoterica, è l’ordine Shinnyo-en [7] . Non è tema di questo resoconto articolare i fondamenti storici e dottrinali di Shinnyo-en, che quindi saranno solo rapidamente sunteggiati.
Shinnyo-en è un ordine buddhista derivante dal lignaggio dell’esoterismo shingon, il quale si fonda sul Mahaparinirvana Sutra (“sutra del Grande Nirvana”), considerato come l’ultimo e definitivo insegnamento lasciato ai suoi discepoli da Gautama Buddha (563-483 a.C.?) al termine della sua vita. La nascita dell’ordine si deve a Fumiaki Ito (1906-1989) e alla sua moglie Tomoji Uchida Ito (1912-1967), meglio noti fra i loro seguaci, rispettivamente, come Kyoshu-sama e Shojuin-sama.
Prima del 1935-1936, la vita dei coniugi Ito non è particolarmente orientata: Fumiaki Ito nasce in una famiglia la cui madre è praticante di Tenrikyô – una delle maggiori nuove religioni giapponesi di origine non buddhista, fondata il 26 ottobre 1838 da Miki Nakayama (1798-1887) [8] – e il padre gli trasmette la scienza della divinazione Byozeisho, tramandata nella famiglia per generazioni. Quanto alla moglie (una sua lontana parente), la nonna era stata una persona dotata di “facoltà spirituale” (reinosha), che aveva trasmesso alla zia di Tomoji Ito, Tamae Yui.
Il 28 dicembre 1935 Fumiaki Ito – che da sette anni è impiegato come ingegnere presso la compagnia aeronautica Tachikawa – e la moglie consacrano nella propria abitazione la statua che riproduce l’immagine di Dainichi Daisho Fudo Myo-o (nota come la statua sacra dell’Achala), tradizionalmente attribuita allo scultore Unkei (?-1223), vissuto agli inizi dell’era Kamakura (1185-1333) [9] .
Così, nel gennaio 1936, i coniugi Ito – detti dai discepoli Sooya-sama – si impegnano in trenta giorni di austerità invernali (ora considerati dai praticanti il primo turno di “esercizi invernali” di Shinnyo-en) e il 4 febbraio 1936, all’una di mattina, Shojuin-sama riceve dalla zia Tamae Yui la “facoltà spirituale” con le seguenti parole: “Passa dall’essoterismo all’esoterismo, esercitati correttamente e sii consacrata fino in fondo alla Via per la salvezza dell’umanità e del mondo intero” [10] .
È così che, terminati gli “esercizi invernali”, l’8 febbraio 1936, i coniugi Ito decidono di intraprendere il cammino religioso nel contesto buddhista. Fumiaki Ito (più noto con il nome sacerdotale di Shinjo Ito) riceve quindi gli ordini monastici al monastero Daigoji, tempio principale della Scuola Daigo del buddhismo giapponese shingon, dove riceve la successione alla corrente esoterica mikkyo.
Superando alcune fra le massime pratiche ascetiche, gli è conferito il Denpo Kanjo, ovvero il rito con il quale si riceve la conferma di avere ottenuto il rango spirituale di un buddha, e il titolo di Grande Acharya. Nel ricercare la via che porta al nirvana, Shinjo Ito scopre il Sutra Mahaparinirvana, seguendo il quale giunge a quella che presenta come la sintesi di tutte le posizioni buddhiste sia exoteriche sia esoteriche.
In questo contesto, il Sutra Mahaparinirvana è considerato – appunto – il definitivo insegnamento predicato da Buddha negli ultimi momenti della sua vita, nel quale sono esposte le “Quattro Verità” (da non confondersi, in questo caso, alle “Quattro Nobili Verità” – universalità del dolore, origine del dolore, soppressione del dolore, cammino che conduce alla soppressione del dolore -, usualmente associate nel buddhismo agli “Otto sentieri della perfezione”: corretta comprensione, corretto pensiero, corretta parola, corretto modo di vivere, corretta attenzione, corretta concentrazione, corretta azione, corretti sforzi): (1) come corpo della Legge, il Buddha Tathagata dimora eternamente nel cuore del sutra del grande nirvana per guidare tutti gli esseri alla felicità finale; (2) il Jo-Raku-Ga-Jo indica la gioia che si può provare abbandonando tutte le impurità per vivere finalmente quaggiù in perfetta armonia con il Buddha; (3) tutti gli esseri viventi possono raggiungere l’illuminazione quando riescono a praticare l’insegnamento, facendo così risplendere la natura di Buddha, che possiedono nel più profondo del loro cuore; (4) gli Ichantika (coloro i quali, avendo rotto tutte le radici che lo legano a Buddha, vivono senza preoccuparsi di raggiungere un giorno il nirvana) potranno essere salvati dal Sutra Mahaparinirvana, anche se gli insegnamenti precedenti negavano loro ogni speranza di salvezza [11] .
Dal punto di vista organizzativo, Shinnyo-en nasce il 21 giugno 1951, come riorganizzazione di precedenti gruppi e movimenti, sulla base degli insegnamenti dei Sooya-sama: dalla primavera del 1936 alla fine del 1937 l’ordine è chiamato Rissho-kaku, e dai cinquanta aderenti iniziali arriva a contarne fino a duecento; il 15 luglio 1938 è approvata la fondazione della Chiesa dell’Achala di Tachikawa; e il 23 gennaio 1948 il movimento assume il nome di Ordine Religioso Makoto.
Attualmente vi sono circa 800.000 fedeli praticanti di Shinnyo-en in ogni parte del mondo, e l’ordine si è espanso al punto che luoghi di culto sono stati fondati in Asia, negli Stati Uniti e in Europa (dove Shinnyo-en è presente particolarmente in Francia, Belgio, Inghilterra, Italia, Germania e Spagna). Dal Tempio Madre in Giappone, Shinnyo-en è guidato dal 1989 dalla figlia del fondatore, Shinso Ito (nata il 25 aprile 1942), nota ai discepoli come Keishu-sama, e da costoro ritenuta avergli succeduto sia nella forma sia nello spirito.
Shinnyo-en in Italia
Le origini della presenza di Shinnyo-en in Italia si situano all’inizio degli anni 1980, tramite l’incontro – a Parigi – di un gruppo di amici giapponesi residenti in Italia con la signora Yoshida. Hanno così inizio delle informali attività e riunioni di preghiera, che sono accompagnate dalla frequentazione saltuaria del tempio francese (il primo a essere inaugurato, in Europa), consacrato nel 1985.
Originariamente, come si è accennato, le prime persone che si collegano a Shinnyo-en in Italia sono giapponesi (studenti e lavoratori), e le testimonianze raccolte sottolineano come i primi italiani che si avvicinano a Shinnyo-en sono anzitutto incuriositi dalla cultura giapponese. Peraltro, sin dall’inizio della storia italiana di Shinnyo-en, anche i fedeli giapponesi che fanno richiesta di collegamento all’ordine non sono nati in famiglie di fedeli, e si accostano invece a questa scuola come a una novità.
Come ricorda una fedele di Shinnyo-en residente in Italia da alcuni decenni – la signora Yasuko Tominaga, che nel frattempo ha acquisito la facoltà spirituale quale reinosha -, vi è nell’approccio a Shinnyo-en una centralità determinante della “parola spirituale” ricevuta nel corso delle sedute di sesshin.
Si tratta di un esercizio di meditazione davvero peculiare a Shinnyo-en (per quanto esista una pratica terminologicamente analoga nel buddhismo zen), che può considerarsi a pieno titolo il nucleo dell’esoterismo Shinnyo [12] , oggi considerato – per esempio nelle parole di Yoshu Okada, abate del monastero Daigoji – una terza corrente esoterica del buddhismo giapponese, “in aggiunta alle due correnti esoteriche tradizionali, quella Shingon e la Tendai […], e perciò oggi il Giappone è la casa di tre forme salienti di buddhismo esoterico” [13] .
Nel corso di sedute apposite, il reinosha fa da specchio che riflette il cuore del praticante e lo aiuta attraverso le indicazioni ricevute dal mondo spirituale a colmare le proprie lacune e meglio indirizzarlo verso il vero cammino della fede, qui inteso come l’altruismo mahayana, su cui si basa Shinnyo-en.
Nel sesshin, cioè, si manifesta primariamente la facoltà spirituale, che assieme alla corrente del Dharma del buddhismo esoterico tradizionale e ai principi dottrinali del Mahaparinirvana Sutra, è una delle tre componenti indispensabili e inseparabili dell’esoterismo Shinnyo. Vi è stato chi ha interpretato le sedute di sesshin come una forma peculiare di “sciamanesimo” [14] , ma a prescindere dall’universo che l’etimo può significare, vale la pena di ricordare quanto ha precisato sul punto Junno Nakata, segretario generale della Scuola Daigo del buddhismo giapponese shingon: “Un elemento distintivo di Shinnyo-en è l’esistenza della facoltà spirituale Shinnyo. Non si tratta di qualcosa di sciamanistico nella natura, ma è incorporato in una dottrina compiuta e profonda” [15] .
Nel frattempo, nel 1989 i fedeli in Italia di Shinnyo-en sono circa novanta (l’80% dei quali giapponesi), e una decina di questi frequenta con una certa regolarità il tempio di Parigi. Così, il 13 novembre 1990, la nuova guida di Shinnyo-en – Keishu-sama – inaugura a Milano il primo tempio italiano [16] . Con l’inaugurazione del tempio e le prime parziali traduzioni in lingua italiana delle sacre scritture del movimento (i cinque tomi del libro Ichinyo-no-michi, “Il cammino dell’unione con la Verità” [17] ) si prefigura la possibilità di un ampliamento della diffusione di Shinnyo-en, particolarmente fra gli italiani.
Gli annuali “esercizi invernali” – che riprendono la pratica di dedizione attuata dai fondatori, nel 1936, quale cammino di purificazione e pratica – sono l’occasione di un rinnovato fervore tra i fedeli e di collegamento da parte di nuovi membri. Così, per esempio, nel corso degli “esercizi invernali” del 2001 – svolti fra il 20 gennaio e il 2 febbraio – ci sono stati dieci nuovi collegamenti, con una partecipazione complessiva di circa 750 persone, il 70% dei quali italiani.
Il progressivo aumentare dei fedeli ha indotto Shinnyo-en a trovare un luogo più consono per lo svolgimento delle proprie attività, e così il tempio è stato ufficialmente aperto in una nuova sede e consacrato – ancora una volta da Shinso Ito, attuale guida dell’ordine -, il 10 ottobre 1999 [18] . Attualmente, Shinnyo-en è attivo in Italia con circa 500 membri. Di questi, circa 200 sono italiani, come pure circa 200 sono quelli assidui nella pratica.
Oltre che dal tempio di Milano, Shinnyo-en svolge le sue attività e diffonde i suoi insegnamenti a Trieste, Firenze, Roma e Napoli, e cura periodicamente la missione di Santander, in Spagna. Al progressivo diffondersi del movimento in Italia ha contribuito indubbiamente anche la creazione delle prime “guide spirituali” (reinosha) italiane. Dei circa 1500 reinosha a livello internazionale, sei sono quelli residenti in Italia: due italiani (entrambi maschi) e quattro giapponesi (tre donne e un uomo).
Le attività interne a Shinnyo-en si esplicano, come accennato, attraverso l’esercizio di meditazione chiamato sesshin, oppure tramite le sedute meditative speciali conosciute come eza, predisposte per coloro i quali desiderano inoltrarsi ancora più avanti nel dirigere i propri sforzi spirituali. In aggiunta all’esercizio meditativo, i fedeli con i requisiti necessari possono anche seguire la scuola di Chiryu, dove gli studenti imparano la dottrina buddhista e sono iniziati ai più elevati aspetti esoterici dell’insegnamento di Shinnyo-en.
Vi sono inoltre varie occasioni rituali comunitarie al mese, alle quali partecipano normalmente alcune decine di persone. Inoltre, i membri collegati si riuniscono mensilmente nelle “riunioni di linea”. Infatti, ognuno è collegato a Shinnyo-en attraverso un “genitore guida”. Si tratta della persona che ha introdotto il praticante nell’ordine ed è colui che aiuta il nuovo fedele nella pratica. Il sistema dei “genitori guida” è ulterioremente collegato a quello dei “genitori di linea”, che guidano i figli spirituali attraverso i vari “genitori guida” e “figli guida”. In Italia esistono quattro “genitori di linea”, di cui tre giapponesi (donne) e un italiano (uomo).
Tuttavia, l’autentica espressione del proprio collegamento a Shinnyo-en si esprime mediante l’allenamento quotidiano costituito dalle Tre Pratiche (Mitsu-no-ayumi). Le Tre Pratiche – kangi, gohoshi e otasuke – sono una forma concentrata degli esercizi tradizionali buddhisti (le sei paramita: carità, moralità, pazienza, devozione, meditazione, saggezza). La pratica kangi si riferisce alle offerte fatte con gioia, ed è associata alla purificazione della mente.
Quella di gohoshi significa “servigio” ed è associata alla purificazione del corpo (abitualmente prende la forma di servizio volontario presso Shinnyo-en o nella società). La pratica di otasuke si riferisce al condividere l’insegnamento con gli altri, collegandoli al Buddha; questa pratica è connessa con la purificazione della bocca, e quindi delle parole.
Nel corso di una serie di interviste con appartenenti italiani a Shinnyo-en compiute nei primi mesi del 2001 [19] sono emerse alcune linee generali che vale la pena di riassumere. Anzitutto, come abbiamo già accennato, vi è nell’approccio a Shinnyo-en una centralità determinante della “parola spirituale” ricevuta nel corso delle sedute di sesshin, la quale spinge il fedele a orientare la propria etica e il proprio comportamento.
Sulla base delle indicazioni ottenute dal “mondo spirituale” attraverso il reinosha, l’aderente a Shinnyo-en tende così a modificare positivamente la propria vita, essendo anzitutto indotto a esercitarsi nelle Tre Pratiche. Inoltre, come riassume efficacemente Naomi (collegata da 7 anni), la pratica del sesshin “indica la strada più breve, la via per estirpare il karma negativo”. Secondariamente, come ha ricordato un intervistato (Roberto, 42 anni), l’insegnamento di Shinnyo-en si caratterizza per la tendenza a evitare le intellettualizzazioni.
È questo un aspetto che può colpire l’osservatore esterno, il quale sarebbe portato a cercare un elevato tasso di concettualizzazione, in un movimento che si vuole di impronta esoterica. Tuttavia, come molti intervistati hanno sottolineato, “l’insegnamento di Shinnyo-en passa attraverso le cose pratiche che ciascuno sa fare”. Peraltro, sembra potersi dire che un certo numero di collegati a Shinnyo-en abbia conosciuto l’ordine in maniera tutto sommato ordinaria, e vi si sia collegato ben presto come orientato da un intreccio di coincidenze, che in alcuni casi ha per così dire concluso un itinerario di ricerca spirituale.
Ancora, un elemento che è stato pressocché unanimamente ricordato dai membri intervistati, è il senso di tranquillità, di semplicità e di serenità che hanno percepito frequentando Shinnyo-en, accedendo ai locali del tempio, intrattenendovi i primi colloqui.
Dodici interviste, per quanto approfondite, non sono probabilmente sufficienti per elaborare un modello generale di conversione a Shinnyo-en, e siamo certi della complessità della tematica della conversione in generale nelle discipline socio-religiose.
Consapevoli dei diversi “tipi di modelli della conversione” usualmente impiegati (per esempio: fenomenologici, storici, psicologici, antropologici, sociologici), abbiamo indubbiamente verificato anche noi come pure in Shinnyo-en vi sia la presenza – tipicamente riscontrata nello studio della religiosità giapponese, puntualmente ricostruita nell’opera di George J. Tanabe e Ian Reader Practically Religious [20] – di dinamiche della conversione in cui ha un certo rilievo la soddisfazione di “benefici pratici” (genze riyaku).
Detto questo, se è vero che alcuni intervistati hanno evidenziato come il collegamento e la pratica in Shinnyo-en abbiano causato l’ottenimento di benefici materiali, nondimeno al progressivo radicarsi del proprio collegamento – tramite la socializzazione e l’appartenenza duratura – è subentrato un superamento di questa prima preoccupazione per portarla al livello della ricerca e dell’illuminazione interiore.
Diversamente, esaminando le varie dimensioni che possono concorrere a un’ipotesi di modello interdisciplinare della conversione (la persona del convertito, il gruppo religioso a cui ci si converte e la società come partner indiretto del processo di conversione), dovremmo prendere in considerazione anche il sistema di credenze da cui il convertito proviene nell’accedere alla sua nuova identità religiosa, e che costituisce il terminus a quo della conversione [21] .
In questo caso, allora, l’esempio di Shinnyo-en in Italia si rivela particolarmente utile per svolgere qualche considerazione di quadro su quello che recentemente la sociologa francese Danièle Hervieu-Léger ha definito un “mercato simbolico aperto” [22] . In effetti, durante le interviste svolte con i membri italiani di Shinnyo-en ci siamo sentiti ricordare a più riprese: “La mia esperienza cristiana è in continuo contatto con la mia parte buddhista: sono cristiano e buddhista” (Giovanni, collegato da sette anni); “Sono cattolico e seguo l’insegnamento di Shinnyo-en per seguire meglio la mia fede” (Antonio, collegato da tre anni); “Attraverso Shinnyo-en ho capito cos’è la messa cattolica” (Antonietta, collegata da circa un anno); “Non c’è niente di anormale, per me, a entrare in chiesa e farmi il segno della croce con consapevolezza ed entrare nel tempio e fare tre inchini” (Roberto, collegato da sette anni); “Da quando sono entrata in Shinnyo-en ho capito la Bibbia” (testimonianza videoregistrata di Maria; Monaco di Baviera); “Io sono buddhista e cristiana, e vorrei aiutare il mio prossimo a capire che non vi è contraddizione” (Antonella, collegata da sei anni).
Questi esempi, da inquadrarsi nella descrizione che ci è stata offerta da un sociologo giapponese collegato a Shinnyo-en, secondo il quale “in Europa pochi fedeli di Shinnyo-en si considerano buddhisti, quanto piuttosto seguaci di Shinnyo-en”, offrono spunti interessanti che rinnovano l’interesse per l’ampia letteratura sul believing without belonging originariamente discusso dalla sociologa inglese Grace Davie [23] .
Non a caso, la già citata sociologa francese Danièle Hervieu-Léger ha recentemente accostato la nota categoria di Grace Davie parlando di un “nuovo regime della verità” [24] , commentando fra l’altro le inchieste di Frédéric Lenoir sul buddhismo in Francia. In Le bouddhisme en France, il sociologo francese nota come quanti affermano di non considerarsi buddhisti poiché cristiani, ma che tuttavia praticano la meditazione in un contesto buddhista, “per quanto spiritualmente assai coinvolti nel buddhismo, rifiutano il principio della doppia appartenenza religiosa e considerano piuttosto il buddhismo come uno spazio intellettuale e spirituale aperto, ove trovano gli atrezzi che permettono loro di vivere ed esprimere più compiutamente la loro fede religiosa” [25] .
Il bisogno di un passaggio o di una mediazione buddhista per l’ottenimento di una appropriazione personale della propria identità religiosa in Shinnyo-en sembra così concretizzarsi, infine, attraverso un paradossale (sia detto senza alcuna connotazione valutativa) “appartenere a prescindere dal credere” che merita senz’altro maggiori approfondimenti, sebbene ci sembrino necessari ulteriori studi e comparazioni con altri gruppi buddhisti italiani, al fine di ottenere risultati qui solo accennati.
NOTE
[1] Cfr. Massimo Introvigne – PierLuigi Zoccatelli – Nelly Ippolito – Verónica Roldán, Enciclopedia delle religioni in Italia, Elledici, Leumann (Torino) 2001.
[7] Non esistono fonti secondarie in lingua italiana a proposito di Shinnyo-en. Cfr. Peter B. Clarke (a cura di), “Shinnyoen. “Garden of Absolute Reality””, in Idem, Bibliography of Japanese New Religions with Annotations and an Introduction to Japanese New Religion at Home and Abroad. Plus an Appendix on Aum Shinrikyo, Japan Library, Richmond (Surrey) 1999, pp. 231-234; e Keishin Inaba, “Shinnyo-en as a whole: its Buddhist tradition and innovation”, relazione presentata alla London School of Economics, in occasione del convegno internazionale organizzato da INFORM e CESNUR, The Spiritual Supermarket: Religious Pluralism in the 21st Century (Londra, 19-22 aprile 2001; non pubblicata).