Cos’è un regime comunista nell’anno 2013? E’ il posto dell’equa distribuzione della miseria, delle spie, del lager e dove il cibo ha il sapore dell’erba e dei topi. Tempi ha incontrato una nord coreana in fuga. E questa è la sua storia.
di Leone Grotti
Per sapere che cosa significa vivere sotto il regime più liberticida e spietato del mondo bisogna parlare con Hea Woo. Nata nel 1950 in Corea del Nord nella provincia di Kangwon, nel sud del paese, ha imparato fin da piccola, a scuola, che il dittatore «Kim Il-sung era un dio». Ha perso una figlia, morta di fame nella grande carestia che ha colpito il paese negli anni Novanta. Suo marito è stato ucciso in un gulag e lei, convertitasi al cristianesimo, dopo essere scappata in Cina per due volte e per due volte rimpatriata in Corea del Nord, ha vissuto sulla sua pelle le violenze e le torture del gulag, «l’inferno in terra», dove è stata rinchiusa per quattro anni prima di fuggire di nuovo e diventare libera nel 2010.
Hea Woo è un nome fittizio, quello vero non può essere rivelato per ragioni di sicurezza e per lo stesso motivo non si lascia fotografare. In via eccezionale ci viene concesso di registrare la sua voce, a patto che non venga diffusa in alcun modo. Tempi ha incontrato a Milano questa donna di 63 anni, minuta di corporatura ma dotata di una forza straordinaria. Il merito è dell’organizzazione Porte Aperte, che da anni aiuta economicamente 56 mila cristiani dentro il paese e almeno tremila rifugiati nordcoreani.
Il padre morto nella guerra di Corea e la madre sempre al lavoro, Hea ha vissuto la sua infanzia come tutti i bambini nordcoreani: educata a scuola dallo Stato. «In classe ci insegnavano che Kim Il-sung era un dio, il padre di tutti ed era solo merito suo se eravamo così felici. Pensavamo che senza Kim fosse impossibile vivere e ci dicevano che essendo lui il leader migliore che ci potesse essere, non solo noi ma tutto il mondo lo lodava e venerava»
Un’educazione familiare alternativa «non poteva esistere» e a parte qualche «incidente», così viene chiamato tutto ciò che esce dallo schema di vita preparato per ogni cittadino dallo Stato, la vita scorre tranquilla: «Ero felice da giovane: ci pagavano il lavoro con un po’ di soldi e con due razioni di cibo al mese, che bastavano per vivere bene. Allora pensavo che mangiare e vivere grazie alla benevolenza di Kim Il-sung fosse la vera libertà».
Hea Woo studia da medico, si sposa nel 1967 e la sua vita viene benedetta da quattro figli. I problemi cominciano negli anni Novanta, «quando la distribuzione di cibo cominciò a essere irregolare e le razioni scarse». Erano gli inizi di una delle più grandi tragedie della storia, una carestìa che si portò via soprattutto tra il 1995 e il 1999 circa tre milioni di vite e causata dalla scellerata politica autarchica comunista, unita a un periodo di gravi inondazioni e alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, che aveva sempre aiutato economicamente la Corea del Nord.
«Tra il 1996 e il 1997 morirono tantissime persone, non c’era niente da mangiare e le famiglie abbandonavano i loro figli per strada. Mi è rimasto impresso un ricordo: durante un inverno freddissimo, la gente non aveva niente con cui riscaldarsi e assaliva la stazione ferroviaria per dormirci dentro. Le autorità chiusero i portoni e non fecero entrare tutti. Non so dire quante persone morirono congelate».
Ma non fu il freddo la causa principale della strage: «Ogni giorno sentivamo di un padre, di una madre o di un figlio morto di fame. Ogni giorno. In primavera e in estate si andava sulle montagne per cercare qualcosa da mettere sotto i denti: strappavamo l’erba e la corteccia degli alberi, anche se era vietato. Molti si ammalavano come successo a un mio familiare: aveva raccolto erbe velenose e dopo averle mangiate gli si è gonfiata tutta la faccia, non riusciva più aprire gli occhi e alla fine è rimasto paralizzato».
Pur di procurarsi del cibo le famiglie «vendevano tutto quello che avevano»: tavoli, armadi, letti, utensili. La gente inizia addirittura a rubare: «I ladri non erano mai esistiti, siamo rimasti sgomenti quando ci hanno derubato quel poco che avevamo per tre volte». Hea sembra fatta di acciaio: racconta tutto restando impassibile. Si ferma, sospettosa, quando le domande entrano troppo nel dettaglio e si commuove solo quando arriva il momento di parlare di due episodi troppo dolorosi: «Per il matrimonio, la mia mamma come regalo mi aveva cucito a mano una coperta. Durante la carestia per comprare qualcosa da mangiare ho dovuto tagliarla e venderne una metà»
La fase più terribile della carestia
Ma il periodo più difficile «è giunto dopo: da mangiare non c’era proprio più niente, dormivamo per terra, al freddo, io e mio marito di notte ci alzavamo per vedere se i nostri figli respiravano ancora, poi quando eravamo troppo deboli per farlo davamo loro dei piccoli calci con i piedi per scuoterli. La mia prima figlia è morta di fame quando aveva solo 26 anni. Era così giovane. Avrei voluto morire io al suo posto, ma non è stato possibile».
La fase più terribile della carestia ha colpito la Corea del Nord alla fine del governo di Kim Il-sung, morto nel 1994, e all’inizio di quello di suo figlio Kim Jong-il. Nonostante i cadaveri riempissero le strade, nessuno metteva in discussione la bontà del sistema comunista. «Noi sapevamo che Kim Il-sung era il miglior leader possibile. Dopo la sua morte ci hanno detto che la carestia era colpa degli americani e della Corea del Sud che attraversavano una crisi, ci invidiavano e ci affamavano per distruggerci. Noi abbiamo creduto a tutto»
La famiglia di Hea comincia a nutrire dubbi solo dopo l’arresto di uno zio: «Insegnava all’università. Da un giorno all’altro è stato mandato in un campo di lavoro, dove è morto. Non ci hanno mai spiegato perché ma deve aver detto qualcosa di sbagliato sul governo e uno studente l’ha denunciato. Noi ci siamo chiesti: “Ha sempre lavorato bene, perché ce lo portano via?”. Poi i suoi figli, che studiavano all’università Kim Il-sung, sono stati espulsi e mandati a vivere in campagna. Perché? Cosa c’entravano loro?».
Quando le condizioni di vita cominciano a farsi insopportabili, il marito di Hea decide nel 1996 di scappare in Cina, dove si converte al cristianesimo ma viene scoperto dalle spie del regime e rimpatriato.
In Corea del Nord viene accusato «di essere una spia e di voler evangelizzare il paese»; morirà dopo «sei mesi di torture» in un campo di lavoro. «Io ero atea – continua Hea parlando della fede del marito – lui invece veniva da una famiglia cristiana. Anche mia mamma era cristiana, anche se io l’ho scoperto solo quando avevo ormai più di 40 anni».
Com’è possibile? «In Corea del Nord c’erano tanti cristiani prima del comunismo, che ha cercato di cancellare ogni traccia della religione e ha vietato il culto. Chi è scoperto in possesso di una Bibbia viene giustiziato o mandato in un campo di lavoro». Ma la fede, nascosta, vive ancora in molti nordcoreani, come la madre di Hea. «Un giorno, da piccola, giocavo fuori casa e sono rientrata all’improvviso. Ho trovato sul tavolo la collana di mia mamma con appeso un crocifisso. Quell’uomo mi ha fatto impressione: non l’avevo mai visto e le ho chiesto chi fosse e cosa avesse fatto per essere trattato così. Mia mamma non mi ha risposto, si è spaventata moltissimo e ho dovuto prometterle che mai avrei parlato di quella cosa. Io non capivo, allora non sapevo neanche che esistesse Gesù»
Hea passa di memoria in memoria: «Ricordo anche che da bambina a volte mi svegliavo e sentivo che in cucina mia mamma mormorava. Appena mi vedeva arrivare, taceva di colpo. Allora pensavo che fosse un po’ matta, solo dopo ho capito che pregava di nascosto. Ora che sono uscita dalla Corea del Nord e vedo i bambini che vanno in chiesa penso sempre a quanto sono fortunati: io non potevo neanche immaginarmi che esistesse un Dio».
A sua insaputa, però, la madre è riuscita a parlarle della fede: «Quando eravamo in difficoltà, mi diceva di essere paziente perché il cielo ci guardava. Io non capivo cosa volesse dire ma lei ripeteva che il cielo ci proteggeva. Poi la vedevo dividere sempre con gli altri il poco che avevamo e pensavo che lo facesse perché era buona, invece lo faceva per Gesù. Solo quando sono scappata anch’io in Cina e ho visto un crocifisso, mi hanno spiegato per la prima volta chi era quell’uomo. Allora ho capito tutto di mia mamma e mi sono convertita».
Il rimpatrio forzato
La prima fuga di Hea dal regime è rocambolesca: «C’era un ponte che collegava i due confini. In mezzo scorreva un fiume, era agosto, pioveva e le acque rombavano ingrossate e impetuose». Molti, di notte, cercavano di passare a nuoto ma «sono stati tutti trascinati via dalla corrente». Un amico invece le mostra il punto migliore per la traversata: «Mi sono aggrappata a una corda di ferro che si trovava proprio sotto il ponte presidiato dalle guardie – spiega miniando la fuga -. Ci ho messo ore a passare dall’altra parte aggrappata a quel filo. Poi, grazie a un buco nelle recinzioni, io che ero piccola e magrissima sono riuscita a entrare in Cina».
Qui, aiutata da gruppi di cristiani, si converte e si nasconde. Ma «le città cinesi sono piene di spie e mi hanno scoperta». Per due volte scappa e poi viene rimpatriata. «Tra la prima e la seconda volta ho vissuto in tutto in dieci prigioni: l’ultima era un campo di lavoro». Anche se la prigione non è paragonabile al gulag, «l’inferno sulla terra», vivere in cella è terribile: «Non ci davano quasi niente da mangiare. Tanta gente attorno a me è morta di fame, altri invece sono diventati pazzi»
Ma le punizioni più dure spettano ai cristiani e quindi a Hea, «visto che qualche mio compagno di cella mi ha tradito rivelando la mia fede». Per lei comincia un periodo fatto di «pestaggi etorture»: «Una volta mi hanno chiuso le gambe nei ceppi e mi hanno picchiata così tanto da rompermi il tendine della spalla sinistra. Mentre mi colpivano io pregavo Dio, perché avevo paura, e a un certo punto ho smesso di sentire dolore». Hea descrive il «miracolo» che ha vissuto con la stessa naturalezza di quando parla degli amici morti di fame, come se l’uno e l’altro non fossero eventi eccezionali ma quotidiani: «Loro andavano avanti a picchiare e io ero stupita perché non soffrivo più.
Quando mi hanno riportata in cella ho sentito in modo distinto e chiaro una voce che mi ha detto: “Figlia mia, oggi hai camminato sulle acque con me”. Mi sono voltata di scatto ma nessuna delle mie compagne di cella aveva parlato. Oggi so che è stato un miracolo e che a parlarmi era Dio. Da quel giorno non mi hanno più torturata».
Ma i giorni peggiori doveva ancora affrontarli. Hea non vuole «dire tutto quello che ho vissuto nel gulag, perché alcune cose non possono essere nominate». È troppo doloroso ricordare tutti i dettagli di un trattamento disumano che porta gli internati a pensare, come animali, a una sola cosa: il cibo. «Era un’ossessione, eravamo sempre affamati. Ci davano appena un po’ di mais macinato, che restava troppo duro da mangiare, a volte della soia, che non avrebbe riempito neanche un bicchiere di plastica e raramente un po’ di zuppa di cavolo fatta però con gli scarti, con le foglie esterne». Il nome che i prigionieri davano alla zuppa è “ali di corvo”, «perché diventava tutta nera». Di fame si moriva tutti i giorni e «chi sopravviveva perdeva i capelli e si ammalava».
Nel gulag si mangia tutto quello che si trova a portata di mano, per quanto disgustoso: «Appena trovavamo un ciuffetto d’erba lo strappavamo. Ma mangiavamo anche topi e serpenti o escrementi».
Nel gulag non si può essere amici
II cibo è un chiodo fisso nei campi di lavoro e questo mette doppiamente alla prova un detenuto perché l’unico modo per restare vivi è non pensarci: «Appena entri ti dicono subito che chi pensa sempre a mangiare muore prima, ma non è facile in quelle condizioni». Nei campi non c’è neanche l’acqua, «a parte quella inquinata che bevevamo e ci faceva venire un perenne mal di stomaco». Tutto il giorno si lavora e non c’è pace neanche di notte perché «nelle baracche di legno fa troppo freddo e non si riesce a dormire, ci svegliavamo in continuazione, non avevamo coperte e per non restare congelati dovevamo muoverci ogni tanto».
In quei momenti, l’unico conforto può venire dalla condivisione con gli altri detenuti ma le guardie comuniste stanno attente a rendere impossibile anche la più basilare solidarietà umana: «Dentro il campo di lavoro non si può essere amici. Tutti potrebbero fare la spia e denunciarti. Non devi fidarti di nessuno». In sintesi, descrive così il gulag: «Una continua tortura. Pensavo spesso alle piaghe d’Egitto raccontate nella Bibbia: sembrava di viverle tutte insieme».
In quattro anni di campo di lavoro, le è rimasta impressa un’immagine in particolare: «Quando i detenuti morivano, le guardie bruciavano il loro corpi e spargevano le ceneri sulla strada. Noi camminavamo su quella strada ogni giorno e io pensavo che prima o poi gli altri prigionieri avrebbero camminato anche su di me»
Quella di Hea Woo è una storia costellata dal dolore. Eppure lei a fine intervista sorride, il male che ha vissuto non l’ha sconfitta: «Io pur soffrendo ho sempre saputo che Dio mi aspettava. Lui non mi ha mai abbandonata in quegli anni e mi ha dato il coraggio di raccontare agli altri la mia conversione: cinque persone, con cui tenevo incontri segreti nei cessi, hanno seguito la mia strada cristiana dentro il gulag».
Oggi Hea è uscita dall’inferno in cui è stata rinchiusa. Vive in Corea del Sud con i figli ma gira il mondo per raccontare la sua storia: «Tutti devono sapere che cosa succede in Corea del Nord. Il regime comunista ha sbagliato così tanto e spero che le due Coree si riuniscano presto perché ci sono stati troppi morti, troppe ingiustizie e troppo male. Io prego sempre per questo e so che quando Dio vorrà, torneremo a essere uniti»